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Della poesia (tra riduzione dell’io ed espressione soggettiva)

I temi che ho affrontato due settimane fa in un post intitolato Delle questioni delle poetiche, della lirica, del soggetto e della leggibilità continuano a girarmi per la testa e a crearmi più perplessità che certezze. Il post era stato ispirato da un intervento di Andrea Inglese su Nazione indiana; e a farmi rimuginare questi temi hanno contribuito altri post, tenendo aperto un dibattito in cui questi stessi temi si inseriscono (anche se esso ne investe pure altri, che non affronterò qui): sono il post di Marco Giovenale ancora su Nazione Indiana, quello di Lorenzo Carlucci su Poesia 2.0, la prima e la seconda più articolata risposta del medesimo Giovenale su Slowforward, con tutte le relative abbondantissime discussioni, ora molto interessanti ora pura polemica personale.

Il punto (o almeno quello che mi ronza per la testa ora) è la questione della cosiddetta “riduzione dell’io”. Alfredo Giuliani scrive nel 1961, introducendo l’antologia de Novissimi, che “La ‘riduzione dell’io’ è la mia ultima possibilità storica di esprimermi soggettivamente“. Mi sembra del tutto ragionevole che Giorgio Manacorda (introducendo nel 2004 il suo La poesia italiana oggi. Un’antologia critica) faccia notare che c’è qualcosa di paradossale nel fatto che l’espressione, e per giunta l’espressione soggettiva, si debba realizzare mediante riduzione del soggetto medesimo, per cui “o il punto non è l’espressione, bensì il referto (appunto la riduzione dell’io a “cosa”) e allora va bene cancellare o anche solo ridurre l’io, o il problema è l’espressione, e allora perché ridurre l’io, magari fino a cancellarlo? Questa scelta ha avuto conseguenze per le generazioni successive.”

Non si può certo qui ripercorrere quello che è successo nella poesia italiana dagli anni Settanta in poi. Trovo però interessante che tutti e due i corni della scelta – che Giuliani cercava ancora, eliotianamente (montalianamente?) e pericolosamente di tenere insieme – abbiano trovato espressione, e prodotto, talvolta, anche opere di qualità.

Non riesco, proprio per questo dunque, a far a meno di vedere nelle dichiarazioni di Giuliani qualcosa di molto meno assertorio, universale e definitivo di quanto il suo tono di voce voglia far credere. Le frasi chiave del discorso di Giuliani mi paiono in verità queste, appena dopo l’apertura del saggio introduttivo: “Io credo si debba interpretare la ‘novità’ anzitutto come un risoluto allontanamento da quei modi alquanto frusti e spesso gravati di pedagogia i quali perpetuano il cosiddetto Novecento mentre ritengono di rovesciarlo con la meccanica dei ‘contenuti’. Ciò che molta poesia di questi anni ha finito col proporci non è altro che una forma di neo-crepuscolarismo, una ricaduta nella ‘realtà matrigna’ cui si tenta di sfuggire mediante schemi di un razionalismo parenetico e velleitario, con la sociologia, magari col carduccianesimo.” Se leggiamo tutto il resto alla luce di questo, ci appare evidente che Giuliani non sta dicendo come si debba fare poesia in generale, ma semplicemente proponendo un percorso di uscita da una situazione culturale di stallo; e che Pasolini ne fosse in quegli anni l’emblema lo dimostra abbastanza chiaramente la sua successiva parabola poetica involutiva.

In altre parole, Giuliani sta proponendo di rinnovare la poesia italiana guardando più a Eliot e Pound che a Pascoli e Corazzini. Ma cosa ne sarà del valore di un’affermazione di questo genere qualche anno dopo, una volta che la poesia sia stata davvero rinnovata? Se la scelta starà tra “riduzione dell’io” e “espressione soggettiva”, una volta che la “riduzione dell’io” abbia vinto, dovremo ritornare all'”espressione soggettiva” per rinnovare di nuovo? E poi ancora viceversa? Certo che oggi, cinquant’anni dopo, potremmo magari leggere proprio in questi termini quello che è accaduto in seguito, e valutare in termini di progressisti e conservatori ora gli uni ora gli altri, ora i riduttivisti ora gli espressivisti.

Le polemiche che si possono leggere in calce ai post che ho citato sopra appaiono spesso (non sempre) impostate davvero in questi termini. Assunta come opinione condivisa che sia positivo essere progressista e negativo essere conservatore, ci si scanna per decidere chi sia il vero progressista. Naturalmente scannarsi serve anche per proporsi pubblicamente, e quindi in questo dibattito c’è senz’altro una forte (e positiva) componente di promozione personale (insomma, di autopubblicità). E questo va benissimo, soprattutto con il poco interesse che gira nell’aria in Italia per la poesia: magari qualche dibattito acceso può richiamare l’attenzione di qualcuno, e far venir voglia persino di leggere le opere.

