Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Parlando di poesia, già negli anni Settanta, un grande critico come Harold Bloom parlava di angoscia dell’influenza. Non si può non essere influenzati, e ogni autore sa che passerà alla storia per la sua originalità: per questo, secondo Bloom, si percepisce sempre in un autore un’angoscia relativa alle influenze che agiscono su di lui, e che possono diminuire la sua portata innovativa. Ma un autore consapevole sa che l’influenza degli autori precedenti è non solo inevitabile, ma anche qualcosa che può essere fruttuoso se la si sa controllare. Chi legge apprezza sì l’originalità, ma ha bisogno pure di riconoscere forme e modi che gli siano familiari. Così, un’opera riuscita è sempre il prodotto del rapporto tra una qualche tradizione e un qualche tradimento nei suoi confronti: se non ci fosse un qualche rispetto della tradizione probabilmente non daremmo nessun valore all’opera; se non ci fosse del tradimento (ovvero dell’innovazione) la troveremmo noiosa e basta, già letta, già vista.
Marco Corona non ha mai fatto mistero della propria influenzabilità. Nel 2016, in un incontro pubblico durante il festival Bilbolbul, a Bologna, che gli aveva dedicato una grande mostra alla Pinacoteca Nazionale, Corona dichiarò proprio di avere realizzato ciascuno dei suoi lavori sotto il profondo influsso delle sue passioni del momento. E se conoscete un po’ di storia del fumetto, non farete fatica a riconoscere queste influenze nel lavoro di Corona.
Rimane il fatto che gli organizzatori di Bilbolbul hanno avuto pienamente ragione a dedicare una grande mostra in una sede prestigiosa a questo autore così influenzabile. Perché Marco Corona è oggi uno degli autori italiani più interessanti, e tanto più apprezzabile perché ha cambiato stile praticamente per ogni opera che ha realizzato, in barba al principio imperante nell’editoria e nella critica, secondo il quale un autore è tale perché ha uno stile, e quello stile è riconoscibile e lo caratterizza; un principio che certamente facilita la vita degli editori (perché i lettori riconosceranno più facilmente lo stile che già conoscono, e più facilmente acquisteranno) e dei critici (perché è più facile parlare di un solo stile che di tanti differenti).
Le pagine che trovate riprodotte qui provengono da un libro, Krazy Kahlo, che in realtà contiene due opere distinte. C’è una prima parte, che è la vera e propria Krazy Kahlo, realizzata per l’edizione del 2016; e c’è una seconda parte già pubblicata nel 1998 col titolo Frida Kahlo, una biografia surreale. Entrambe le sezioni sono di grandissimo valore, ma basta uno sguardo per vedere bene le differenze, e magari per capire che cosa stava affascinando Corona in quel periodo.
Se guardiamo la pagina del ’98, ritroviamo con una certa facilità diversi autori italiani degli anni Ottanta, tra cui certamente Andrea Pazienza e Massimo Giacon. E Corona non poteva non conoscere la biografia a fumetti di Frida realizzata nel 1988 da Beto Hernandez, altrettanto surreale (seppur in forme diverse) e dal segno altrettanto nitido. Le influenze si vedono, e bene, ma proprio per questo diventano chiaramente parte del discorso. Se c’è qualcosa che hanno in comune questi tre autori è proprio la capacità di raccontare con ironia storie drammatiche, in modo che l’ironia possa far ridere senza sminuire la portata del dramma, e in modo che il dramma possa commuovere senza togliere comicità alla situazione. In questa pagina Diego Rivera, il marito di Frida, è nei panni di un dottor Frankenstein sul punto di dar vita alla sua creatura, e la sua creatura sarà proprio lei, Frida, mezza naturale e mezza artificiale anche nella realtà, come la Storia ci racconta, a causa di un incidente che quasi le costò la vita, e da cui dovette essere ricostruita chirurgicamente con varie protesi ossee.
Corona sembra lavorare con una serie di elementi culturalmente già molto caratterizzati. Ma la mescolanza è originale e l’effetto dirompente. Le influenze si vedono benissimo, perché sono proprio ostentate; ma sono ostentate perché sono ormai puro materiale di lavoro, elementi del puzzle che l’autore sta costruendo, e quello è davvero originale.
Questa strategia si vede ancora meglio nelle due pagine del 2016, parte di un lavoro palesemente dedicato a George Herriman e al suo Krazy Kat. Frida sta, molto dolorosamente, morendo, e l’unica cosa a cui aspira, ormai, è una dose di morfina che le allevi almeno in parte il dolore. Anche Herriman è un autore insieme ironico e tragico, ma il suo modo di raccontare visivamente è del tutto diverso da quello degli autori citati prima. Il segno grafico di Herriman è sporco e volutamente impreciso e questo fornisce alle cose una consistenza particolare, che permette di rendere particolarmente sottile la differenza tra ciò che è reale e ciò che non lo è. Raccontare l’agonia di Frida con queste forme surreali crea una strana connessione tra il suo specifico surrealismo deviante e l’altrettanto deviante surrealismo implicito di Herriman. Leggendo Corona, ci si accorge improvvisamente di quanto deserto messicano ci sia in Coconino County, e di come il rapporto perverso tra Ignatz e Krazy Kat non sia in fin dei conti del tutto diverso di quello, storico, tra Frida e Diego.
Ci si accorge anche che, in termini di segno grafico, Herriman è stato un autore molto più tragico di Pazienza, di Giacon e di Beto Hernandez. Nelle citazioni di Corona, la natura ironica dell’universo di Herriman non scompare affatto, ma è quella tragica a dominare. Se la Frida del 1998 poteva essere ancora surreale e scherzosa, qui il sogno è diventato incubo e la risata emerge comunque a denti stretti. L’azione del peyote del don Juan di Carlos Castaneda è talmente evidente in queste pagine da indurci a rileggere persino Herriman in termini allucinatori, per accorgerci che non è troppo difficile farlo, anche se l’accento delle storielle di Krazy Kat veniva poi messo altrove, e il delirio rimaneva relegato agli sfondi, al paesaggio (o era comunque presupposto alle relazioni messe in scena, e mai del tutto tematizzato).
In questa intervista raccolta durante il Festival della Comunicazione di Camogli nel settembre 2015 da Giovanni Paolo Fontana per RAI Scuola, anticipo alcuni temi che saranno poi sviluppati nel mio ultimo libro Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Alex Raymond, Flash Gordon, Tavola del 18.06.1939
Questo mese andiamo sul classico, che più classico non si può. Se Milton Caniff ha rappresentato il modello per gran parte dei fumettisti americani del suo tempo (compreso lo stesso Raymond più maturo), il Raymond di Flash Gordon è stato a sua volta l’autore americano più imitato all’estero: in Argentina, in Gran Bretagna e in Italia. Come succede, tuttavia, imitare lo stile di un autore non sempre (anzi quasi mai) comporta il riuscire a riprodurne la fascinazione.
Mi sono reso conto mio malgrado, cercando un difficilissimo distacco critico, della sostanziale banalità delle trame di Flash Gordon, nelle quali succede sempre quello che deve succedere. Dico mio malgrado perché a dispetto di questo sono stato e rimango un lettore appassionato di Raymond, così affascinato dal suo lavoro da arrivare a non percepire qualcosa che ad altri autori non so invece perdonare. Ho provato a indagare sul perché di questa fascinazione e ho sviluppato un’ipotesi che mi sembra plausibile, e che ho già raccontato anche in altre occasioni: quello che affascina il lettore di Flash Gordon è precisamente il disegno di Raymond, ma non perché la successione delle immagini sia semplicemente una successione di belle figure, ma perché questa trama per altri versi così banale è in realtà funzionale a fare emergere la capacità che Raymond possiede al massimo grado, quella di farci entrare – visivamente – nel mito.
Il mito non ci affascina perché è originale. Il mito è fatto di elementi che conosciamo benissimo, uno per uno e magari anche nella loro combinazione; però non possiede un modo standard di essere raccontato, e tutti i diversi racconti che se ne possono fare sono equivalenti come racconti del mito. Non sono però equivalenti quanto alla loro efficacia: in racconti diversi dello stesso mito, i medesimi elementi possono apparirci più smorti oppure più vivi; lo stesso mito ci può apparire lontano (benché magari nitido) oppure vicinissimo, quasi come se ci fossimo dentro, inglobati, coinvolti. L’originalità di Raymond non sta nel racconto, ma nel modo in cui tavola dopo tavola, settimana dopo settimana, permetteva ai suoi lettori un’immersione profonda nel mito, secondo le forme di una favola antica mediata attraverso i valori americani moderni di autoaffermazione dell’individuo, di libertà e di coraggio, di democrazia e di progresso, ma anche attraverso le forme visive del mito contemporaneo più vivido, quello del cinema di Hollywood!
Guardiamo la tavola del 18 giugno 1939. Siamo in una fase avanzata dello sviluppo grafico di Flash Gordon (uno sviluppo facilmente percepibile, se solo avete un minimo di occhio grafico, sfogliandone le annate). La pagina ha diminuito progressivamente il numero delle singole vignette da 12 a 6, nella prospettiva di una più agile monumentalizzazione delle figure e delle situazioni. Seguendo l’esempio di Harold Foster (Tarzan, prima, e Prince Valiant poi) Raymond ha eliminato i balloon: la narrazione di accompagnamento in didascalie è maggiormente funzionale, infatti, al distacco che il mito richiede. Certo, rischia di rendere meno viva l’azione; e, trattata con meno abilità della sua, rischia pure di riprodurre il modello tradizionale di narrazione per immagini in cui il testo verbale racconta e l’immagine illustra. Ma qui le immagini di Raymond sono talmente forti, talmente vive, che sono comunque loro a fare la parte del leone, e il racconto verbale si riduce a una sorta di tenue filo narrativo, necessario sì, ma del tutto funzionale a valorizzare quello che conta, cioè le figure. È certamente Foster il primo ad averlo capito: nel suo Prince Valiant brevi narrazioni didascaliche non fanno che introdurre scene intricatissime e favolose, che richiedono un tempo di lettura estremamente più lungo del testo verbale che le accompagna, e sono molto più informative di quello. La parola si limita a introdurre quei dettagli spazio-temporali e quei nessi narrativi che l’immagine farebbe troppa fatica a mostrare, e il resto spetta a lei.
In aggiunta Foster aveva capito (e qui Raymond lo segue con abilità forse ancora superiore) che il mito è quella cosa che è sempre stata raccontata con parole, e che quindi un racconto verbale contribuisce certamente a ricostruirne l’effetto. La parola ci introduce nel mito, e poi l’immagine ce lo fa esplodere davanti, vi ci butta dentro (a conferma guardate, in anni più recenti, il lavoro straordinario realizzato da Sergio Toppi seguendo questi stessi principii).
Poco male, in questa tavola, se non siete in grado di leggere le poche parole inglesi che accompagnano le immagini. Qualcosa perderete, certo, ma il contrasto che emerge dalla prima vignetta, tra – diciamo così – la bella e la bestia non potrebbe essere più evidente: lei tutta liscia e chiara, con le unghie e i capelli curati; lui peloso e rugoso e scuro. Lei spaventata e lui ghignante; la mano di lei sottile stretta nel goffo ma possente pugno di lui. Ma tutto questo non avrebbe la stessa forza se non fosse sottolineato dalla scelta dell’inquadratura, presa molto da vicino e con i personaggi rivolti verso di noi, lei addirittura che cerca di uscire dal quadro per arrivarci addosso. Il gigante che insidia la bella indifesa è un classico da favola, ma qui prende corpo davanti a noi con una vividezza inconsueta, quasi più che cinematografica. L’inquadratura è indubbiamente da cinema, così come le espressioni dei personaggi: insomma, il mito antico ripresentato nella cornice del mito moderno; e noi buttati visivamente al suo interno!
