Recensioni d’annata, 1999. Fantascienza, il fumetto osa di più

Fantascienza, il fumetto osa di più
Il Sole 24 Ore, 25 aprile 1999

Non c’è dubbio che la fantascienza sia figlia di un’epoca che della scienza ha fatto il proprio mito. Quando il Pianeta è già tutto inesorabilmente esplorato, e ai folletti dei boschi non fa caso più nessuno – perché più nessuno ha paura del bosco – quando dei, cavalieri e principesse rimangono soltanto per farci sorridere… la nuova frontiera del mito si sposta allora più in là, e gli esploratori attraversano il cosmo, e gli spiriti maligni sono quelli che stanno nelle macchine, e la frontiera è quella del cyberspazio…

Non c’è nemmeno dubbio, d’altra parte, che esploratori, spiriti, dei, cavalieri e principesse non sono affatto scomparsi. La fantascienza, neonata o matura, li ha fatti tutti propri, ridisegnandoli con la propria penna. L’iconografia tradizionale ritorna ammantata di metallo e di silicio. Il golem e lo spirito del male che ha preso forma umana ritornano nell’automa di Metropolis. Il cavaliere che libera la principessa combatte con la spada laser contro un impero dai caratteri medievali. Gli dei sono entità mangiamondi contro cui combattono Quattro Fantastici umani…

A fumetti, la fantascienza nasce, ufficialmente, appena tre anni dopo la sua origine letteraria, sempre quella ufficiale, s’intende. Ufficiosamente, letteratura e grafica di anticipazione esistevano da oltre un secolo, e lo stesso cinema arriva sulla luna ben prima di questi fatidici 1926 e 1929. Ma è solo in questa coppia di anni che accade qualcosa che rende riconoscibile il genere: nel 1926 viene fondata la rivista Amazing Stories, che raccoglierà da allora la narrativa fantascientifica (ben presto seguita da una pletora di imitatori); tre anni dopo viene pubblicato “Buck Rogers in the Year 2429”, un fumetto ispirato a un racconto di fantascienza di grande successo.

Siamo nell’ambito del pulp, è noto, quel fenomeno che vede, negli anni Venti e Trenta, la produzione di una quantità di romanzi (e poi di fumetti) di basso prezzo e generalmente di bassa qualità, tirati e venduti con numeri da capogiro. Ma anche all’interno del pulp si sono verificati fenomeni di interesse non solamente massmediologico, e la fantascienza ha occasionalmente prodotto delle opere interessanti, crescendo nei decenni successivi verso una maturità artistica che altri generi coevi non hanno mai raggiunto.

“La fantascienza” ci fa notare Daniele Brolli “è quel genere che rinnova le sue regole a ogni storia”. O meglio, prosegue poi, lo sarebbe se non fosse bloccata da un pubblico conservatore, che ama ritrovare le stesse situazioni, e fatica ad accettare i grandi sconvolgimenti. “Ma la fantascienza a fumetti è un’altra cosa, forse esattamente l’opposto”: è il disegno a mantenere alto il suo livello di credibilità, e a permetterle di osare assai più spesso.

Lo si vede bene visitando la mostra “Fantascienza. Ritorno alla terra. Il fumetto e la grafica della fantascienza come anticipatori di visioni”, aperta a Trento sino al 9 maggio, e dal cui catalogo sono tratte le osservazioni di Brolli. Settant’anni di fantascienza a fumetti sono preceduti da due secoli di approssimazioni e tentativi, occasionali o sistematici; e la mostra spazia tanto sulla storia di questo genere come sulla sua preistoria.

Si può scoprire così come, dopo la grande avventura grafica di Flash Gordon negli anni Trenta, ancora narrativamente legata agli schemi della fiaba, si possa arrivare, negli anni Cinquanta, alla nascita di un fumetto come Jeff Hawke, dell’inglese Sydney Jordan, forse la saga di fantascienza più profonda, colta e appassionante che sia mai stata prodotta. Ed è dalla rilettura di un autore delirante, e legatissimo alle problematiche sociali, come Philip Dick, che nel corso degli anni Sessanta la fantascienza a fumetti inizia a prendere una piega politicamente impegnata, e un umore complessivo assai più serio e riflessivo di quanto non avesse avuto prima.

L’epoca delle space operas è finita. I fermenti degli anni Sessanta sfociano nell’esplosione fumettistica degli anni Settanta: da un certo momento in poi la stragrande maggioranza dei fumetti interessanti, innovativi, che vengono prodotti, hanno un tema fantascientifico. Il genere si allarga, si diversifica, moltiplica le proprie diramazioni…

Il primo autore della nuova fantascienza è un francese, e si chiama Philippe Druillet. Ma la sua capacità grafica è inferiore alla sua inventività formale, e il suo destino finisce per essere quello di aprire la strada a Moebius, oggi considerato il maestro della fantascienza a fumetti. Per Moebius e Druillet la fantascienza è un pretesto per parlare della società e del mondo, ma anche per farlo in maniera visionaria e graficamente barocca. Dopo un po’ che si leggono le loro invenzioni è facile dimenticare il genere a cui appartengono. La fantascienza è più forte che mai, negli anni Settanta, ma in un certo senso è scomparsa, è diventata soltanto un modo obliquo per raccontare il presente.