Ho tuttavia la sensazione che il dibattito manchi il punto, e che ci siano troppi elementi sia a favore che contro (tanto per i riduttivisti quanto per gli espressivisti) per poter prendere partito per una delle due posizioni. A me pare semplicemente che quando un lavoro poetico è davvero riuscito, se ne percepisca sia una componente di espressività che una di superamento della soggettività: se sentiamo che l’io straborda, non è poesia, ma diario, autobiografia; se dell’io non troviamo traccia non è poesia, ma tabella, elenco, calcolo. D’altro canto, ci sono poesie riuscite in cui apparentemente l’io straborda, ma sono riuscite perché è facile rendersi conto che questo strabordare è pura apparenza, presentazione di un caso umano – e la poesia è riuscita perché quel caso umano è sentito come universalmente rappresentativo. E ci sono anche poesie riuscite in forma apparente di elenco o calcolo, dove ci si accorge che da quelle relazioni apparentemente astratte emerge in verità un universo di significati, e di nuovo qualcosa di universalmente rappresentativo. Nell’uno e nell’altro caso questa universale rappresentatività non è necessariamente una verità: può essere una domanda, un dubbio, una ricerca; comunque sia è qualcosa in cui ci possiamo riconoscere – e possiamo riconoscerci, con questo, parte dell’umanità.

Poiché nella poesia che funziona, quella che è bella, profonda, riuscita, non trovano spazio vero né la riduzione dell’io né l’espressione soggettiva, e tuttavia entrambe possono farne parte come mattoni da costruzione, i simpatizzanti di ambedue i partiti possono con una certa plausibilità accusare gli avversari di cercare di mettere nella poesia qualcosa che non ci dovrebbe essere. Dovrebbe essere evidente, a questo punto, la natura pretestuale di entrambe le posizioni: sono due ricette, ciascuna delle quali pretende di produrre la vera poesia; due apparenti scorciatoie, o, se siamo più generosi, due proposte di percorso. Alla poesia buona, di qualità, si può di fatto arrivare sia per l’uno che per l’altro percorso, o anche (credo) per nessuno dei due. E la poesia buona soddisferà tutti e due i partiti, perché gli uni vi ritroveranno l’assenza della riduzione dell’io, e gli altri quella dell’espressione soggettiva.

Bisognerebbe relativizzare, a questo punto, anche il concetto di “poesia buona”. A che cosa si aspira quando si fa poesia? A influenzare il presente? Ma allora basterebbe una buona comunicazione funzionale. A poter essere storicizzati? E allora basta trovare il pubblico giusto, che siano i tanti (ma anche di scarsa competenza poetica) della Merini, o che siano i molto meno (ma di molto superiore competenza poetica) di De Angelis. Chi vale di più, dei due? Integrati e apocalittici hanno pane per i reciproci denti. E la storia si scrive anche attraverso queste discussioni.

Personalmente, preferisco di gran lunga De Angelis, ma ci sono anche per me, qua e là, alcune poesie illuminate della Merini. La critica è utile, spesso indispensabile, ma l’emozione della lettura alla fine riguarda me e solo me; e sono solo io a poter dire che cosa è buona poesia e cosa non lo è. Per questo, se non c’è un numero sufficiente di io ad apprezzare la poesia, buona o cattiva che sia è come se non esistesse.

Se il proprium delle avanguardie è la centralità della poetica e la sua prevalenza sull’opera (un commento nei dibattiti di cui sopra mi ha ricordato che lo ha pure sostenuto Eco nella sua prolusione ai quarant’anni del Gruppo 63 – ma ne ero convinto comunque), allora è proprio l’idea di progetto a essere al centro del lavoro dei loro autori. Ma pensare la poesia come operazione sul linguaggio, alla Giuliani, o operazione politica, alla Brecht, significa pensarla come comunicazione funzionale.

Ora, una buona comunicazione funzionale è certamente un valore positivo, ma la nostra concezione della poesia di fatto non si risolve in quello. Se si risolvesse in quello, i dibattiti tra poeti e tra poetiche non farebbero che esplicitare quale sia il proprio scopo comunicativo, e si discuterebbe, a parità di scopi, quale sia il modo migliore per raggiungerli. E invece l’ambiguità medesima in cui cade Giuliani cercando di tener salda sia la riduzione dell’io che l’espressione del soggetto deriva proprio dall’impossibilità di intendere funzionalmente la poesia – nonostante lui stesso in vari momenti cerchi di presentarla così.