Vignetta dopo vignetta, questo regno di caverne e di vichinghi giganteschi trova sempre le forme più intriganti per apparirci davanti, sino ad arrivare alla sesta, uno di quei capolavori del dinamismo che Raymond non ha mai lesinato, ben sapendo di esserne un maestro. Anche qui la composizione è tutta sviluppata nella dimensione della profondità: in basso a sinistra, in primo piano, ci sono due giganti abbattuti, evidentemente dalla furia di Flash, una furia che sta trovando freno proprio ora nell’azione di ben tre antagonisti, che lo bloccano a mezz’aria. Sul fondo il capo Brukka osserva divertito la scena, mentre Dale si dispera (suo compito principale nelle storie di Flash Gordon). La progressione va da in basso a sinistra verso l’alto a destra, esattamente la direzione in cui procederebbe l’azione interrotta di Flash: eccoci quindi quasi nei suoi panni, buttati pure noi all’interno della scena, come viene ribadito pure da quelle due tende di pelle ai lati che sembrano essere lì solo per darci la sensazione di poterle superare.
Raymond non è solo un abilissimo disegnatore, in grado di utilizzare un segno grafico di grandissima efficacia per rendere con estremo realismo il mondo del mito (almeno per il sistema delle convenzioni grafiche della sua epoca). È pure un sottile costruttore di situazioni e inquadrature, in cui la dimensione della profondità (come ben si vede in tutte e sei le vignette) rappresenta un continuo invito all’immersione nella realtà raccontata.
Tra una settimana in libreria. Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto. Un percorso, che riguarda il fumetto, tra il mito, la serialità, la pittura e la scrittura, e – ovviamente – il racconto. Le impreviste connessioni tra mondi che il fumetto ha riportato vicini.
Da fine marzo il libro è disponibile in libreria. Si può acquistare on line sul sito di Comicout (meglio) oppure su Amazon.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto.
Chris Ware, da Building Stories, 2005-2012
Il lavoro di Chris Ware può apparire freddo. Faremmo meglio a dire che vuole apparire freddo. Il feeling di astratta geometricità che una tavola come questa produce è di sicuro attentamente progettato dal suo autore. Eppure la materia di cui questa pagina racconta è tutt’altro che fredda: Building Stories gira tutto attorno ai sentimenti della sua protagonista, ai suoi desideri e ai suoi ricordi.
In un certo senso, la distanza che l’autore vuole rimarcare nei confronti di quello che racconta è un po’ la distanza che separa l’entomologo dall’insetto che sta osservando. Eppure, benché questa distanza sia comunque evidente, qui l’entomologo Ware appare incredibilmente vicino ai sentimenti del suo insetto.
È probabilmente questa la chiave del fascino delle storie di Ware: grande distanza e insieme estrema vicinanza, freddo e caldo insieme, entrambi acutamente percepibili.
Osserviamo con attenzione questa pagina. Building Stories è un cofanetto composto di una serie di oggetti: dai libri veri e propri, contenenti racconti di più pagine, ai singoli grandi fogli piegati, dove la storia è composta di due sole facciate. Questa è la prima di due pagine di questo secondo tipo.
Quando la si guarda, l’attenzione è immediatamente richiamata dal grande volto a centro pagina. Ware sa benissimo che le pagine a fumetti non fanno eccezione alle regole dei percorsi dell’attenzione: prima di iniziare a leggere dall’alto a sinistra, inevitabilmente l’occhio vede l’intera pagina, e viene catturato dai dettagli maggiormente rilevanti, se ve ne sono. Qui il volto al centro, così graficamente isolato, così marcato nel suo contorno dalla linea nera regolare, così simmetrico sia verticalmente che (almeno nel suo contorno) orizzontalmente, non può non imporsi all’attenzione. Tanto più che quella sottile linea rossa che lo raggiunge dal basso può ben assomigliare al filo di un palloncino (e la freccia immediatamente sotto al profilo del mento può facilmente essere vista come il nodo alla sua base). Questo grande viso ha un’espressione malinconica e meditabonda, che corrisponde alla personalità della protagonista (non c’è un ordine obbligato con cui leggere le diverse storie del cofanetto – quindi è possibile che il lettore la conosca già): il viso di qualcuno che sta ricordando, immerso nei propri pensieri.
E a questo punto, poiché non ci sono altre emergenze percettive che si impongano alla visione iniziale, il nostro sguardo corre all’inizio della pagina, e non si stupisce di trovarvi a mo’ di titolo la frase As a kid, cioè da bambina. Non ci sono emergenze specifiche, ma la pagina è già apparsa come divisa in tre aree, oltre a quella del viso centrale, ciascuna caratterizzata da una tinta dominante: un azzurro poco saturo in alto, un grigio nella colonna di sinistra, un bruno o verde acido nella colonna di destra, anche loro poco saturi.
Quando iniziamo a leggere abbiamo dunque già un’idea di quello che ci aspetta: tre episodi distinti, tutti e tre oggetto di ricordo. La pagina è inoltre dotata di una relativa ma significativa simmetria, debole in alto, nell’area a dominante azzurra, e più forte al centro e in basso. Osserviamo, per esempio, le due vignette più grandi ai lati del viso centrale, che esibiscono, simmetricamente, un’inquadratura angolare (dove, qui come sempre, gli angoli sono di 120 gradi), contrapposta alle inquadrature frontali di quasi tutte le altre vignette più piccole – e questo si ripete nella striscia più in basso.
La pagina è narrativamente, ma anche graficamente, scandita dai titoletti in rosso: AS A KID, MEN, I’LL NEVER FORGIVE, THE COMBINED, Y’KNOW. Anche il loro lettering è geometrico e freddo, ma non ci sono simmetrie nella loro posizione. Hanno tuttavia lo stesso colore rosso che, qui come in altre pagine di Building Stories, caratterizza le linee di collegamento che guidano il percorso di lettura là dove non è quello standard. Sono quindi anche loro delle indicazioni di direzione, quasi delle frecce; tanto più che non sono veri e propri titoli, separati dal testo che segue, ma semplici attacchi del discorso, evidenziati da un diverso trattamento grafico, ma discorsivamente collegati a quello che c’è dopo.
La sequenza a dominante azzurra mostra la protagonista bambina davanti allo specchio, a immaginare il proprio aspetto da grande, casualmente interrotta dall’ingresso del padre. Il discorso che inizia con I’LL NEVER FORGIVE (non perdonerò mai) fa riferimento a un autoritratto, visibile a sinistra, e quindi è lì che veniamo rimandati, per poi scendere da quel lato attraverso i ricordi dell’adolescenza, fino a ritrovarci, in basso, nella quotidianità del presente, in bagno davanti allo specchio, mentre una voce fuori campo chiama “mamma”. Da qui il filo rosso ci porta al volto/palloncino centrale e ancora da qui alla colonna di destra, dove la protagonista è nuovamente un po’ più grande, fino alle vignette in basso, che ci riportano nel presente.
Notiamo che la sequenza tollera bene anche una lettura “sbagliata”, che proceda – attraversando il viso centrale – per righe orizzontali da sinistra verso destra. Letta in questo modo, la sequenza appare come il montaggio alternato di due ricordi diversi: del resto, tutto Building Stories è fatto di frammenti spazio temporali giustapposti, che possono essere letti in qualsiasi ordine, perché possiedono al proprio interno le coordinate per creare un ordine narrativo complessivo. Anche la lettura “sbagliata” rimarrebbe quindi accettabile, e non muterebbe gran che l’effetto d’insieme, un effetto comunque labirintico – nel quale il percorso giusto esiste (ed è la sequenza temporale del racconto) ma va cercato e trovato, sia globalmente che localmente.
Anche la struttura labirintica contribuisce al distacco che il lettore percepisce. È come se tutta la passionalità della vita si trovasse ricostruita qui attraverso un progetto razionale, certamente articolato e complesso, ma la cui complessità è inevitabilmente minore di quella delle emozioni della vita reale. In questo modo, Ware raggiunge l’obiettivo di generare il pervasivo senso di angoscia, e il senso tragico che permea queste vicende pur prive di grandi avvenimenti: la tragedia è quella di una vita già destinata, sin dall’inizio, a seguire un percorso, senza scampo. Il percorso è segnato dalle regole sociali, che qui si trovano, spesso, narrativamente appena accennate; mentre vengono fortemente richiamate da questa ricostruzione grafica razionale che permea tutto, e solo attraverso la quale arriviamo al racconto e alle sue emotività.
Nella prima metà del Novecento l’idea di progetto razionale ha dato vita al funzionalismo e alle sue conseguenze, con l’ideale ottimistico che la razionalità avrebbe migliorato la vita dell’uomo. In Chris Ware il medesimo principio si rivela invece l’angosciosa scatola da cui non siamo più capaci di uscire.
L’immagine contro il soggetto. Due graphic novel contemporanee.
Daniele Barbieri
È difficile pensare a due graphic novel più differenti tra loro di Atto di Dio, di Giacomo Nanni (Rizzoli Lizard), e Hasib e la Regina dei serpenti, di David B. (Bao), entrambe uscite negli scorsi mesi. Eppure, sotto a questa evidente diversità, di temi come di modi, si nasconde un progetto comune, che in ambedue i casi sottolinea la radicale diversità tra il raccontare a fumetti e il classico raccontare a parole, come si fa nel romanzo, e anche tra il raccontare a fumetti e il raccontare audiovisivo, come si fa nel film.
Atto di Dio è una successione di eventi che potremmo definire quasi-non-storie, raccontate da voci narranti che non sono mai umane, e quindi impossibili: il capriolo smarrito, la montagna, la carabina, il terremoto, il piccolo crostaceo. Le immagini sono sgranate, colorate con un retino troppo grosso e spesso evidenti rielaborazioni da originali fotografici: riferimento sufficientemente evidente a sguardi che non appartengono a nessuno, oggetti pubblici, visioni da quotidiano o da rotocalco – ulteriormente allontanate da una qualsiasi soggettività dall’elaborazione straniante cui sono state sottoposte. L’evento principale a cui si lega il titolo della storia, cioè il terremoto nelle Marche, e in particolare sui Monti Sibillini, finisce per annegare in questa naturalità straniata dal contrasto tra una non-soggettività naturale e una falsa soggettività massmediatica.
Hasib è invece la narrazione a fumetti di un estratto da Le mille e una notte, in cui Sheherazade racconta, tra la notte quattrocentottantadue e la quattrocentonovantotto la miracolosa storia di Hasib, che incontra la Regina dei serpenti, la quale gli racconta la storia del re Buluquiyya, il quale, nel corso delle proprie avventure, sempre intrecciate con la vicenda della medesima Regina, incontra a sua volta il Principe Janshah, che si sta lasciando morire sulla tomba dell’amata, e racconterà pure lui la propria vicenda. Questa organizzazione narrativa a scatole cinesi è certamente parte del fascino della raccolta di fiabe arabe, intesa com’è a portare il lettore sempre più in là, sempre più addentro nel mondo favoloso del mito (come già capì bene a suo tempo Pier Paolo Pasolini, girando la propria celebre versione cinematografica). E la medesima immersione senza scampo viene riproposta qui dai disegni di David B., sospesi tra schematizzazione grafica e continua invenzione visiva, dove l’elemento narrativo si intreccia continuamente con una sorta di sontuosa decoratività, con riferimenti all’immaginario visivo di quella parte dell’Islam che non ha mai rinunciato alle figure, dall’Iran in poi procedendo verso Est….
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.
Alberto Breccia, “Un tal Daneri. Occhio per occhio”, 1976
Alberto Breccia, “Un tal Daneri. Occhio per occhio”, 1976
Non ho ancora parlato di Alberto Breccia, in questa rubrica. Non ho ancora parlato di tanti, certo, perché sono troppi gli autori di cui varrebbe la pena di parlare. Però, che mancasse Breccia era davvero una mancanza notevole, di quelle cui, appena te ne accorgi, è indispensabile porre rimedio. Io credo che, insieme a Will Eisner, Alberto Breccia sia stato davvero il maggiore fumettista del XX Secolo. Argentino, anche se nato in Uruguay, di evidenti antenati italiani, la sua vita corre dal 1919 al 1993. L’avevo anche conosciuto di persona un anno prima della sua scomparsa, e gli avevo inviato una copia del mio I linguaggi del fumetto, dopo aver saputo, da amici comuni, che a Lucca mi cercava per chiedermela: un grande onore, per me.
Voglio guardare con voi le due tavole conclusive di una storia del 1976, sceneggiata da un altro grande autore, purtroppo pure lui scomparso, Carlos Trillo (1943-2011). La storia si intitola “Occhio per occhio” e fa parte della serie Un tal Daneri.