E’ noto che Moebius avrebbe dovuto collaborare (e in piccola parte lo fece) alle scenografie del film di Ridley Scott Alien. Il suo posto fu preso da un disegnatore svizzero, Hans Rudolf Giger, a cui si deve l’aspetto da zoomorfismo metallizzato protoindustriale del mostro e delle sue architetture. Così come da una riflessione sul ribellismo narrativo di Moebius nasce invece il racconto di Enki Bilal, il fumettista serbo-francese che ha creato le più belle storie di fantascienza a fumetti degli ultimi vent’anni, mescolando misticismo, incubo e tecnologia.

L’idea della metropoli malata da allora non ha più abbandonato la fantascienza a fumetti. In Italia Stefano Tamburini, giocando sui disegni di Tanino Liberatore, l’ha portata ancora più lontano, rendendola sporca, volgare, violenta; rendendo, con Ranxerox, iperreale quello che prima era stilizzato e simbolico.

Questa idea nella fantascienza, così diversa e lontana da quella originaria americana, è ritornata al suo paese di origine solo negli anni Ottanta, per riformare e rilanciare il fumetto più classicamente americano, quello di supereroi. La troviamo in Ronin, di Frank Miller, nel 1983, e poi sempre più diffusa e influente. In buon accordo con l’arrivo dal Giappone di una visione della fantascienza in perfetta sintonia.

Catastrofismo, millenarismo, misticismo. Con queste caratteristiche giunge a noi oggi un genere nato sull’onda dell’ottimismo per la scienza. Una storia che intreccia varie culture si ritrova integralmente nel prodotto seriale fantascientifico più venduto in Europa, Nathan Never, delle edizioni Bonelli. Pur legato – come rimpiange il suo autore Antonio Serra – ai vincoli della struttura seriale, Nathan Never spazia su tutti i temi di cui la fantascienza si è caricata nei suoi settant’anni e due secoli di storia…

La mostra di Trento ci permette di vedere tutto questo, dalla protofantascienza alle visioni di Moebius, Giger, Bilal, alla mensilità densa di Nathan Never e di Legs Weaver, l’altro fumetto Bonelli nato da una costola del primo. Un’occasione per attraversare una fetta cruciale dell’immaginario del nostro secolo, occasione che si ripresenterà, dopo Trento, anche a Torino, dove la mostra sarà visibile dal 21 maggio al 27 giugno.

Il catalogo, assai ricco, a cura di Roberto Festi, contiene interventi di Daniele Brolli, Gianni Canova, Alfredo Castelli, Stefano Della Casa, Gianfranco De Turris, Sergio Pignatone, Maurizio Scudiero e Antonio Serra.

Fantascienza. Ritorno alla terra.
Il fumetto e la grafica della fantascienza come anticipatori di visioni.
Trento. Spazio Foyer del Centro Servizi Culturali S.Chiara (tel. 0461/884286)
31 marzo – 9 maggio 1999.

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Del sublime e delle sue conseguenze

Ho letto da poco un bel libro di Samuel H. Monk: Il Sublime. Teorie estetiche nell’Inghilterra del Settecento (Genova, Marietti, 1991). È un libro scritto negli anni Trenta, il primo che affronta questo tema storiografico. È interessante perché racconta la nascita e diffusione di un concetto destinato a trasformare per sempre la nostra concezione dell’arte.

Quello di sublime è un concetto antico. Proviene da un testo di incerta datazione (Peri Hypsous, I secolo d.c., secolo più, secolo meno) e ignota paternità. Poiché tradizionalmente lo si attribuiva a Cassio Longino, oggi ci riferiamo al suo (ignoto) autore come Pseudo-Longino. Lo riprende Nicolas Boileau, uno studioso francese della fine del Seicento, che per primo pubblica nel 1674 un trattato di arte poetica ispirato allo Pseudo-Longino, aprendo la strada, assai più di là che di qua dalla Manica, a un dibattito che, decennio dopo decennio, cresce sempre più, e finisce per imporre un’idea dell’arte basata sul lampo di genio e sull’imponderabile, piuttosto che sul rispetto delle regole e sulla capacità di modularne le possibilità.

Ovviamente, è l’Enquiry di Edmund Burke il testo cruciale del secolo, che impone a partire dal 1757 il nuovo paradigma. Già nel 1764, Kant (che era notoriamente un appassionato di cultura inglese) pubblica le sue leggere Osservazioni sul sentimento del bello e del sublime, testimoniando la presenza del dibattito anche in Germania, e il suo debito con Burke. Qualche decennio più tardi farà del sublime uno dei capisaldi della sua teoria estetica.