Se riduciamo la poesia a comunicazione funzionale non c’è poi modo di tenerla fuori dalla logica alienante del mercato, dallo “sfruttamento commerciale cui la lingua è sottoposta” (sempre Giuliani, ibidem). Vista in questi termini, ci sarà sempre, prima o poi, una situazione in cui la logica del mercato la re-ingloba, anche, al limite, se si è Balestrini, o e.e.cummings.

D’altra parte, se riconosciamo alla poesia una dimensione differente dalla comunicazione funzionale, questa dimensione potrà manifestarsi a volte persino nelle poesie della Merini, o magari nei versi di un cantautore, persino di uno di successo. Ci troveremo costretti a constatare che la qualità di un’opera non ha a direttamente che fare con il suo successo commerciale, non in positivo (coincidenza o dipendenza) ma nemmeno in negativo (esclusione).

Adorno è morto, per fortuna. La sua grandezza di critico e filosofo ci ha impedito di vedere per molto tempo i danni che la sua estetica ha prodotto.


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18 comments to Della poesia (tra riduzione dell’io ed espressione soggettiva)

  • mg

    Daniele, grazie dell’intervento, però – permettimi – proprio in séguito a tutti i fiumi già scritti, io proprio non so come altro dirlo: trovo davvero non prescindibile confrontarci con i testi, le prose, i materiali (non miei, non di gammm) che segnano quel benedetto cambio di paradigma, o magari non lo segnano, ma comunque marcano uno stacco differenza gradino smarcamento nettissimo tanto dalla tradizione poetica (“anche” lirica) quanto da quella narrativa, italiana – sia di àmbito sperimentale che di altra natura.

    Senza questo (come chiamarlo) nostro auspicato auspicabile “andare verso il testo / i testi”, io temo che non ci incontreremo che per punti parziali di tangenza. Difficilmente troveremo un tratto di intersezione su idee e interpretazioni perfino opposte (e perseveranti nel restar tali, pure) ma condotte su un medesimo terreno di esperienze.

    Stiamo parlando (io per primo) davvero di teorie, o teorie di teorie.

    Dico questo proprio del tutto al di fuori di “una forte (e positiva) componente di promozione personale (insomma, di autopubblicità)”. Non intendo citare nulla di italiano, tantomeno di mio.

    Scrivi che “ci si scanna per decidere chi sia il vero progressista”. Mumble. Sei sicuro che sia questo in campo? Negli interventi e nei fiumi di parole (e di tempo) spesi fin qui? O non sarà che magari invece si tratta di ciò che ho tentato di ripetere in tante sedi e occasioni da trovare assolutamente necessario a breve scriverlo anche in ebraico e in cirillico, ossia che: esiste un salto di trasmissione, mancanza di traduzione, gap oggettivo, asincronia, fra tradizioni anglofona e francofona da una parte e italofona dall’altra, a cui si sta (vedo: INUTIMENTE) provando a suggerire vie di soluzione, e rimedio? Non sarà forse questo l’oggetto costantemente eluso dalla messa a fuoco?

    Sarà “progressista”? Non so. Era “progressista” negli anni Venti e Trenta tradurre Eliot? O Tel Quel nei Sessanta? Non era forse, e piuttosto, qualcosa come un dovere, una normale occorrenza del dialogo che sempre è esistito tra le letterature? Era o non era dialogare di cose che stavano a cuore – in parallelo e senza corse a fare un qualche upgrade letterario – materia di normale discussione, scambio? È davvero così difficile sentire che un cavo si è staccato e che certa corrente semplicemente non passa? Sarà sbagliato tentare di operare una connessione che mostra altrove, in altri contesti, cose che qui da noi non hanno avuto storia, voce?

    Senza operare quella connessione, come dialogare? E di cosa?

    *

    Ancora, scrivi: “A me pare semplicemente che quando un lavoro poetico è davvero riuscito, se ne percepisca sia una componente di espressività che una di superamento della soggettività: se sentiamo che l’io straborda, non è poesia, ma diario, autobiografia; se dell’io non troviamo traccia non è poesia, ma tabella, elenco, calcolo”.