Daneri, il protagonista della serie, è un sicario, però è anche un uomo con un singolare eppure profondo senso morale. Da accenni qua e là nella serie, si capisce che una volta era stato qualcuno, prima di ridursi così. Nella storia di cui ci occupiamo, Daneri entra in un locale notturno dall’aria equivoca e, dopo essersi accertato dell’identità del pianista, gli spacca le mani chiudendo di colpo e violentemente la copertura della tastiera. Uscito, mentre cammina da solo per le vie notturne di una città fatiscente, si accorge di essere seguito; ma il suo accenno di difesa quando l’inseguitore si lascia vedere è inutile, perché non c’è intenzione di aggredirlo. Anzi, l’inseguitore dimostra di conoscerlo e di avere persino un’oscura ammirazione per lui. Però gli deve dire come stanno le cose davvero: Julieta, che ha commissionato a Daneri il misfatto, gli ha certamente raccontato che il pianista la tormentava. La verità, invece, era che lei tormentava lui, perché lui aveva osato lasciarla; e lei, forte del suo potere, gli aveva impedito di trovar lavoro ovunque, se non in quel locale di infimo livello – e poi ora anche questo: “La vita è un tale schifo!” è la sua conclusione, prima di andarsene e lasciare Daneri a vagare solo e meditabondo per le strade buie della città.
In questo vagabondaggio pieno di forme quasi sformate, solo un oggetto appare ben definito: il manifesto di una rivista, che ne presenta la copertina mostrando Julieta come viso dell’anno. È poco dopo di questo che il vagabondare di Daneri giunge a termine, e ci ritroviamo con le due tavole finali, che potete leggere qui a fianco.
Osserviamo dunque le prime quattro vignette della prima tavola. Due stili grafici diversi vengono messi a contrasto. Da un lato c’è la figura di Daneri, anziano, quasi informe lui stesso, ma soprattutto disegnato attraverso macchie d’inchiostro incerte e tremolanti, e reticoli di linee altrettanto incerti e complessi a definire le rughe del suo volto. Tutte le pagine che precedono (con l’unica eccezione del manifesto che mostrava Julieta, e alcuni altri manifesti pubblicitari) sono disegnate con questo medesimo stile o qualche sua variante ugualmente “sporca” – e anche per questo la città attraversata da Daneri nella notte appare così fatiscente.
Dall’altro lato c’è Julieta e il suo appartamento. La figura di lei è tracciata con le linee sottili di un pennino su fondo bianco. È una figura giovane ed elegante, con pose da rotocalco. E pure il “lussuoso palazzo in centro” in cui vive è rappresentato con uno stile grafico ben diverso da quello di Daneri e del suo mondo, basandosi fondamentalmente sul collage fotografico, e quindi su linee nette e ben definite, colori uniformi, sfumature di luce… Dal punto di vista grafico, Breccia non fa dunque che ribadire l’opposizione tra i due mondi sui quali si sviluppa il racconto: il bassofondo in cui si aggira Daneri, e l’alta borghesia, la ricchezza, l’agio, in cui vive Julieta.
Ma, a questo punto, sappiamo anche, grazie alla rivelazione dell’inseguitore notturno, che si tratta di un’opposizione di facciata: Julieta non è meno corrotta del mondo a cui si è rivolta per punire il suo ex-amante. La bellezza sua e del mondo in cui vive è una semplice apparenza.
Per questo, una volta concluso il contratto con il pagamento della prestazione, Daneri può vendicarsi per essere stato indotto a compiere la sua missione per mezzo di una menzogna. Così, la sua vendetta: togliere a Julieta il suo bene, quello che le permette di vivere, proprio come lei aveva fatto, per mano di lui, con il pianista: “Le mani servono a un pianista per farsi sentire. Il viso serve a una modella per farsi vedere… Occhio per occhio, diceva la giustizia degli antichi”.
Ed ecco come Breccia mette in scena questa punizione, o vendetta. I pugni di Daneri trasformano Julieta facendola passare dal proprio universo visivo di appartenenza a quello in cui vive lui. Osservate la progressione dall’ultima vignetta della prima pagina alle prime tre della pagina successiva: Daneri vi appare più o meno come era sempre apparso, ma il viso di Julieta si trova ridotto, già nella prima vignetta della seconda pagina, a una macchia; e poiché nella seconda gli resta ancora un po’ di definizione, ecco che nella terza vignetta il pugno di Daneri lo trasforma definitivamente in un grumo di inchiostro.
La trasformazione grafica è quindi una trasformazione morale: la bella Julieta è stata restituita al mondo che le spetta di diritto, quello medesimo di Daneri, il mondo sporco, il mondo che non ha speranza né denaro né una vita degna di questo nome; quello stesso mondo che, una volta superata di nuovo l’apparenza di benessere dell’ingresso dell’edificio, torna ad accogliere Daneri nell’ultima vignetta.
Osserviamo che il racconto ci presenta il mondo di Julieta come un mondo falso; di conseguenza il mondo di Daneri ci appare come quello vero. Un po’ come dire che l’unica verità possibile sta nel mondo dei disperati; è una verità amara, proprio come quelle della giustizia degli antichi. La morale cupissima di questa storia sta proprio in questo: non nella punizione della bella ingannatrice e della sua arroganza, ma nello sconsolato accorgerci che l’unica verità possibile è quella cupa degli esclusi, quelli persino la cui immagine è sporca, incerta, macchiata.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Sono molto dispiaciuto che la rivista non ci sia più. Queste riproposte continueranno con frequenza bimestrale sino a esaurimento.
Sergio Toppi, “Sharaz-de. Ho atteso 1000 anni”, luglio 1980
Rimaniamo sul tema della costruzione di pagina, rispetto al quale l’ultima volta avevamo esaminato una pagina del Little Nemo di Winsor McCay. Stavolta ci spostiamo molto più vicino a noi. La tavola di Sergio Toppi che state vedendo appartiene alla storia “Ho atteso mille anni” della serie Sharaz-de, ed è stata pubblicata per la prima volta sul numero di luglio 1980 di AlterAlter.
Sharaz-de consiste in una serie di racconti ispirati alle favole delle Mille e una notte, e rappresenta forse il punto più alto della produzione di Toppi per Linus e Alter negli anni Settanta e Ottanta. Quasi tutti gli episodi sono in bianco e nero, con due importanti eccezioni, da una delle quali è tratta questa pagina. Anche gli episodi di Sharaz-de condividono il tono epico e favolistico delle storie che Toppi sta realizzando in quegli anni; anzi, lo accentuano, facendosi forti delle modalità narrative della raccolta tradizionale araba.
Osserviamo dunque con attenzione questa tavola. Chi conosce Toppi sa quanto è arrivato lontano, in questi anni, dall’organizzazione tradizionale della pagina fumettistica, organizzata sequenzialmente per vignette. Spesso nelle sue tavole la ripartizione in vignette è completamente assente, sostituita da una logica di lettura che sfrutta sia le convenzioni di lettura (sinistra prima che destra, alto prima che basso) sia i poli di attrazione percettivi dell’immagine (tendenzialmente: prima il centro poi la periferia, prima le figure meglio definite – cioè più grandi, o più vicine, o più contrastate… – e poi le altre, prima le figure umane e poi il resto, prima i volti e poi i corpi…).
Qualche volta, però, un accenno di organizzazione della sequenza basata sulle vignette rimane, magari combinandosi con gli altri principi, proprio come in questa pagina. Sono infatti immediatamente riconoscibili qui quattro vignette, di cui due colpiscono l’attenzione prima delle rimanenti. Si tratta della vignetta grande quasi quanto la pagina, su cui si appoggiano quasi tutte le altre, che però catalizza l’attenzione del lettore solo per via del grande volto del demone in alto a sinistra; e della vignetta centrale, con il primo piano dell’uomo. I due volti attirano l’attenzione del lettore prima di ogni altra figura sia perché sono volti umani, sia perché occupano i due punti maggiormente qualificati della pagina: l’angolo in alto a sinistra, punto di inizio per la lettura delle tradizionali pagine del fumetto, e il centro, punto di richiamo importante per tutta la visività non sequenziale (come illustrazione e pittura).
Inoltre gli sguardi dei personaggi presenti in questi due punti nodali della pagina sono rivolti l’uno verso l’altro, ed è dunque immediatamente chiaro al lettore, il quale – ancor prima di leggerli – ha visto i balloon affollati di testo, che il tema di questa pagina è il dialogo tra il demone e l’uomo. Questo dialogo è già iniziato nelle pagine precedenti. L’uomo ha trovato per caso una giara sigillata in una grotta, e quando l’ha aperta ne è uscito un gigantesco demone, o genio, il quale è rimasto prigioniero lì dentro mille anni e ha sviluppato una grande rabbia, decidendo di uccidere chi lo tirerà fuori. Ma l’uomo è astuto e lo fa parlare, e alla fine befferà il genio potentissimo ma stupido, salvandosi, divenendo ricco, e richiudendolo per sempre nella giara.
Oltre ai due volti dialoganti, ci sono altre figure nella pagina, sufficientemente nitide quelle inquadrate in vignette, incerte, quasi sfondi insomma, le altre. È solo seguendo i dialoghi che ci accorgiamo che è presente una figura non immediatamente evidente, sulla destra: di nuovo il demone, reso difficile da individuare a causa della scarsa definizione e del colore molto simile a quelli circostanti. Il grosso della pagina, da cui questa figura non si stacca, è costituito dal variegato ma oscuro e informe corpo del genio della vignetta principale, che solo arrivando, dopo la lettura dei balloon, all’angolo in basso a destra, viene ancora riconosciuto come esalazione dalla bocca della giara aperta. In questo modo il genio appare davvero imponente, poiché occupa la quasi totalità della pagina; ma viene creata anche, dall’angolo in alto a sinistra procedendo verso il basso a destra, una progressione dal chiaro verso lo scuro, un’oscurità che poi si rivela essere il fiotto che esce dalla giara.
Dall’angolo in alto a sinistra è comunque evidente pure una progressione diagonale, che attraversa le tre vignette in cui appare la figura dell’uomo. L’immagine del demone a destra rimane percettivamente secondaria anche perché resta fuori da questa diagonale, la quale cattura fortemente l’attenzione e sembra tracciare integralmente la sequenzialità temporale della pagina.
Non capiamo comunque del tutto il gioco visivo di Toppi se non leggiamo il discorso contenuto nei suoi dialoghi, per accorgerci di questo tono così alto, aulico, da favola antica, o da leggenda. Non ci sono didascalie in questa pagina, ma in altre pagine i cartigli sono relativamente frequenti, e il loro registro verbale è lo stesso che troviamo in questo dialogo. Se ora riflettiamo in generale sulla natura delle favole e delle leggende, potremo accorgerci che si tratta di un tipo di racconti che è fatto per essere ripetuto (e ascoltato) più e più volte, in cui lo sviluppo della vicenda (comunque di solito già noto agli ascoltatori) è meno importante della sua ripetizione, la quale ha un carattere rituale, quasi da cerimonia. Non c’è quindi in loro la logica del romanzo o della novella, che ci tengono avvinti per sapere come si sviluppa la storia. Qui infatti, senza che lo sviluppo della storia scompaia o diventi irrilevante, domina piuttosto il ritorno dell’atteso, come in ogni rito che si rispetti. Ma quando l’atteso, pur confermandosi nello sviluppo del racconto, si presenta in ogni momento in forme nuove e sorprendenti, ecco che la situazione rituale si riempie di interesse anche per chi non sia interessato al rito in sé.
Questo è quello che Toppi sembra ribadire in tutte le storie per Linus e Alter, fino a Sharaz-de: lo sviluppo della vicenda, pur non irrilevante, non è certo l’argomento centrale; e il tempo al suo interno può anche, in tanti casi, rivelarsi sospeso, o incerto quanto al proprio ordine. I dialoghi contenuti in queste pagine sarebbero inutilmente lunghi in una logica serrata dell’azione. Ma dove il tempo è sospeso o incerto, è molto più importante la costruzione dell’aura mitica che non quella dell’azione.