Il dibattito che si sviluppa nel Settecento inglese è di grande interesse perché testimonia il passaggio tra una concezione dell’arte come rispetto (intelligente e creativo) delle regole, a una concezione dell’arte come furore creativo, prodotto di un’ispirazione di tipo divino, quella sorta di misticismo non religioso che sarà il pane quotidiano del Romanticismo, e che ancora oggi ci induce a pensare all’Arte (con la A maiuscola) come qualcosa di particolarmente elevato, che attinge comunque alla sfera del sacro (anche quando questo sacro non ha niente a che fare con la religione). Insomma, se a inizio Settecento l’ideale della pittura è per gli inglesi Raffaello, a fine secolo sarà Michelangelo; se a inizio secolo il paesaggio ideale è per gli inglesi quello classicistico di Nicolas Poussin, a fine secolo sarà quello selvaggio e sublime di Salvator Rosa.

Non è difficile vedere gli effetti di questa trasformazione nella concezione dell’Arte ancora oggi dominante. Per noi, l’opera d’Arte è quella cosa che in qualche modo ci travolge, ci porta con sé, e sembra schiuderci di colpo nuovi orizzonti di comprensione. L’artista è il genio, magari immortale, che ha saputo forgiare questo oggetto così straordinario. Anche se la parola sublime non è molto di moda (ha smesso di esserlo già ai primi dell’Ottocento) siamo talmente addentro a una visione dell’arte come sublime che facciamo addirittura fatica a capire come prima del XVIII secolo si potesse concepire l’Arte in maniera differente, e cerchiamo conforto nel fatto che, tutto sommato, non è difficile trovare il sublime in Michelangelo come in Dante, in Fidia come in Saffo: tutto sommato, dunque, l’Arte sarebbe stata sempre sublime, anche prima che qualcuno arrivasse ad accorgersene.

Si tratta però di un errore di prospettiva, come se ritenessimo che, poiché noi vediamo le cose da un certo punto di vista, non si possa che vederle da quello. Forse un’idea dell’arte come adeguamento (creativo e intelligente) alle regole ci può apparire più comprensibile se la confrontiamo non con l’idea diffusa oggi dell’Arte, bensì con l’idea diffusa oggi di che cosa sia la comunicazione visiva, nelle sue espressioni, per esempio, del graphic design e della pubblicità.

Nessuno va a scomodare il sacro per parlare della bellezza di un’impaginazione, di una copertina o di un cartellone pubblicitario. Piuttosto, parliamo di efficacia comunicativa, di gioco tra rispetto e trasgressione delle regole, di opportunità nei confronti di ciò che si desidera comunicare. Questa non è naturalmente la stessa cosa che i teorici pre-sublime dicevano dell’arte, ma ci va sufficientemente vicino da permetterci di capire che l’estetica del sublime si contrappone a un’estetica funzionale dell’arte, che la vede come una tecnica (creativa) di prodotti di consumo comunicativo, non così lontana dal graphic design di oggi. Una visione di questo genere non esclude, ovviamente, che anche all’interno di un’arte funzionale non possano nascere opere sublimi: succedeva con Michelangelo e Salvator Rosa assai prima che il requisito diventasse essenziale, e succede ancora oggi nel lavoro di tanti comunicatori visivi che pure non operano all’interno del campo dell’Arte.

Del resto che i confini tra arti e Arte siano labili è cosa sufficientemente evidente, e la presenza o meno di aspetti sublimi (o sacri, in senso laico) mi produce semmai differenze di valutazione, ma non necessariamente di campo di appartenenza – salvo quando i sacerdoti dell’Arte non decidono di ammettere nel proprio recinto qualcuno che, per il modo in cui lavora, ne dovrebbe presumibilmente star fuori, come il Toulouse-Lautrec cartellonista, o El Lisitskij. La mia sensazione è che la distinzione tra arti e Arte, che corrisponde storicamente all’entrata in gioco del sublime, sia legata alla diffusione della razionalità illuministica, che mette in crisi il sentimento religioso: poiché del sacro l’uomo non può comunque fare a meno, a un sacro di carattere religioso come quello tradizionale, l’Arte sostituisce un sacro laico, un misticismo del bello e dell’elevato, che diventa cruciale in un campo in cui magari esso era già presente, ma con un ruolo molto più marginale.

C’è un secondo motivo di interesse nel libro di Monk. Come sempre succede quando si diffonde un’idea nuova, se ne cercano tutte le applicazioni possibili e non di rado si esagera. Poiché il sublime è legato all’idea dell’ignoto e del mistero, le estetiche inglesi della fine del Settecento vedono la sua massima espressione nella letteratura cosiddetta gotica: il mistery, l’horror, il fantastico. L’idea dura abbastanza da produrre il grande successo del più riuscito falso della storia della letteratura, i Canti di Ossian, ma è sufficientemente balorda da non durare troppo a lungo, travolgendo il termine stesso sublime (ma non i suoi effetti) nel proprio tramonto.

Quando tramonta l’idea dell’horror come massima espressione del sublime, non tramonta però l’horror, né il fantastico, né i loro figlioletti (il poliziesco, la fantascienza, il supereroico, il fantasy…), i quali proseguono, con alterne ma mai misere fortune, sino a noi. È divertente osservare come l’Arte (con la A maiuscola) e questi generi che tipicamente vivono ben al di fuori dai suoi confini, abbiano la medesima origine. La Storia procura sempre un sacco di sorprese.

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di Daniele Barbieri

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