    Bon. Non entro nel merito di espressività e superamento della soggettività. (Rifarei i nomi fatti tante volte, non italiani). Mi permetto solo di annotare: possiamo dare a “tabella, elenco, calcolo” il nome (pensato da Gleize) di “postpoésie”? Puoi/possiamo ammettere che esista qualcuno che apprezza (e legge come letterarie e portatrici di una forma diversa e plausibile di godimento) “tabella, elenco, calcolo” in un’accezione che non è riferibile né a “tabella, elenco, calcolo” in senso matematico a una [pre-vista, preorientata] “universale rappresentatività” al contesto di quegli oggetti estetici che fino al gruppo ’93 incluso rivendicavano a pieno diritto uno statuto di poesia o di scrittura d’avanguardia?

    Perché, dico: se ci troviamo d’accordo su questo, se cioè possiamo accettare il fatto che le decine o centinaia di migliaia di lettori che in tutto il mondo leggono queste cose possono esistere (=è loro concesso il diritto di godere di cose che fan ribrezzo ai lettori di poesia), possiamo ammettere che esiste qualcosa al di fuori del campo poetico, lirico, narrativo, forse perfino letterario, ma non esterno al campo delle arti (in generale dicendo). Vogliamo togliere queste cose pure dal campo del sensato e delle arti? Chi può impedire che un critico lo faccia? Ok. Non è che, per questo fatto, quelle opere (brutali tabelle ed elenchi e calcoli, masse di numeri, installazioni verbali, tritatutto post-cutup) smetteranno per questo di piacere e far godere le stesse decine e centinaia di migliaia di lettori e scrittori (non italiani). Li chiameremo XYZ, li chiameremo alieni, niente a che fare con l’arte, che altro dire? Ma non mi sembra che – per il fatto che esistono da qualche parte – si debba continuare a non pensare che se ne possa dare un’occorrenza (anche italiana) unita a qualche specificità niente affatto riconducibile – per amor di proprietà e completezza – del tutto a categorie note. (Specificità da descrivere sempre meglio, certo, ma esistente, anche).

    *

    Scrivi “Se il proprium delle avanguardie è la centralità della poetica e la sua prevalenza sull’opera (un commento nei dibattiti di cui sopra mi ha ricordato che lo ha pure sostenuto Eco nella sua prolusione ai quarant’anni del Gruppo 63 – ma ne ero convinto comunque), allora è proprio l’idea di progetto a essere al centro del lavoro dei loro autori. Ma pensare la poesia come operazione sul linguaggio, alla Giuliani, o operazione politica, alla Brecht, significa pensarla come comunicazione funzionale”.

    Vorrei spezzare la proverbiale lancia a favore dell’inesausto ritorno (révenant costante da – credo – decenni) della “prevalenza della poetica sull’opera”. Che viva pure. Non voglio contestarla (anche se ritengo possibile e legittimo farlo) perché la contestazione sarebbe inutile al fine di esorcizzarne il fanasma (sarebbe come sparare allo zombie senza mirare alla testa: presto o tardi lo farò ma non ho tempo ora; si tratta di ammassare centinaia di citazioni da opere, non da testi teorici). Avanzerò allora un’altra obiezione, formulata così: esistono due modi e forse tre (magari anche di più) di interpretare l’espressione “prevalenza della poetica sull’opera”: il primo modo intende dire che la poetica nasce prima e l’opera le obbedisce; il secondo modo intende dire che, nata l’opera, e nate molte opere simili, l’autore (o un teorico) le sussume sotto osservazioni che possono prendere (ma anche non prendere) l’aspetto di manifesti e prescrizioni e ricettari.

    Se siamo d’accordo sul fatto che il primo modo differisce dal secondo (e che possono esserci gradi di complessità e intreccio fra primo e secondo), io credo saremo in minor disaccordo su tante altre cose.

    *

    Infine. Su Adorno, un po’ mi stupisco, nel senso che la sua opera mi sembra assai difficilmente riducibile al quadro negativo che vedo citato. Basti pensare a quel che lui stesso scrive proprio e precisamente in tema di (non) comunicazione, a proposito di Celan. Ma forse ricordo male io, e dovrò rivedere meglio.