Toppi introduce quest’aura per mezzo dei testi verbali, ma la sviluppa e carica di ineguagliabile fascino attraverso la costruzione dei suoi disegni. Certo che una sequenzialità costruita in questo modo è più debole di quella – assai più evidente e facilmente comprensibile – di una tradizionale sequenza di vignette! Ma nella prospettiva di queste storie a fumetti, una sequenzialità incerta può andare benissimo; anzi va meglio di una ben definita. Il tempo fermo, il leggendario, il meraviglioso possono costituire da soli (o quasi) una sufficiente ragione di interesse.
Guido Buzzelli, Magnus ed Enrique Breccia: tre autori non bonelliani che hanno interpretato Tex. L’analisi del loro lavoro sul ranger pare confermare uno degli assunti bonelliani fondamentali: la sceneggiatura è più importante del disegno.
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Ho sentito più volte Sergio Bonelli ripetere, in pubblico o in privato, l’idea che per lui il fumetto fosse una sorta di cinema adattato all’universo grafico della stampa. Non doveva pensarla diversamente nemmeno suo padre Gianluigi, tanto più che, all’epoca del suo esordio, i fumetti si chiamavano comunemente “cineromanzi”, e non solo Occhio Cupo ma anche il Tex che realizzava con Aurelio Galleppini illustrava egregiamente la sua idea: disegno naturalistico, situazioni da film western, abbondanza di dialoghi.
Poi, certo, il fumetto non è il cinema e gli autori di Tex lo sapevano benissimo: il disegno doveva essere naturalistico ma poteva essere sintetico, sopperendo con questa sintesi all’assenza della fotografia in movimento. La sintesi permetteva una lettura più rapida, e di conseguenza sosteneva un ritmo narrativo più rapido, più intenso; addirittura nei rari casi in cui la parola poteva raccontare in maniera più rapida dell’immagine, non si evitava di fare ricorso alle didascalie, che pure nel cinema non hanno spazio. Proprio costruendo questi ritmi narrativi stringenti poteva contare di ricostruire sulla pagina l’effetto cinema; e i dialoghi, pur rallentando un poco l’azione, contribuivano ugualmente a questa ricostruzione.
Era l’epoca del film western e pure l’epoca in cui il mito americano, non più ostacolato dalle remore del fascismo, poteva dilagare anche in Italia. Come dire che Tex non raccontava davvero il West; raccontava semmai, per disegni e dialoghi, il Western. Sergio Bonelli riferiva anche come fosse suo padre stesso il primo a stupirsi del successo duratura di Tex, quando altri personaggi che uscivano dalla sua fertile penna non raggiungevano spesso l’anno pieno di vita – e anche Occhio Cupo, che pure a Gianluigi era molto più caro, si fermò molto presto.
Difficile definire con certezza le ragioni del successo del personaggio. Quello che è certo è che Tex raggiunge presto una sua specifica modalità narrativa, che rimane sostanzialmente stabile dagli anni Cinquanta sino a oggi: quella che i suoi lettori imparano ad apprezzare e ritrovano mese dopo mese costantemente, identica o quasi pur nella variabilità delle storie. Ci sono situazioni ricorrenti, tipi di dialoghi o addirittura dialoghi specifici (pensate a quello che succede quando Tex e Kit entrano in un ristorante e fanno un’ordinazione), e soprattutto una costanza sostanziale nell’andamento narrativo. Anche attraversando la più complessa delle trame (che in Tex non mancano affatto) il lettore si trova sempre rassicurato dal fatto che le situazioni sono riconoscibili e pure lo sono le modalità della loro risoluzione: leggendo Tex, insomma, ci troviamo lontani, nel selvaggio West, ma siamo sempre ugualmente a casa.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Winsor McCay, “Little Nemo in Slumberland”, 24 febbraio 1907
Stavolta ritorniamo agli inizi, non solo perché Winsor McCay è stato un autore straordinario, ma perché la tavola qui a fianco (24 febbraio 1907) ci permette di fare alcune riflessioni sul rapporto tra pagina e racconto, o – se preferite – tra dimensione tabulare e dimensione sequenziale.
Quando uscì stampata per la prima volta, questa pagina era molto più grande di questa riproduzione, ma il tipo di esperienza vissuta del lettore non deve essere stata molto diversa da quella appena vissuta da voi (e sulla differenza torneremo tra poco). Quando siete entrati in questa doppia pagina, il vostro sguardo è certamente corso sulla grande immagine complessiva della pagina di destra, e l’ha colta nel suo insieme. Solo in un secondo momento – ammesso che l’abbiate già fatto – avete esplorato sequenzialmente le singole vignette, leggendo i testi, e cogliendo nel dettaglio la storia. Oppure (e comunque in un secondo momento) avete scorso la sequenza senza leggere i testi, e avete in ogni caso colto qualcosa della sequenza narrativa: l’arrivo al palazzo di Jack Frost, la preparazione, l’ingresso al grandioso interno (e il risveglio, come sempre in una vignetta piuttosto separata, alla fine, poco influente sull’effetto d’insieme).
Questa pagina è stata progettata da McCay per questo percorso visivo: deve prima colpire nel suo insieme, in modo che l’effetto prodotto dalla visione complessiva influisca sul modo in cui poi leggerete i dettagli. Se scorrete le annate di Little Nemo, vi accorgerete che questa strategia viene utilizzata, in maniera più o meno radicale, in tutte le tavole.
La pagina mostra al primo sguardo due strutture visive simili, in alto e in basso, separate da una striscia abbastanza omogenea dove dominano le linee verticali. Osservate, nella loro differenza, le analogie tra la figura del palazzo e quella del gigante di ghiaccio affiancato dagli orsi: sono entrambe forme a simmetria centrale, con un corpo di mezzo più alto, sottolineato da una retrostante figura semicircolare (l’alone luminoso di sopra, l’aureola e gli archi di ghiaccio di sotto). I colori non sono molto diversi, e in tutti e due i casi c’è una base all’incirca orizzontale sottostante, con figure umane in leggero squilibrio. Nella striscia di mezzo le linee verticali del fondo (di colori simili alle due immagini in alto e in basso) si sommano alle linee bianche tra le vignette; e su questa base si stagliano i colori più vivaci delle figure dei personaggi, che creano un ritmo visivo variato ma ugualmente coglibile.
Se sfocate un po’ la vista, potrete cogliere nella pagina una struttura complessiva a cupola: basamenti, pareti con accenni di colonne o nervature verticali, chiusura rotondeggiante in alto. Non c’è bisogno che ne siate consapevoli: l’effetto di architettura favolosa, di luogo straordinario, viene comunque impostato nel lettore ancora prima che inizi la lettura vera e propria. E naturalmente poi, quando la lettura sequenziale ha luogo, il lettore è certamente influenzata da quello che è già stato colto.
Ora pensate alla differenza che esiste tra vedere un paesaggio dal vivo e vederlo in fotografia. Parlo di un paesaggio degno di questo nome, naturale o urbano, quelli che non possiamo fare a meno di fermarci almeno per un attimo (e se possiamo, anche di più) in contemplazione; sapendo benissimo che nemmeno la migliore riproduzione, anche a 360 gradi, potrebbe restituirci quella stessa emozione. La differenza sta nel fatto che nel paesaggio ci entriamo, ne facciamo parte; alla fotografia stiamo invece semplicemente di fronte: un’esperienza immersiva è certamente più coinvolgente di una semplicemente frontale! Notate che non è un problema di dettagli: una buona foto ci può rendere gli stessi dettagli che vedremmo al naturale. Ma sappiamo benissimo che non ne facciamo parte, e che le stiamo di fronte, e non dentro: il coinvolgimento nei suoi confronti è inevitabilmente minore.
Tuttavia l’essere umano possiede l’immaginazione. A certe condizioni, un’immagine può essere vissuta in maniera più immersiva di altre. Non arriverà probabilmente all’emozione di un’immersione reale, ma potrà evocare comunque in qualche misura un’esperienza immersiva. Una di queste condizione, probabilmente la principale, è che l’immagine sia grande a sufficienza da poter riempire il campo visivo, o almeno da avvicinarsi a questa condizione.
Da questo punto di vista, l’edizione originale di questa pagina di Little Nemo aveva dei vantaggi rispetto a quella che vedete qui, e l’immersione evocata nel lettore poteva essere quindi ancora più forte. Notate che un’altra condizione è la presenza del colore, ma si tratta di una condizione molto più debole: diciamo che in bianco e nero la costruzione di un effetto immersivo è più difficile, ma ci sono autori (come Sergio Toppi) che ci riescono benissimo lo stesso.
Ora lasciamo un attimo da parte McCay, e pensiamo all’uso delle splash page (singole, o doppie) da parte di autori più vicini a noi: Jack Kirby o Jim Steranko per il fumetto USA, Philippe Druillet o Moebius per quello francese. Cosa succede quando, nel flusso del racconto, improvvisamente voltiamo pagina e ci troviamo di fronte a un’immagine unica, grande?
Be’ in verità succedono molte cose, anche dal punto di vista degli effetti di tensione e di ritmo, e di sottolineatura narrativa. Ma qui mi preme far notare come in presenza di quella immagine improvvisamente più grande, molto grande, la dimensione immersiva si manifesti e indicativamente ci porti, noi lettori, all’interno del mondo della storia. Lo fa magari per un attimo, e non sarà proprio come essere lì di persona: ma lo è molto di più di quanto non succeda in tutte le altre vignette della sequenza, sempre fruite in maniera decisamente più frontale.
Se poi l’immagine è al vivo, senza margini bianchi, tagliata solo dal bordo della carta, l’effetto potrà essere ancora più forte, perché viene cancellata una cornice, ovvero un dispositivo di distanza. Andatevi a rileggere The Dark Knight di Miller alla luce di queste riflessioni, e vedrete come una buona parte della strategia di coinvolgimento messa in atto dal bravissimo Frank si fondi proprio su un calibrato ritmo di situazioni immersive, basate sia su singole grandi immagini sia su architetture di pagina unitarie (nonostante la pluralità delle vignette) proprio come in questa tavola di McCay.
Non è nuova l’idea di raccontare un evento storico attraverso le vicende personali di qualcuno, in maniera che il lettore/spettatore gli si possa affezionare e quindi comprendere il senso degli eventi – entrando intensamente in loro – molto più di quanto non potrebbe lasciar capire l’arida cronaca dei libri di storia. Nel romanzo come nel cinema come nel fumetto si tratta di un espediente diffuso ed efficace, a patto che il narratore lo sappia condurre. Ecco che il nostro presente diventa il presente di quegli eventi, e una quotidianità che abbiamo riconosciuto sufficientemente familiare (nonostante la distanza storica o culturale) sfuma improvvisamente o progressivamente in qualcosa di molto diverso, l’evento storico riconosciuto.
Se si limitasse a questo, Pompei di Frank Santoro non sarebbe che un racconto come tanti, magari più delicato e sensibile di molti altri. Ma di narrazioni degli ultimi giorni di Pompei, anche impostate in questi termini, ne abbiamo in verità avute tante…
Il fatto è che qui c’è qualcosa di più. Fin dalla primissima pagina, ancora prima che si possa cogliere un qualsiasi senso del racconto, il disegno appare rapido, approssimativo; quasi più uno schizzo, uno storyboard – dove magari le linee imperfette non vengono cancellate, ma corrette, lasciando visibile l’imperfezione. Niente colori, ovviamente; tessiture per le ombre altrettanto rapide; un senso complessivo di provvisorio e di instabile.
Poi la storia inizia a definirsi: Marcus, il protagonista, è l’assistente di un pittore che sta per fare il salto di notorietà che potrebbe portarlo a Roma e alla fama. Marcus gli prepara i colori e lo aiuta per le parti secondarie dei dipinti; ma è costretto anche ad essere complice della tresca tra il pittore e una principessa, che deve essere nascosta ad Alba, fidanzata ufficiale e sospettosa. Anche Marcus ha una donna, Lucia, insieme con la quale è scappato da Paestum, dove non vuole più tornare: a Pompei vuole diventare un ritrattista come il suo padrone, per guadagnare i soldi per metter su famiglia con lei…
In collaborazione con Logos Edizioni, pubblichiamo la postfazione di Daniele Barbieri al volume L’uomo alla finestradi Lorenzo Mattotti e Lilia Ambrosi.
Ecco, caro lettore, sei arrivato qui. Sei passato, con il protagonista di questa storia, attraverso le voci di tre donne, e di altri tre uomini. Ciascuno, come lui, ti è apparso chiuso nel suo destino: Irene nel suo desiderio di maternità, il filosofo nella sua malattia, Aurora nella sua inconoscibilità di fondo, l’uomo della demolizione nella propria passione per le immagini, il professore nella sua lontananza, Miriade nelle sue storie e nella sua cecità. Solo il destino del protagonista sembra aprirsi un poco, alla fine, perché d’ora in poi sarà lui a raccontare a Miriade quello che vede.
Però non hai letto una storia triste. I sette personaggi di cui si intravvede la storia stanno vivendo, stanno sentendo, e tutto è intenso, tutto profondo. Ed è, in fin dei conti, tutto irreale – ma non meno vero per questo….
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Dino Battaglia, “Due amici”, 1976
“Due amici” è il racconto con cui, nel numero di agosto del 1976 di Linus, Dino Battaglia inaugura la serie che poi confluirà nel volume Maupassant. Si tratta di una decina di versioni a fumetti di racconti, per l’appunto, di Guy de Maupassant, scritti e ambientati nella Francia di fine Ottocento. “Due amici” ha inizio nella Parigi dei primi mesi del 1871, durante l’assedio prussiano; non è rimasto quasi nulla da mangiare; due amici si incontrano, e, grazie anche a qualche bicchierino di troppo, decidono di andare a pescare, nonostante la situazione, nel loro posto tradizionale, nella zona occupata dai prussiani. Ottengono il salvacondotto grazie a un’amicizia altolocata, e vanno. Dopo qualche ora di pesca, vengono sorpresi da una pattuglia prussiana. L’ufficiale cerca di estorcere loro la parola d’ordine per rientrare oltre le linee francesi, ma entrambi rifiutano di parlare, nonostante la minaccia di morte. Dopo averli fatti fucilare, l’ufficiale prussiano si fa cucinare il pesce da loro pescato.
Tutto il racconto di Maupassant è giocato sulla contraddizione struggente tra la bellezza della natura e l’orrore della guerra, un orrore sempre presente, anche se dapprima come uno semplice sfondo inquietante, e poi, di colpo, come un destino tragico. Battaglia enfatizza questa opposizione, mettendo in mostra una natura rigogliosa e fiorita, del tutto dimenticandosi di aver iniziato il racconto, seguendo le parole di Maupassant, con un “In una luminosa mattina di gennaio…”. Ma di questo attacco si dimenticano rapidamente anche i lettori, tanto fluida e genuina per lo sviluppo narrativo appare la costruzione del contesto naturale…
Del resto, guardiamo questa penultima pagina del racconto, che mostra la fucilazione dei due amici, e la loro sbrigativa “sepoltura”. Nella seconda e nella quarta vignetta, la tragedia si consuma tra le piante fiorite, in mezzo a una natura meravigliosa e indifferente, ma non per questo meno coinvolgente. Oppure, guardate nella prima vignetta, in cui il corpo del Signor Morisot sembra quasi prendere radici al contatto col suolo, o comunque mescolarsi con l’erba. O guardate la terza, nella sua inconsueta verticalità, in cui tutto lo spazio in basso descrive sì un riflesso (tranquillo e meraviglioso a sua volta) ma anche, insieme, un’insondabile profondità, come quella della morte.
Ho lavorato più volte su un tema che nell’arte grafica di Dino Battaglia riveste una particolare importanza, quello dell’uso del bianco. Come si vede bene anche in questa pagina, il bianco può assumere qui ruoli diversi, e anche combinarli o mescolarli. Può essere un colore, come – in parte – nel corpo del Signor Morisot, o come nei cieli. Ma può essere anche un’assenza, di colore e di altro, come nello stesso corpo di Morisot, o come nel terreno sotto il cadavere di Sauvage nella seconda vignetta. Infine può essere una distanza, un distacco, una separazione, quale è normalmente lo spazio bianco tra le vignette, ma che qui ha una dimensione variabile e un valore sia narrativo che plastico. In aggiunta, può essere anche il semplice fondo-pagina su cui si stagliano le parole nelle didascalie e nei balloon.
E partiamo da queste ultime parole. Di quattro cartigli presenti sulla pagina, tre sono incorniciati e solo uno è liberamente steso sul fondo pagina, Questo uno, benché chiaramente relativo alla seconda vignetta, ne è più largo, e non si lascia iscrivere in un rettangolo ideale. Questo è tanto più significativo perché, come si vede bene in questa pagina, il lettering di Battaglia è attentamente coerente con lo stile del tratto dei disegni: parole e figure, insomma, appaiono formate della stessa materia. La prima e la quarta vignetta sono in parte senza cornice, ed è la posizione della cornice del cartiglio a definirne i limiti spaziali. La terza vignetta, quella lunga, è invece interamente incorniciata, e include il cartiglio, il quale, a sua volta, entra visivamente nell’alternanza delle aree chiare e scure, contribuendo a costruire una sorta di ritmo, all’interno del quale emerge la nota assai più lunga delle altre del riflesso nell’acqua, secondo la sequenza bianco (il cartiglio), nero (il bosco), bianco (il terreno coi soldati e il riflesso di tutto questo), neeeero (il riflesso del bosco), bianco (il riflesso del cielo). È grazie a questo ritmo alterato che il riflesso del bosco appare così profondo, alludendo a quella profondità da cui vengono i pesci (i doni della natura ai due amici) e a cui stanno per approdare i corpi martoriati.
Ma il cartiglio della seconda vignetta appare libero, e del tutto non inquadrato, né in maniera assoluta come quello della terza, né in maniera relativa come gli altri due. Anche qui c’è un’alterazione ritmica: un elemento libero tra elementi vincolati. Questo elemento libero è accostato alla vignetta che si trova tagliata dalla cornice nella maniera più drastica: mentre nelle altre tre i blocchi dei corpi descrivono la scena interamente, e la descriverebbero allo stesso modo anche se la cornice fosse meno definita, la cornice della seconda vignetta è essenziale per focalizzare solo i dettagli dei corpi caduti, dietro gli steli dei fiori in primo piano. E sono gli steli, qui, che potrebbero fare a meno della cornice, come se fossero loro i protagonisti – ed è in realtà questa l’allusione di Battaglia, fedele interprete dello spirito di Maupassant: la bellezza della natura resta, vince, a dispetto della malvagità dell’uomo e dell’orrore della guerra. E forse quella didascalia lì sopra è libera proprio come sono liberi quei fiori, si allarga sulla pagina, non possiede un confine che la debba definire.
Del resto il bianco come distanza è in Battaglia non solo un prezioso elemento di equilibrio grafico della pagina nel suo insieme, ma anche la materia stessa del flusso narrativo. È ciò che scandisce il ritmo, ora allargandosi, ora restringendosi, ora confondendosi del tutto o in parte con i bianchi interni delle vignette. Il bianco, quando non è un colore, rappresenta comunque un’assenza, che sia l’assenza (momentanea) di racconto (quella tra le vignette, quella che qualifica inesorabilmente il loro ritmo), o che sia l’assenza di definizione descrittiva. A differenza del cielo, che è bianco perché è chiaro, il corpo di Morisot nella prima vignetta è bianco perché egli ha già perso la vita, è già entrato nell’assenza di definizione della morte. Sauvage, sopra di lui, è ancora vivo, benché traballante, e il bianco sta invadendo pure lui. La processione, bianca, della terza vignetta si svolge evidentemente nel silenzio, cioè nell’assenza di definizione sonora; mentre il colore scuro ritorna nella quarta, dove lo splash nell’acqua è forte anche se non viene scritto sulla pagina. Del resto è silenzioso il cielo, ogni volta che appare (anche nel riflesso della terza vignetta), ed è silenziosa la terra sotto i fiori nella seconda, e anche nella quarta, nell’angolo a sinistra – e qui lo sarebbe pure il fiume (come nella terza) se non venisse turbato dai segni grafici che descrivono lo spruzzo.
Il nero, in queste pagine di Battaglia, ha un ruolo minore, ma ha comunque rilievo. Nella prima vignetta, quel terreno nero appena screziato di bianco in cui cade il corpo di Morisot rinvia chiaramente alla morte. Così incorniciato appare già quasi un sepolcro, e la scarsa definizione del margine inferiore della figura bianca, se da un lato può essere vista come dovuta alla presenza dell’erba, dall’altro fa sembra che quella figura stia continuando indefinitamente a precipitare, senza fermarsi – mentre, in alto, il corpo già instabile di Sauvage si prepara al medesimo viaggio. Anche nella terza vignetta, il nero del bosco è il nero del mistero, il nero misterioso della grandiosità della natura – di cui anche la morte fa parte.
Resta solo da domandarsi se qui sia il nero o se sia il bianco a inquietare di più. Comunque rispondiamo, Battaglia ha già vinto abbondantemente la sua gara.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Andrea Pazienza, tavola da “Le straordinarie avventure di Pentothal”, novembre 1977
Andrea Pazienza, tavola da “Le straordinarie avventure di Pentothal”, novembre 1977
Avrebbe da poco compiuto sessant’anni, Andrea Pazienza, nato il 23 maggio del ’56 e – diciamo così – sperperatosi il 16 giugno 1988. Mi perdonerete la provocazione, ma la capacità grafica e narrativa di APaz era un vero patrimonio dell’umanità, e non solamente sua. Purtroppo non si può rinchiudere in un museo un artista trentaduenne, il quale, tutto sommato, resta comunque un uomo, e ha i suoi diritti, ahinoi! Né probabilmente sarebbe davvero servito. Ma lasciatemi lamentare: in verità non gliel’ho mai perdonata.
Le due tavole da Le straordinarie avventure di Pentothal che guardiamo questo mese sono state pubblicate per la prima volta sul numero di novembre 1977 di Alter Alter, e sono state disegnate quindi – considerando i tempi editoriali – non più tardi di agosto del medesimo anno. Pazienza aveva ventun’anni, aveva già pubblicato su Alter due episodi del medesimo Pentothal, qualche sturiellet su una rivista autoprodotta e autodistribuita (con Scozzari, Tamburini e Mattioli), Cannibale, e distribuito delle vignette sulle barricate del marzo bolognese, che sarebbero in seguito state riunite sotto il titolo Il Kossiga furioso. Certo, c’era alle spalle una carriera artistica liceale brillante a Pescara, ma non conta gran che: di geni scolastici che poi non combinano nulla di rilevante nella vita son piene le fosse, proprio come del senno di poi.
E, viste col senno di poi, magari quelle sturiellet (Perché Pippo sembra uno sballato, per esempio) sono prodotti più maturi e compiuti – magari anche solo perché, non dovendosi esporre di fronte al grande Oreste del Buono, e alla intellighenzia tutta dei lettori di Alter, Pazienza si lasciava già più andare alla propria fantastica spontaneità inventiva. Tuttavia, anche nelle incertezze del disegno che, qua e là, Pentothal ancora lascia intravedere, è evidente che l’autore si sta impegnando a costruire qualcosa di nuovo e sorprendente, straordinario quanto sono straordinarie le avventure del suo personaggio (che è poi, come spesso gli capita, lui stesso).
In queste due tavole Pazienza paga una serie di debiti, in maniera più o meno esplicita: c’è l’underground americano, prima di tutto. I Freak Brothers di Gilbert Shelton accompagnano Pentothal, il quale ne assume il tipico andamento di camminata, ed essi lo seguono idealmente, a conferma di appartenere al medesimo mondo, dove the dope della maglietta del fratello di mezzo è chiaramente un valore cruciale – e il rapporto problematico con le forze dell’ordine ne è un altro. Dietro di loro il cannone fumante che invita a ripensare come visione tutta la scena immediatamente precedente (in un complessivo stato di allucinazione, che caratterizza tutte le pagine di Pentothal, dove quello di realtà è un concetto assai incerto) spunta dalla bocca di un deforme Paperino, mentre la faccia di Pippo (già eroe di APaz, in quegli stessi mesi, su un altro palcoscenico) è facilmente riconoscibile tra le gambe di Fat Freddy: insomma, ecco l’universo Disney. In altre due figurine del gruppo è chiaramente citato Altan, il cui Colombo! stava uscendo su Linus in quegli stessi mesi. Inoltre, se si conosce quello che Linus e Alter avevano pubblicato in quel periodo, non è difficile riconoscere nel rapporto tra i bianchi e il nero di questa stessa tavola l’ascendenza dell’Osso Morto di un altro maestro dell’underground, Vaughn Bodé (uscito su Linus da giugno ad agosto del ’76).