    • Marco, discutiamo su cose che ci premono, e questo ci mette in comune un discorso, magari su sponde diverse – ma in ogni caso non serve ringraziare. Dovrei arrivare ai testi; sì, certo, prima o poi ci arriverò. Ma ammetto che discutere i testi è difficile, assai più che polemizzare con le idee tramite altre idee. Le idee sono fatte per essere discusse, perché mirano, prima o poi, a un qualche effetto pratico (fosse solo far scrivere testi differenti). I testi (intendo la poesia, la prosa, e magari pure la prosa in prosa) sono fatti per essere fruiti, e li discutiamo principalmente per poterli fruire meglio – a meno che non li consideriamo essi stessi delle dichiarazioni di poetica.
      Ma se li consideriamo a questo modo, ecco che diventano – appunto – comunicazione funzionale, apporto a un dibattito. Non che i testi (poetici ecc.) non siano anche questo. È ovvio che lo sono. Ma tutto il mio discorso mira a sottolineare il fatto che è sbagliato ridurli a questo. Il “mi piace” che riserviamo alla poesia (ecc.) ha un senso diverso da quello che riserviamo alle opinioni, e alle parole che le esprimono.
      Non basta che un testo piaccia a centinaia di migliaia di persone per convincermi che è interessante. Sai quanti programmi televisivi berlusconian-mediasettici piacciono a ben più gente di così. Sono certo che esiste qualcuno che cercherà di convincermi persino che quella è arte, e se non lo è, è comunque qualcosa che piace e fa godere milioni di persone (italiane, ahinoi). Io però non ci casco. In questo campo la democrazia non vale, o almeno non si esprime così.
      Cerco piuttosto di utilizzare la parola “arte” (per quel che vale, con l’abuso che se ne fa) per caratterizzare quelle opere, di qualunque tipo esse siano, che hanno prima di tutto una ragione mitopoietica (ne avevo parlato con maggiore chiarezza di quanto non possa fare in questa sede, in un articolo accessibile qui, nel n.6/2008). Mi hai citato quando scrivo che “se dell’io non troviamo traccia non è poesia, ma tabella, elenco, calcolo”, ma non quando, qualche riga dopo, dico che un’opera riuscita può essere espressiva anche se appare essa stessa in forma di tebella, elenco, calcolo. Senza scomodare le avanguardie (ma un pochino sì) basterebbe pensare alla “Passeggiata” di Palazzeschi: superficialmente appare come un elenco, ma l’elenco è così espressivo come nemmeno Corazzini riusciva a esserlo.
      Insomma, non sto polemizzando con le opere, ma con gli atteggiamenti dei loro autori. Se il punto è far conoscere alla cultura italiana quello che sta succedendo altrove, non si può che condividerlo. Poi discuteremo magari sul valore di quello che si vuole far conoscere, o sulle proposte che ciò comporta. Tuttavia è inevitabile che quello che sta succedendo altrove debba essere valutato con la coscienza che io ho qui e ora, perché non c’è altro modo di farlo, sia che questo metta in gioco la dimensione mitica dell’opera d’arte, sia che metta in gioco quella funzionale della proposta di poetica (cioè operativa). Io credo che molte delle discussioni che vedo (e a cui partecipo io stesso – questa magari compresa) abbiano alle spalle una scarsa comprensione di questa distinzione: parlare delle opere (cioè della mitopoiesi e del mito) è difficile, perché il mito è esattamente ciò che sta alle spalle, e non è oggetto di discussione, se non degrandandosi in mitologia (ovvero un mito già compreso, e quindi – nella misura in cui lo è – inefficace), e quando si passano confini linguistici ci sono miti che cambiano (oltre ad altri che restano); per questo dunque si finge spesso di parlare delle opere, e si parla invece della loro poetica.
      Se vediamo la cosa così, poco importa se la poetica sia a priori (come spesso nelle avanguardie) o a posteriori: siamo noi che leggiamo la poesia come poetica, e ci scanniamo su quella – perché sulla poesia in quanto tale è difficile scannarsi.
      Il mio caveat su Adorno ha proprio questo senso. Adorno è stato un grande filosofo e un critico d’arte (specialmente di musica) difficilmente eguagliabile. L’ho letto in passato con grande passione, e continuo a farlo tuttora, perché ci trovo osservazioni di grande sottigliezza. Ma tutta la sua estetica è fondata su un “dover essere”. Non ricordo le osservazioni su Celan a cui tu fai riferimento, ma ho ben presente i tanti scritti sulla musica del novecento, su Schoenberg, le avanguardie post-Darmstadt e anche la musica commerciale. La sua condanna di Strawinsky (e conseguente esaltazione di Schoenberg) è tutta fondata sull’idea di musica portata avanti da Strawinsky con la sua stessa musica. Idem per le parole con cui conclude il saggio su Schoenberg (che citavo provocatoriamente in un commento al tuo post). E idem ancora quando condanna l’evoluzione della musica contemporanea definendola “invecchiamento”.
      Adorno ha in mente una funzione sociale, quasi politica, dell’arte, e giudica su questa base le idee dell’arte. Eppure non riesce a liberarsi fino in fondo anche di una concezione mitopoietica, e qua e là si sente. Ma se restiamo dentro l’adornismo, l’arte è rifiuto del presente, ed è destinata ad arroccarsi nelle sue sofisticate torri d’avorio – anche quando finge di sporcarsi con i linguaggi del quotidiano, perché tanto poi tutto viene purificato dall’ascesi intellettuale a cui si destina.

  • mg

    Daniele, non riesco a capire il senso della prima parte del tuo intervento. Non so come entrare in dialogo su una cosa che non conosco. Non so come si possa (veramente: sarà un limite mio: non capisco come).

    E’ come voler guidare un autotreno avendo letto un manuale di meccanica.

    Dopo vent’anni che uno legge Flaubert, è nel ‘sistema Flaubert’ (anche dopo venti giorni, ovviamente, o dopo la sola Educazione sentimentale). Come posso spiegare a un non lettore di Flaubert cosa significa entrare in quel sistema? Essere (con tutti e due i piedi, ma certamente col cervello vigile & critico) all’interno di quel sistema? Se trovo un non lettore di Flaubert che mi parla di (non so) Voltaire, non riesco a immaginare come portarlo a osservare il fronte Flaubert senza che lui lo legga.

    Ricordi, in occasione della lettura a San Lazzaro, quando dicesti che a tuo avviso “Prosa in prosa” parlava soprattutto ai poeti? Io ti diedi ragione, aggiungendo però che avrei avuto piacere che quell’antologia parlasse anche ad alcuni prosatori (non narratori, prosatori). E che anzi era uno degli intenti del libro. Ora, se quei prosatori (avevo fatto anche un paio di nomi) non lo ascoltano, lo accetto lo stesso; ok, va bene; ma poi non posso mettermi a discutere con quei prosatori di “tutta” la prosa possibile, o dell’arte della prosa, proprio perché per me “tutta” la prosa possibile contiene “anche” Prosa in prosa, che loro non hanno letto. E come e su quale base parliamo se non hanno attraversato quella esperienza di lettura?

    • Marco, credo che ci sia un fraintendimento. Questo post non riguarda “Prosa in prosa”, ma solo delle affermazioni di poetica e le riflessioni, assai più generali, che mi ha suscitato il dibattito aperto dai tuoi post. Sto parlando di poetica, non di poesia (o di prosa), e in generale, nemmeno sullo specifico – anche se qualche riferimento allo specifico ci casca inevitabilmente; ma non era inteso nemmeno come critica diretta. Sto riflettendo su un tema, e il tema mi è stato aperto da quel dialogo.
      Sto anche riflettendo sul come si debba parlare delle opere, perché proprio questo dialogo mi ha fatto riflettere sul senso stesso della critica – la mia compresa.
      Ma ho bisogno di chiarirmi ancora le idee, prima di dire qualcosa. E, a questo punto, di conseguenza, anche prima di dire qualcosa sulle opere.

  • mg

    Scrivi: “Cerco piuttosto di utilizzare la parola “arte” (per quel che vale, con l’abuso che se ne fa) per caratterizzare quelle opere, di qualunque tipo esse siano, che hanno prima di tutto una ragione mitopoietica”

    Non posso che accogliere questa tua osservazione come una dichiarazione di poetica. E affermare a mia volta che esistono anche opere d’arte che non hanno prima di tutto una ragione mitopoietica. E anzi riportarmi a un’idea, prima che di arte, di estetica intesa (forse iuxta Baumgarten prima di Kant stesso) come non-campo, non “ambito” (un nonluogo, quindi, relativo all’esperire in quanto coinvolto nel senso-non-senso, ma non legato ai soli oggetti che definitamo artistici). (Sull’occasione dei quali esperiamo però, in modo esemplare ma non integralmente decifrabile ed esibibile, una condizione più generale di senso, che appunto fonda il nostro esperire in generale).

    Il problema che segue è: anche dall’estetica (anche da questo non luogo) probabilmente stanno uscendo le opere “dopo il paradigma”. Stiamo dunque discutendo dell’oggetto che sta in una scatola dentro una scatola dentro una scatola, senza aprire nemmeno quella più esterna.

    • Non è una dichiarazione di poetica bensì di filosofia dell’arte. Non voglio dire di estetica (anche se mi rendo conto che ormai si chiama così) perché l’estetica chiama in campo la aisthesis, e io non sono affatto certo che la percezione sia un problema centrale per l’arte.
      Comunque sia, il fatto di non essere una dichiarazione di poetica certamente non la rende meno discutibile; anzi, forse di più, perché ha la pretesa di essere universalmente valida, nella sua genericità e multiforme applicabilità.
      Forse è proprio su questo che non ci troviamo. Posso anche essere d’accordo sul fatto che sia un non-campo, che comprende pure oggetti che non definiamo artistici. Ma non riesco a capire come se ne possa uscire e pensare ancora di stare facendo arte – se non attraverso un far finta di uscire, che in realtà sposta semplicemente il piano del discorso e invita a vedere il mito altrove, come faceva Duchamp con i suoi ready made.