Moebius viene citato in maniera più esplicita in altre tavole, ma anche qui ne possiamo ritrovare elementi del tratteggio, e il deserto della seconda tavola ha molto di suo. No so se Pazienza potesse conoscere il lavoro di Gianni De Luca, la circolazione del cui Shakespeare era limitata in quegli anni al pubblico cattolico del Giornalino – ma forse la vicinanza di Mattioli, che già vi pubblicava Pinky, potrebbe avergli permesso di superare l’ostacolo (non piccolo, in quell’ambiente e in quegli anni). Del resto, anche senza scomodare De Luca, questa composizione globale delle tavole, senza suddivisione in vignette, veniva già sperimentata nei primi Settanta da Sergio Toppi, che pubblicava su Linus, e quindi gli era sicuramente noto.
Detto questo, pagati questi debiti (e chissà quanto altri, in verità, perché Pentothal rigurgita di citazioni, non sempre del tutto coglibili), quello che rimane di squisitamente pazienziano è sicuramente moltissimo. Per esempio, anche se questa composizione grafica, quasi da illustrazione, della tavola, gli arriva da Toppi, o anche da Druillet o da Gal, e in generale dagli Umanoidi francesi, tutti gli altri la usano per creare effetti epici e mitici. Qui l’effetto epico c’è: tuttavia, messo a confronto con il registro decisamente basso dei fatti narrati, serve a produrre un complessivo effetto parodistico, quella caricaturadell’epica di cui Pazienza è stato in tutto il suo percorso un assoluto maestro, sino a Pompeo, e oltre.
Si noti che nonostante ne faccia una caricatura, Pazienza non sta affatto negando che Pentothal sia un’epica: lo è anzi fino in fondo, e il titolo, con le sue Straordinarie avventure, sta a confermarlo. È però l’epica della vita quotidiana dello studente, l’epica dell’allucinazione, del sogno, dello sballo come apertura dell’area della coscienza; qualcosa che per essere riconosciuta come tale da una generazione che non sopporta la retorica dei propri padri deve rivestirsi di divertita autocritica. Una risata vi seppellirà, diceva uno slogan molto usato in quegli anni. Proprio perché Pazienza ha capito che la sua generazione non avrebbe sopportato nessuna celebrazione, ha potuto esserne il cantore, prendendo in giro prima di tutto se stesso e il suo mondo, ma al tempo stesso facendolo grandioso.
Si guardi la camminata verso la mensa della seconda tavola, e la fila di lunghezza incalcolabile che essa mette in scena. La soluzione prospettica trovata per mettere in scena tutto in una sola immagine è davvero straordinaria: quell’occhio di pesce dall’alto che riduce la figura centrale a una sorta di granchio, pur permettendo l’immediata riconoscibilità del percorso, e il successivo perdersi della fila in una lontananza incalcolabile, per poi ritornare verso di noi, a presentarci da vicino la sua massa di disgraziati, ulteriormente abbrutiti dall’attesa e dal caldo (il che fornisce forti indizi sul momento in cui Pazienza la possa aver disegnata, visto quanto la sua creatività è sempre stata legata alle occasioni dell’attualità, pubblica o privata che fosse). Ci importa poco che le ombre siano di fatto invertite (stanno una volta davanti e una dietro alla figura che le proietta) perché sono comunque elementi che concorrono alla riconoscibilità delle figurine e della situazione: la prima è dinamica e segue il personaggio alla sua prima comparsa. Nella seconda comparsa (quella vista esattamente da sopra) non c’è ombra. Rispetto alla terza comparsa, in cui Pentothal si è fermato alla vista della coda, l’ombra funge da anticipazione, trovandosi sul percorso inevitabile dell’occhio (e del racconto), ed è diritta rispetto al verso di lettura, mentre la figurina che la proietta è rovesciata.
Rovesciato è pure il balloon, con la scritta “Immensa questa fila inmensa”. E si noti che nel lettering lo spazio tra la n e la m di “in mensa” non c’è, per cui “inmensa” finisce per diventare un rafforzativo di “immensa”, un trucco favorito dalla difficoltà di lettura del testo a rovescio. Infine la staticità della figurina rovesciata che guarda l’immensa fila in mensa arriva dopo tutto quel camminare ritmato: prima Pentothal insieme con i Freak Brothers e Paperino, poi altre due volte lui da solo, accompagnato dalla citazione del titolo/testo di una nota canzone (Just Like e Woman) che ne evoca efficacemente la scansione ritmica. Un bel contrasto! Una fantastica caricatura della delusione.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Manu Larcenet, Blast 1, pagina 42
Manu Larcenet, Blast 1, pagina 43
Manu Larcenet, Blast 1, pagina 44
Manu Larcenet, Blast 1, pagina 45
Blast, di Manu Larcenet, è indubbiamente uno dei lavori a fumetti più interessanti degli ultimi anni, e non solo in ambito francese. Tra l’altro, nemmeno particolarmente francese appare questo suo modo di raccontare e disegnare; forse vagamente italiano; forse imparentato con un Gipi che ancora non aveva realizzato unastoria, ma che tanto aveva comunque già fatto in una direzione simile. Simile soprattutto nel tratto, continuamente ambiguo tra una linea schizzata di pennino e aree improvvisamente piene di sfumature di grigio (o di colore); ma con qualche analogia anche nell’amore per le situazioni ambigue e inquietanti. Difficile dire se un influsso vi sia (anche se qualche immagine con paesaggi a piena pagina, grandi cieli con il territorio basso basso, fanno sospettare che ci sia davvero), e in fin dei conti poco importa: Gipi e Larcenet sono comunque entrambi tra i migliori autori sulla scena degli ultimi anni.
Ambiguo, anzi ambivalente, è del tutto il protagonista di Blast, Polza: insieme rivoltante e affascinante, e ancora più affascinante perché anche il suo essere rivoltante finisce per acquistare un senso, e un senso che ci prende. Rivoltante perché di una grassezza esagerata e laida, alimentata da merendine e alcool scadente, con una vita da barbone che non si risparmia varie nefandezze – e tutta la storia, come in un incubo alla Simenon, viene da lui raccontata a due ispettori di polizia, senza che si capisca bene quale sia il delitto che egli ha indubbiamente commesso. Affascinante perché questa sozza palla di lardo rivela continuamente una sensibilità, un’attenzione alla vita e un’intelligenza narrativa che non lasciano indifferenti, e coinvolgono emotivamente il lettore – e anche i poveri poliziotti che vorrebbero arrivare al sodo, mentre Polza sembra giocare con loro come il gatto col topo, costringendoli e seguire e vivere con lui tutto il suo interminabile racconto.
Questa stessa ambivalenza caratterizza le quattro pagine che analizziamo questo mese. Polza ha da poco iniziato a raccontare la propria storia ai poliziotti, arrestato perché – pare – ha massacrato una ragazza. Ha un po’ raccontato, sin qui, la propria infanzia, e il rapporto col padre, rapporto poi progressivamente sfilacciatosi e spentosi. Fino a quando, già grasso, enorme e fallito, viene chiamato all’ospedale dove il padre è malato terminale, ormai in coma farmacologico, e da lì, non sopportando la situazione, fugge ubriacandosi sotto la pioggia. Ed è in questa occasione che ha il primo blast.
Il blast è una sorta di esplosione interiore, di esperienza improvvisa e sconvolgente di spaesamento; una specie di allucinazione, che però, come si vede in queste pagine, ti permette uno stato particolare di lucidità, e l’accesso a percezioni altrimenti impossibili. La comparsa del moai, la testa di pietra dell’isola di Pasqua, finisce per esserne l’elemento cruciale, simbolico di un rapporto naturale ed eterno con le cose.
Il racconto visivo è a sua volta sospeso tra l’oggettività esterna di una sequenza cinematografica, della quale riprende la tecnica di inquadratura e montaggio, e una serie di accentuazioni e alterazioni di carattere molto più soggettivo, espresse attraverso il disegno e la variazione di dimensione della vignetta, ovvero del quadro – cioè attraverso gli aspetti più specificamente fumettistici. L’allargamento della terza vignetta della prima pagina sottolinea lo smarrimento, la solitudine, insieme con lo squallore complessivo del luogo. Ma è soprattutto il conato di vomito subito sotto ad avvicinarsi al sentire soggettivo di Polza, attraverso la scomparsa di tutti i dettagli ambientali, mentre il corpo resta disegnato a sole linee di pennino, e l’unica zona dettagliata e colorata è proprio quella della bocca, dove inevitabilmente si concentra l’attenzione di uno che vomita.
Dopo un attimo, una vignetta, di ripresa dell’oggettività, ritorna ad accadere graficamente lo stesso nel momento in cui il blast inizia: non solo l’inquadratura si fa vicinissima, ma anche nella scelta dei tratti tutto ciò che caratterizza il mondo circostante scompare e il disegno focalizza solo il volto. E la cosa continua allo stesso modo, in crescendo, nelle sei vignette successive, nelle quali sempre di più impazza il colore, accesissimo, e tuttavia scarabocchiato come dalle mani di un bambino. Il colore invade la testa e il corpo di Polza, senza essere colore del mondo. Finché, a metà della terza pagina, di colpo ci ritroviamo nella situazione oggettiva: figura intera, col marciapiede e la pioggia, e niente più colore.
Ancora, nelle ultime due vignette della pagina, il quadro torna vicinissimo, e l’ambiente scompare. Polza apre gli occhi, guardando verso l’alto. La grande immagine della pagina successiva sottolinea, con la propria dimensione relativa, l’impatto emotivo della grande figura del moai sul nostro protagonista: è la prima soggettiva vera e propria della sequenza, ma eravamo già preparati alla resa della soggettività.
A questa resa contribuiscono indubbiamente due elementi generali: il racconto in prima persona, insieme appassionato e ironico; e la tonalità generale del disegno, insieme caricaturale ed emozionale. Notiamo che nel momento in cui descrive l’ingresso nel blast, dopo aver detto “Sentivo di pesare cento volte tanto…”, Polza non può esimersi dall’aggiungere “Vi lascio immaginare”, con evidente riferimento al suo peso già in sé non leggero. Ma poi, subito dopo, ci riporta nella relazione appassionata, così appassionata che, quando le cose si fanno ancora più intense, con la comparsa del moai, la voce tace, e nelle pagine successive (che qui non vediamo) non ci sono più parole, ma quasi la presenza di un’esperienza che si può solo vivere, e non raccontare verbalmente.
Ci pensa però il disegno a portare avanti l’ambivalenza. Non solo Polza; in questa storia tutti i personaggi sono rappresentati con tratti grotteschi, nasi eccessivamente lunghi, o troppo larghi, corpi troppo grassi o troppo magri – il padre addirittura con un lungo becco da uccello. Certo non è un grottesco che miri all’umorismo, anche se, ricorrentemente, permette e favorisce uno sguardo ironico o sarcastico sulle cose, parallelo a quello tenuto dalla voce di Polza. È piuttosto un grottesco espressionista, un’enfatizzazione dei tratti particolarmente significativi del mondo, che li mette in luce a scapito di quelli meno rilevanti. Per questo poi i momenti di comunione con la natura che Polza vivrà nelle pagine successive appaiono così felici, felici non solo per lui, ma anche felicemente riusciti: in questa storia di contrasti estremi, e insieme di razionalistico (ma quasi psicotico) distacco, il grottesco permette di tenere insieme tutti gli elementi. E alla fine non saremo in grado di dire se Polza sta raccontando la verità, o il meraviglioso racconto di uno psicotico che si è costruito da solo la realtà a propria misura.