  • mg

    Leggo questo passo tuo: “Non basta che un testo piaccia a centinaia di migliaia di persone per convincermi che è interessante. Sai quanti programmi televisivi berlusconian-mediasettici piacciono a ben più gente di così. Sono certo che esiste qualcuno che cercherà di convincermi persino che quella è arte, e se non lo è, è comunque qualcosa che piace e fa godere milioni di persone (italiane, ahinoi). Io però non ci casco. In questo campo la democrazia non vale, o almeno non si esprime così”.

    Davvero pensi che io voglia dire questo? O non sarà forse che sto – ormai senza alcuna speranza (e in effetti questi sono i miei ultimi commenti e post in merito) – sollecitando al confronto con ciò che alcune comunità sperimentano da decenni? Vogliamo combattere la democrazia con la demofobia? Non sarà mica su un altro piano, il discorso? Se fosse su quello lì, sarebbe facile per me risponderti che il noto esempio dei milioni di mosche che mangiano sterco (e che quindi non paiono testimoni fededegni circa la delibabilità della stessa) potrebbe semmai essere applicata al mainstream, inispecie italico. Sarebbe facile per me scrivere che i miei esempi di dieci-centomila lettori riguardavano precisamente l’ALTRO dal mainstream.

    • Marco, non ti stavo accusando di accodarti al mainstream, ma affermavo semplicemente che l’argomento “siccome piace a qualcuno allora ha senso” non è un argomento che si possa utilizzare nel nostro campo, proprio per il potenziale controesempio delle mosche. La riflessione critica non può basarsi sui numeri; altrimenti ogni nuova idea avrebbe automaticamente torto, visto che nel momento in cui viene espressa non ha altri sostenitori.

      • mg

        insisto: era precisamente questo quello che intendevo? era un’osservazione di poetica (meglio: di validità di un tot di poetiche) basata su un rilievo statistico? o non forse un hélas! lanciato sul piano sociologico?

        non amo il calcio, non seguo le partite, non ho nemmeno la tv in casa. ma mi sembrerebbe strano negare che chi ha la tv e vede le partite non abbia esistenza (=non sia parte della società). (e, mettiamo, non sia plausibile ricavi del senso pure estetico [o post-estetico] dal suo guardar le partite).

        la nascita stessa di gammm e di un certo tipo di dibattiti a me sembra rinvii senza dubbio a una presa d’atto di quel cavo staccato di cui parlavo nel primo commento. come ci si dovesse trovare costantemente di fronte ad una negazione dell’esistenza di comunità e di testi, di alcune comunità leggenti/scriventi alcuni testi. quello che sottolineo è [asetticamente, ora] che (1) queste comunità esistono a prescindere dalle nostre valutazioni su di esse, e (2) tali valutazioni da 30 anni in Italia o non vengono fatte o vengono fatte senza letture ma solo su discorsi riportati.

  • mg

    Scrivi: “Mi hai citato quando scrivo che ‘se dell’io non troviamo traccia non è poesia, ma tabella, elenco, calcolo’, ma non quando, qualche riga dopo, dico che un’opera riuscita può essere espressiva anche se appare essa stessa in forma di tebella, elenco, calcolo”.

    Pensavo, invece, di averlo fatto in riferimento al punto in cui scrivi: “dove ci si accorge che da quelle relazioni apparentemente astratte emerge in verità un universo di significati, e di nuovo qualcosa di universalmente rappresentativo”. Era proprio uno dei 3 punti che criticavo.

    E critico anche (se non l’ho fatto prima, lo faccio ora) l’espressione “poesie riuscite in forma apparente di elenco o calcolo”. Allora. Prendiamo proprio delle non-poesie, o cose non riuscite come poesie, e che siano in forma reale effettiva di elenco o calcolo. L’accezione [ampia] di estetica a cui accennavo *prevede* (non impone) che perfino queste, e in maniera imprescrittibile e non chiara, “in qualche modo” possano esser attratte dall’area gravitazionale del senso, e dunque essere (sentite come) sensate, perfino “belle”. In più, un’area, modo, mood, aria post-paradigma può prescindere anche dall’attribuire a opere simili un’appartenenza alla (non)categoria “oggetto estetico”. E farne ancora altro. Cosa?

    Come posso spiegarmi se non ricorrendo ai testi? Christophe Fiat può non piacere, sembrar orrido, sciocco, banalizzante. Ok. La domanda è: e se la sua pagina si trovasse semplicemente su un fronte che non funziona più come funzionavano le “poesie” e gli “oggetti estetici” qualche tempo fa?

    [Nb: questo NON esclude che la discussione critica – sulla base di un gusto personale anche maggioritario o non maggioritario – definisca orrido, sciocco, banalizzante quel tipo di testi. Ma, santa polenta, DOPO averli letti, attraversati, conosciuti]

    [Nb: quando dico “discussione critica” intendo la discussione di chiunque: dei critici come dei lettori, ovviamente. Invece escludo la mia. Mi è (per motivi extraletterari) impossibile tornare su questi thread]

    *

    Chiudo con Adorno/Celan.

    Scrivevi “se riconosciamo alla poesia una dimensione differente dalla comunicazione funzionale” immediatamente prima del paragrafo che inizia con “Adorno è morto, per fortuna”. Ho operato un link.

    L’avevo sentita cioè subito come una semplificazione, e temo che la mia impressione potesse essere ragionevole. Tu applicavi la dichiarazione (tranchante, consentirai, quel “per fortuna”) alla vicenda Schönberg/Stravinskij. Ok. Ma non poteva non farmi sobbalzare vedendola io accodata a una (a mio avviso invece sacrosanta) rivendicazione di “una dimensione differente dalla comunicazione funzionale”. Proprio perché precisamente Adorno, parlando di Celan, questa rivendica, appunto. (Come del resto Deleuze, Barthes, … Ma in ogni caso le coloriture e i contesti cambiano molto: su questo ok).

    • Repliche in tempo reale, direi (quasi una chat). Bene, su Adorno forse ci troviamo in sintonia. (Mi sapresti indicare dove si trova la cosa su Celan che citi?)
      Quanto al resto, la valutazione come non-arte delle novità non è a sua volta una novità. La celebre polemica tra lullysti e ramisti, e poi tra gluckisti e piccinisti nel Settecento francese aveva esattamente questi toni: i rispettivi innovatori non erano riconosciuti come artisti.
      Ogni innnovatore vero “si trova semplicemente su un fronte che non funziona più come funzionavano le “poesie” e gli “oggetti estetici” qualche tempo fa”. Non è questo il punto del mio discorso.
      Poi magari potrò sostenere che quel modo di fare è sbagliato, o non mi trova d’accordo. Tuttavia, io non voglio tagliare fuori dal potenziale apprezzamento nessun tipo di approccio, perché nella misura in cui riesco ad apprezzare un’opera è perché essa agisce profondamente su di me come individuo sociale, ed è, proprio per questo, già al di là delle astrusità intellettuali o dei sentimentalismi melensi.
      Insomma: trovo positivo sostenere una posizione poetica, ma trovo negativo squalificare le altre. È questa la mia polemica (in questo post) con le avanguardie e dintorni.

  • mg

    lieto di continuare, in verità, il dialogo altrove e in altra circostanza, Daniele. mi scuso del mio defilarmi. temo (fra l’altro) che i thread siano sempre meno adatti per dirimere questioni che uno sguardo risolve in 2 secondi. se ci mettiamo entrambi – in praesentia – con la testa su una pagina, e la leggiamo insieme, potremo sempre trovarci in disaccordo frontale, ma difficilmente fraintenderemo i perché del disaccordo. nei box dei commenti invece precisare e riaggiustare le note è un’operazione infinita. ci si rende conto di aver detto male, parzialmente, o di aver impiegato troppe o troppo poche annotazioni per circoscrivere una “cosa”, eccetera. chissà che non ci sia modo in futuro in un seminario (anche online) di trovarsi, per questo e per altro. un saluto e un arrivederci, dunque
    M

  • […] Sulla questione della riduzione dell’io e della lirica ho già scritto, per esempio, qui e, in generale, nei post sotto il tag lirica. Diffondi questo post:Like this:LikeBe the first to […]

  • […] quando espone l’altro obiettivo polemico di Giuliani, quella che (pure qui caricando, perché i termini della polemica di Giuliani non sono esattamente questi) Carabba definisce “la malaugurata tendenza dei poeti a parlare di […]

  • […] (27)Di Alan Moore e della sua idea di pornografia (26)Del leggere e guardare i fumetti (21)Della poesia (tra riduzione dell'io ed espressione soggettiva) (17)Di Jackson Pollock e Ornette Coleman (16)Dell'autobiografismo nel fumetto e di Joe Matt (16)Della […]

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