DOCUMENTAR UN DOCUMENTO HISTÓRICO. MODALIDADES DIFERENTES DE COMUNICACIÓN EN LE PHOTOGRAPHE, DE GUIBERT Y LEFÈVRE
Bilbao, 2015
Le photographe, de Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre y Frédéric Lemercier, es una novela gráfica publicada originalmente en tres partes entre 2004 y 2006 por Editorial Dupuis. El libro narra el viaje realizado por el fotógrafo Didier Lefèvre a Afganistán en 1986, como parte del equipo de Médicos Sin Fronteras (MSF), durante la guerra de liberación de la dominación soviética. Se trata de un trabajo muy particular, también en los relatos dibujados, no solo por la abundancia de la narración verbal (la voz del narrador), sino también por la intercalación de viñetas dibujadas y fotografías tomadas en el campo por Lefèvre. Guibert es el creador de la obra y el dibujante de las viñetas; Lemercier se ha encargado del diseño gráfico, así como del color del conjunto.
Como se trata de una historia real, con relevancia periodística, Le photographe podría atribuirse al género del periodismo gráfico. Sin embargo, más que sobre las condiciones de Afganistán y el trabajo de MSF (que por cierto están muy bien documentados), la obra se centra en la experiencia humana del protagonista, y en su relación con el entorno y con su propio trabajo. Los tres volúmenes originales cuentan, respectivamente: el viaje (a pie en las montañas, con el grupo MSF), la permanencia y el trabajo diario de MSF, así como el regreso solitario y penoso (otra vez caminando en las montañas).
Antes de iniciar el análisis específico hay que decir unas pocas palabras acerca de dos grandes temas: la diferente modalidad comunicativa de las imágenes dibujadas o pintadas y de las fotográficas; y, en el discurso específico de la novela gráfica, el diferente papel que corresponde a la palabra narrativa (en los cartuchos) y a las viñetas (Barbieri, 2004).
La imagen dibujada, como la pintada, es una imagen producida por la mano, cuya adhesión testimonial a determinada realidad se basa enteramente en la confianza en las intenciones y capacidades del diseñador, sin perjuicio de las convenciones gráficas e iconográficas adoptadas. Debido a su naturaleza de imagen producida, la imagen dibujada constituye en sí misma una síntesis extrema, tanto en la representación de la tercera dimensión, con sus volúmenes y sombras, como en la cantidad de detalles. En el contexto adecuado, todavía puede ser considerado afín a cualquier realidad (y por lo tanto, testimonial) también un dibujo muy estilizado, en el que faltan completamente los detalles del fondo; siempre que, en definitiva, estén presentes y reconocibles los elementos figurativos que distinguen la situación de acuerdo a las características que consideramos relevantes. En este sentido, la variabilidad de un dibujo como fuente documental de alguna situación real irá desde el boceto (o desde la máxima estilización) hacia una precisión de nivel fotográfico -presuponiendo siempre la fiabilidad del dibujante-.
La imagen fotográfica es, por el contrario, una imagen semi-automática, el producto objetivo de la grabación de la luz en la emulsión sensible. Lo que vemos en una foto sin duda se presentó ante el ojo del fotógrafo en algún lugar y tiempo. Por supuesto, se puede trucar una foto, pero, sobre todo, en tiempos del pre-Photoshop, socialmente creemos que estos trucos son suficientemente fáciles de detectar; por lo que podemos atribuir a las fotos incluso significación jurídica: su fidelidad testimonial a una realidad es entonces aceptada por el hecho mismo de ser una foto. Sabemos que hay muchas maneras de hacer igualmente “mentir” a una foto: aunque la realidad representada sea innegable, no hay garantía en la foto de que esa sea la misma que está declarada, o que coincida con la ubicación, el tiempo y las circunstancias que tendría que testimoniar. La historia del fotoperiodismo está repleta de falacias: situaciones reconstruidas ad hoc y presentadas como auténticas.
Por otra parte, este milagro de la objetividad tiene una amplia gama de componentes subjetivos, que se deben a la elección del fotógrafo: para limitarnos al solo reportaje fotográfico (en el estudio todavía se incorporan otros elementos), el momento y la duración del disparo, el encuadre, lentes, filtros, etcétera. Con estos instrumentos, a través de su propia elección, el fotógrafo vuelve el fragmento seleccionado y reproducido de realidad en un discurso subjetivo; lo convierte en su propia visión de esa realidad. Dentro de este discurso subjetivo, el componente objetivo, de testigo, no desaparece; sigue existiendo, aunque reducido por los diversos filtros de la simple visualidad, de la inmovilidad temporal y de la subjetividad de las opciones ópticas y espacio-temporales del autor.
No hay fotos, por lo general, en las historietas. En algunos casos las encontramos integradas en un marco dibujado, tal vez explícitamente retocadas, casi para dar un toque de realismo a la situación. Pero su naturaleza documental ya no sigue siendo, por lo general, nada más que esto; ni, por lo general, el hecho es particularmente relevante.
Curiosamente, el paralelo fotográfico de la novela gráfica estándar, es decir, la fotonovela, nunca llegó a picos de especial calidad; y los pocos casos de fotonovelas interesantes suelen ser satíricos, como los que aparecían en Hara-Kiri Mensuel. Creo que lo que limita las posibilidades de la fotonovela es precisamente la naturaleza documental de la fotografía, su inevitable adherencia a la realidad; donde un buen diseñador puede jugar con la deformación y la elipsis para enfocar la atención del lector, mientras que un buen fotógrafo debe en cambio afectar a la realidad que va a reproducir, sin posibilidad de elipsis. Condenado a mantener fondos y detalles, y condicionado por la naturaleza esquemática de las expresiones de los actores en la escena (no ocultas por el movimiento, que en la película las hace más tolerables), el autor de fotonovelas tendría que derrochar demasiado tiempo y dinero…
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tre anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Chris Ware, da Building Stories
Dopo averlo così ripetutamente evocato parlando, la volta scorsa, di Paolo Bacilieri, sembra quasi doveroso approdare stavolta a Chris Ware, e lo faccio attraverso questa bella doppia pagina da Building Stories (Pantheon Books 2012, inedito in Italia). Il titolo dell’opera è volutamente ambiguo, volendo infatti dire sia storie di edificio che costruire storie, e tutte e due le interpretazioni sono in questo caso plausibili, visto quanto è importante l’idea di edificio nelle storie che vi sono raccontate, ma visto anche che l’opera si presenta come una raccolta di pezzi, diversi come spessore e formato (dal libro al singolo paginone apribile), che si possono leggere secondo qualsiasi ordine, costruendo una o più storie attorno alla vicenda centrale della ragazza dalla gamba amputata che è sia il soggetto narrante che il principale personaggio.
Questa idea doppiamente architettonica si rispecchia nella struttura delle singole pagine, o doppie pagine, come in questo e in molti altri casi. Qui la protagonista (di cui mai viene detto il nome, perché il punto di vista del racconto verbale è sempre quello suo soggettivo) sta ricordando un episodio accaduto durante una visita a casa dei genitori, che le riporta alla mente una precedente visita, compiuta insieme al fidanzato di allora, il quale pochi mesi dopo la avrebbe lasciata molto sbrigativamente e dolorosamente per lei. La doppia pagina ruota attorno all’immagine centrale della stanza di lei vuota, che si ripete quasi identica dalla doppia pagina precedente (salvo che in quella all’esterno si vede il buio, e qui il sole), ed è organizzata per blocchi narrativi e grafici: le prime sei vignette, dove lei è a letto; le successive nove, insieme con i genitori; la sequenza con la madre in automobile; il raccordo verbale al centro pagina da cui parte una freccia che termina sulla parola BUT (ma); la lunga sequenza che conclude la doppia pagina e l’intero episodio occupando quasi tutta la pagina di destra.
Con una tecnica che in Building Stories Ware usa molto spesso, l’immagine centrale (qui la stanza svuotata) non è direttamente inserita nel racconto, ma è graficamente attraversata da una linea che ne rappresenta il filo. Come dire che da lì in ogni caso si passa, e la metafora dello svuotamento rappresenta direttamente il sentimento dominante della narratrice, mentre mette anche in scena il momento di passaggio tra la camera com’era (nel passato) quando lei ci dormiva da bimba e fino a pochi anni prima, e come è adesso, dopo che la madre dei lei ne ha fatto il proprio studio, sostanzialmente cancellando il passato della figlia.
Questa ambivalenza del valore dell’immagine centrale, che ribadisce più o meno la stessa cosa in diversi modi, si ritrova un po’ in tutta la doppia pagina (e in tutto Building Stories). La sua stessa struttura grafica complessa facilita gli errori del percorso di lettura, e sbagliare qui non è solo permesso bensì quasi favorito, e persino coerente con la modalità generale del racconto, il quale ondeggia continuamente tra momenti storici diversi, presente e passato, permettendoci sì di distinguerli, ma non immediatamente al primo sguardo – e quando arriviamo a cogliere gli indizi che rivelano che il salto temporale c’è stato, abbiamo già percepito gli elementi di continuità che hanno favorito l’errore (e ricordiamo che l’intera opera è fatta di frammenti componibili secondo lo stesso principio).
Insomma, la storia c’è, indubbiamente, ma molto più forte della vicenda che si sviluppa è la costruzione di un mood, di un tono emotivo, che passa dalla protagonista al lettore attraverso lo stratagemma della voce narrante in prima persona. Pure qui, però, la strategia di Ware è tutt’altro che semplice o omogenea: alla voce narrante emotivamente coinvolta in prima persona, che evidentemente ha vissuto (o sta vivendo) i fatti da dentro, corrisponde uno stile grafico geometrico e distaccato, assolutamente gelido e oggettivo, in cui gli angoli retti e a 45 gradi sono assolutamente dominanti, in una schematicità assonometrica che nega persino l’umanesimo della prospettiva in nome di un’apparenza di razionalità totale. Nell’assonometria, infatti, manca il punto di vista individuale che caratterizza la prospettiva propriamente detta (quella centrale rinascimentale, per intenderci): le linee non convergono all’orizzonte, e la visione è quella da occhio di Dio, o da occhio astratto della ragione, spersonalizzato. Questa stessa visione viene però a sua volta messa in discussione: nelle immagini della camera di lei, quella centrale soprattutto, il soffitto obliquo crea altre diagonali, opposte a quelle dell’assonometria, mentre la diagonalità delle scale a sinistra complica ulteriormente il gioco.
Insomma, l’oggettività evocata da questo modo di costruire lo spazio finisce per non essere affatto una rassicurante ricostruzione del mondo, in cui tutti i pezzi trovano razionalisticamente il loro posto, bensì, proprio al contrario, una sorta di labirinto depersonalizzato, in cui le cose hanno un posto soltanto in apparenza, perché quello che manca è un io coerente che le organizzi davvero. L’apparenza di oggettività finisce per presentarsi dunque come la presenza di un vuoto, come il percorrere corridoi che non portano da nessuna parte, a nessuna soluzione.
Questo vuoto esistenziale costruito dall’eccesso di oggettività grafica corrisponde dunque strettamente al vuoto emotivo testimoniato soggettivamente dal racconto verbale. Sembrano fare da tramite tra le due dimensioni quelle poche parole scritte più in grande: LATER, NEEDLESS TO SAY, e soprattutto BUT, nel loro suggerire un sentimento di impotenza, mentre sono composte tipograficamente con il più freddo dei caratteri da stampa. Ecco quindi come Ware costruisce il proprio senso del tragico, combinando due modalità opposte a trasmettere un messaggio simile, ma in questo modo quasi rendendo vana la soggettività mentre si rende universale, quasi oggettiva, la vanità.
La pagina, le storie, appaiono come reticoli di umanità raccontati con grande profondità psicologica, mentre questa medesima vita vissuta e così intensamente resa sembra confrontarsi con un’oggettività che la svuota di senso, la rende inutile. Questo senso di inutilità permette da un lato il distacco del lettore dall’angoscia della protagonista, angoscia che può essere percepita magari come eccessiva, come “quello che a me non potrebbe accadere: io saprei come difendermi”; ma dall’altro pervade il lettore con un’angoscia ancora più tragica, del tipo “che accada o non accada anche a me che cosa cambia?”. Le storie che Ware racconta sono toccanti e profonde e vere, ma è il distacco emotivo che lui riesce a costruirci sopra mentre al tempo stesso ce ne rende partecipi, a evocare una dimensione di suprema inutilità, di vuoto esistenziale, di non affidabilità di tutti i valori in cui ugualmente crediamo – e pure lui sembra crederci, a dispetto di tutto, magari per qualche attimo, perché solo credendoci facciamo emergere un senso nella vita.
Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Paolo Bacilieri, Fun, pagina 70
Paolo Bacilieri, Fun, pagina 71
Guardiamo queste due pagine (70 e 71) di Fun, di Paolo Bacilieri (Coconino 2014). Soprattutto nella prima riconosciamo una tecnica molto usata in certi momenti da Frank Miller, quella della splash page che presenta la scena nel suo insieme, inquadrandola nel suo complesso spazialmente e temporalmente, su cui si appoggiano vignette piccole all’interno delle quali si sviluppa nel dettaglio la vicenda. Soprattutto nella seconda pagina riconosciamo invece una tecnica molto usata da Chris Ware, dove le piccole vignette si moltiplicano, con l’aggiunta di frecce e percorsi indicati o aree di fondo bianco lasciate intenzionalmente vuote.
Che cosa hanno in comune due autori così lontani tra loro come poetica, come Miller e Ware? Almeno due cose, direi. La prima è l’attenzione alla costruzione grafica della pagina in senso spettacolare – anche se la spettacolarità di Ware è antitetica come spirito a quella di Miller, essendo una spettacolarità dell’immobile e del raggelato, un esercizio raffinato di proporzioni in cui è sì necessario ricavarsi una dinamica della lettura (si tratta comunque di una storia a fumetti) ma tutto sembra remare contro; mentre in Miller la spettacolarità è momento culminante di un flusso che vuole essere travolgente proprio nel suo scorrere. La seconda è un forte senso della tragedia – di nuovo antiteticamente risolto: tragedia personale, interiore, inesprimibile se non indirettamente per Ware, conflitto di ideologie o di morali per Miller, mostrato come una guerra. Fatte salve le grandissime differenze tra le due impostazioni, sia Ware che Miller sembrano prendere molto sul serio la vita e il modo di raccontarla, premendo, ciascuno a modo suo, il pedale dell’acceleratore dei sentimenti, verso il freddo e il distacco, o verso il caldo e il coinvolgimento.
Ora, che cos’hanno in comune Ware e Miller con Paolo Bacilieri? Come si spiega l’innegabile convergenza grafica che si può notare in queste (e in molte altre) tavole? C’è spettacolarità grafica e c’è tragedia in Bacilieri? Be’, sì, ci sono – anche se non è proprio Fun il luogo della tragedia (Sweet Salgari sarebbe un altro paio di maniche); e tuttavia, se invece di tragedia parliamo di senso del tragico (definito da Thierry Groensteen qualche anno fa parlando di fumetti e in particolare proprio di Chris Ware) inteso come il senso della tragicità e ineluttabilità dei fatti della vita (come lotta inutile nei confronti del destino), ecco che lo troviamo anche nella seconda delle due nostre pagine, e non manca mai, in effetti, nei lavori di Bacilieri, anche quelli in apparenza più scanzonati.
Il fatto è che è pervasivo nel lavoro di Bacilieri, da quello che racconta al modo di raccontarlo sino al tratto del suo disegno, un senso dell’ironia, o forse dell’autosarcasmo, o forse di un distacco un poco sardonico, come un lieve darsi continuamente dello sfigato che, poiché poi né l’autore né il protagonista sono davvero tali, ci qualifica un po’ tutti come tali. Insomma, mentre in Miller c’è l’eroismo del fare, dell’azione, del risolvere, e in Ware c’è l’eroismo del resistere, del perdurare, dell’affrontare la vita di tutti i giorni, quello che viene ribadito qui è proprio un generale antieroismo, dove persino il tragico e la spettacolarità finiscono per essere oggetto di uno sguardo disilluso e un po’ distaccato. Guardate, nella seconda pagina, il modo in cui viene descritta la morte sul lavoro di Zattera: nelle immagini e persino nel lettering dei balloon tutto è quotidiano e ironico, come se si raccontasse un episodio buffo (guardate quei piedi che escono da sotto le lastre di marmo, che sembrano presi da una vignetta di Crumb, per esempio); però al tempo stesso la narrazione è secca e fredda, e dice i fatti nella loro agghiacciante semplicità, preparando il vuoto della seconda parte della terza striscia, e la ripetizione ossessiva del dramma dello zio Italo nelle vignette successive.
Persino le forme preferite da Bacilieri sembrano andare nella medesima direzione. Guardate (qui e altrove) come le forme rotondeggianti o quelle quadrateggianti tendano continuamente alla forma intermedia del rettangolo con gli angoli smussati. È così sempre per i balloon e le didascalie, è così per il lettering (componente importantissima del lavoro di Bacilieri), ed è spesso così anche per le teste, e talvolta persino per le vignette (non qui). Si tratta però di rettangoli irregolari, disegnati a mano con la voluta incertezza della mano libera – nella somiglianza e nell’opposizione con un procedimento non così dissimile seguito da Chris Ware, che però sfrutta geometrie pure e perfette. Magari è proprio in questa contrapposizione tra quelle geometrie, dove il tragico è freddo e distaccato, quasi una condizione esistenziale assoluta, e queste ricercate imprecisioni che si coglie l’antieroismo di Bacilieri, per cui il tragico c’è, certo che c’è, ma non c’è niente di assoluto in ciò, e la banalità della vita quotidiana (che comprende anche la nostra capacità di non prenderci troppo sul serio) è quello che conta davvero.
È questo che dà calore alle sequenze di Bacilieri, contrapponendolo definitivamente al gelo esistenziale di quelle di Ware: è come se Ware disegnasse storie come potrebbero essere viste dall’occhio di Dio, oggettivo e distaccato, mentre Bacilieri le disegna come potrebbero essere viste dal mio occhio, o dal suo, o da quello di uno qualsiasi di tutti gli sfigati di questo mondo (dei quali persino il nome del suo personaggio Zeno Porno è una fantastica, ironica ed efficacissima metafora).
Smontato così il tragico (senza però disfarsene), cosa ne è dello spettacolo? Be’, qui la soluzione è facile: mostrare in maniera spettacolare il quotidiano, nella sua palese antispettacolarità, è un classico della parodia, uno straniamento che ci costringe a guardarlo con occhi diversi, ben attenti a quello che si presenta di ridicolo. Siamo quindi ancora in linea con quello che abbiamo già osservato. Solo che pure in questo caso, proprio come con il senso del tragico, la spettacolarità non si dilegua affatto, rimane (e sappiamo bene come ci siano tavole, anche in questo stesso Fun, fortemente giocate sullo spettacolo grafico – per esempio tutta la sequenza iniziale su New York), anche se in forma un po’ dimessa (il bianco e nero, la bicromia, la normalità dei soggetti che riempiono i quadri…), continuando a suggerirci che è possibile uno sguardo non banale anche sul banale, e che da una vita da sfigato è possibile uscire, pure senza essere l’occhio di Dio, ma con un semplice occhio un poco distaccato, e magari pure un po’ affettuoso.
È il bianco di fondo così dominante, con questi canali bianchi così grossi tra le vignette, a fomentare il confronto con Chris Ware nella seconda pagina. Ma il gioco di irregolarità, pervasivo nei dettagli e diffuso nella struttura, rende la pagina di Bacilieri tanto affettuosa e partecipe quanto quelle di Ware sono fredde e distaccate. Persino questa piccola polifonia di balloon e didascalie diverse, creando quasi un effetto di confusione, alimenta la percezione di un calore affettivo diffuso, come se alla pianificazione grafica indubitalmente presente si sovrapponesse poi una spinta istintuale, un non poter fare a meno di aggiungere dettagli, piccole curve storte, piccole modulazioni dal tondo al grassetto (e ritorno) nel lettering.
Gran parte delle storie contenute in fumetti romanzi film racconta di uno o più protagonisti che cercano di ottenere qualcosa: un tesoro nascosto, la verità su un delitto, la pace interiore, l’amore – o magari semplicemente la sopravvivenza in una situazione pericolosa. Il lettore si identifica con questa ricerca, che diventa il motivo per cui si rimane attaccati alla lettura, o alla visione. Il percorso del lettore è un percorso passionale, che ha qualcosa in comune con quello che viviamo nella nostra vita di tutti i giorni; ma qui è un percorso mediato, condotto, esemplare. Rimaniamo attaccati alla storia perché vogliamo sapere come va a finire: se il protagonista riuscirà o fallirà, e come ci riuscirà o come fallirà. Se qualcuno ci rivelasse in anticipo come va a finire lo odieremmo, lui e il suo spoiler, perché ci toglierebbe il gusto del non sapere, e quindi del patire insieme con i personaggi, ignorando insieme a loro cosa deve ancora accadere.
Ci sono però storie (romanzi, racconti, fumetti, film) che reggono benissimo l’eventuale anticipazione. Potete sapere già come va a finire (vi hanno raccontato tutto, l’avete già letto o visto…) e la storia vi coinvolge lo stesso. Non siete trascinati insieme con i protagonisti nella loro vicenda; voi siete come un dio che sa già tutto, o almeno che sa che cosa deve accadere. Eppure siete ugualmente appassionati.
Evidentemente, il testo che state leggendo o guardando vi dà ugualmente qualcosa, come quando ascoltate una canzone per la centesima volta e vi piace lo stesso: non c’è il problema di “come va a finire” eppure vi sentite coinvolti, appassionati. O anche quando ascoltate un brano di musica più complesso di una semplice canzone: il problema del “come va a finire” non è proprio in gioco, eppure state lì ad ascoltare, magari ugualmente appassionati.
Funzionano un po’ così miti e leggende: magari li conoscete già, o magari no, ma assomigliano a un altro che conoscete e non è difficile capire cosa succederà. Eppure, qualche volta, ripercorrerli è ugualmente magico. Altre volte invece no. In che cosa sta la differenza? Potremmo dire, genericamente: nel modo di raccontare. E il modo di raccontare potrebbe essere definito come un modo per recuperare l’interesse di qualcosa di già noto facendocelo apparire sotto aspetti diversi, aspetti ignoti. Un bravo narratore, insomma, a parole così come per immagini, è in grado di farvi vibrare e penare anche per una vicenda che conoscete già. Sapete come andrà a finire, ma non sapete che cosa vi aspetta al prossimo passo, e, soprattutto, questi prossimi passi arrivano uno dopo l’altro un po’ come gli sviluppi di una melodia musicale, con un ritmo che vi trascina.
Funziona un po’ così anche Ghirlanda, di Lorenzo Mattotti e Jerry Kramsky. Mattotti è recidivo: l’aveva già fatto qualche anno fa con Chimera. Tuttavia, a differenza che in Chimera, una storia in verità stavolta c’è, e c’è anche qualche sorpresa verso la fine, ma siccome si tratta evidentemente di una favola, il lieto fine è canonicamente atteso, e infine rispettato. Un po’ di tensione narrativa normale, quella che si potrebbe spoilerare, in fin dei conti è presente. Eppure non è davvero l’incertezza sul futuro di Ippolito e Cocciniglia a mandarci avanti, pagina dopo pagina.
La giuria della XXII edizione del premio letterario Poesia di Strada, composta da Maria Grazia Calandrone, Enrico De Lea, Renata Morresi, Eleonora Pinzuti e Alessandro Seri si è riunita in data 30 ottobre 2019 e ha decretato i 10 poeti finalisti che in ordine alfabetico sono:
Alessio Alessandrini, Luca Ariano, Daniele Barbieri, Matteo Bonvecchi, Marta Chiacchiera, Jacopo Curi, Maria Lenti, Sergio Rotino, Silvia Secco e Stefano Serri.
I primi tre classificati della XXII edizione e il vincitore del premio della giuria popolare verranno proclamati in occasione della serata finale che si terrà al Teatro Verdi di Pollenza (MC) la sera del 7 dicembre 2019.
Di DANIELE BARBIERI * Dietro alla nozione di testo sta la nozione di coerenza. Dire coerenza significa dire, con Eco, che il testo è l’espansione di un semema, o con Greimas, che è la manifestazion…
Di DANIELE BARBIERI * È possibile classificare le teorie estetiche del Novecento in due grandi filoni. Non si tratta ovviamente della sola classificazione possibile, ma si tratta comunque di una di…
Ringrazio Sonia Caporossi per aver iniziato la pubblicazione su Critica Impura (il blog) di tre mie vecchi saggi di tema estetico. Sono piuttosto corposi e saranno pubblicati a puntate. Ecco il primo capitolo del primo saggio: "Percorsi passionali"
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