Permettetemi di fare non il critico, ma il lettore, e di tornare a una delle poesie di Cristina Alziati, di cui ho già parlato due settimane fa. Ci voglio tornare perché nel rileggerla una volta apparsa in quel post, mi sono accorto che c’era qualcosa che mi risuonava nelle orecchie, e sono andato a verificare.
Faccio il lettore, e non il critico, perché non ho prove che la mia percezione si fondi in una qualche competenza o interesse dell’autrice, e che questo legame che io ho percepito sia mai stato presente anche a lei. Magari sì, ma non è comunque quello che mi interessa qui. Faccio il lettore perché è della mia sensibilità che parlo, o della sensibilità del lettore in generale, o del modo in cui le idee passano le epoche e attraversano le persone anche a prescindere dalla loro consapevolezza dell’origine di quelle idee.
Quello che voglio dire è che, almeno per me, nella piacevolezza e nell’interesse di questi versi trovo nascosto un collegamento antico e intrigante, quello a un mistico medievale tedesco e alla sua affascinante teologia della negazione. Parlo di Meister Eckhart, nato nel 1260 e morto intorno al 1327, maestro di quella che potremmo definire come una forma affascinante di teologia negativa.
Non c’è bisogno di essere religiosi né credenti per trovare interesse in questo personaggio e nelle sue posizioni (le quali all’epoca gli costarono un processo per eresia, che non lo condusse al rogo solo perché era già un personaggio troppo importante). Basta leggere affermazioni come questa (citata, come le seguenti, nel libro di Marco Vannini, Storia della mistica occidentale, Mondadori, 1999):
Prima che le creature fossero, Dio non era Dio, ma era quello che era. Quando le creature furono e ricevettero il loro essere creato, Dio non era Dio in se stesso, ma era Dio nelle creature. Ora diciamo che Dio, in quanto è Dio, non è il più alto fine della creatura. Infatti anche la più piccola creatura in Dio ha una dignità grande quanto la sua.
O anche come questa:
Perciò prego Dio che mi liberi di Dio, perché il mio essere essenziale è al di sopra di Dio, in quanto noi concepiamo Dio come origine delle creature.
È però quando leggiamo cose come questa che i versi della Alziati diventano di colpo pertinenti:
I maestri dicono che Dio è un essere, un essere dotato di intelletto, che tutto conosce. Ma io dico: Dio non è né essere né essere dotato di intelletto, e neppure conosce questo o quello. Perciò Dio è privo di tutte le cose, e perciò è tutte le cose. Chi deve essere povero nello spirito deve essere povero di ogni sapere proprio, in modo da non sapere niente, né di Dio, né delle creature, né di se stesso. Perciò è necessario che l’uomo desideri di non sapere o conoscere niente delle opere di Dio. In questo modo l’uomo può essere povero nel proprio sapere.
Mezzo millennio prima di Immanuel Kant, Eckhart si è imbattuto nelle aporie di quella che sarà la Dialettica Trascendentale, e si rende conto dell’impossibilità di dire cose certe (ovvero, per un razionalista scolastico, dimostrate) né su Dio, né sul mondo (le creature), né sull’io: guarda caso esattamente le tre idee aporetiche messe a nudo da Kant. Ma Eckhart non possiede gli strumenti concettuali che guideranno poi Kant, e non può che rifugiarsi nella mistica, o nelle definizioni al negativo, sino alle profondità del paradosso.
È questo che mi rispondeva nei versi della Alziati: che l’essenza di un poeta stia nel non scrivere, e nel farsi ingombrare l’anima non tanto dalle cose (il che sarebbe naturale) ma dal loro farsi mute, dal loro silenzio, mi sembra come un meraviglioso paradosso, così affascinante e avvitato su se stesso che continua a muovere la mia immaginazione, e il mio razionalistico tentativo di spiegazione.
In Eckhart si trova anche l’idea che la conoscenza sia in sé qualcosa da evitare, perché manifesta una separazione. In particolare la conoscenza di Dio, quella che lo descrive come soggetto agente, non può essere che l’espressione di quell’impasto di menzogne che è la Eigenschaft, la volontà personale, l’io individuale. La strada di Eckhart è piuttosto quella, mistica, della ricerca dell’identità originaria con Dio (incredibilmente in linea, per probabile pura convergenza storica, con le posizioni filosofico-mistiche dello shivaismo induista).
Il poeta dei versi della Alziati si caratterizza per un rapporto simile non tanto con Dio, che non è in gioco qui, ma con il mondo. Ma è un mondo che a sua volta non sa parlare, e il suo non parlare corrisponde al nostro non scrivere. La rispondenza c’è, e profonda, ma si basa su una comune assenza, su un comune distacco, quello dalla parola come strumento di conoscenza dualistico.
Possiamo ancora parlare di conoscenza, per quanto riguarda la poesia, a questo punto? Forse no, ma non importa molto. Parleremo forse di vita, o di Erlebnis…
Un’altra chicca di Meister Eckhart, per finire:
In quell’essere di Dio in cui Egli è al di sopra di ogni essere e di ogni differenza, là ero io stesso, volevo me stesso e conoscevo me stesso, per creare questo uomo che io sono. Perciò io sono la causa originaria di me stesso secondo il mio essere, che è eterno, e non secondo il mio divenire, che è temporale. Perciò io sono non nato e, secondo il modo del mio non essere nato, non posso mai morire. Secondo il modo del mio non esser nato, io sono stato in eterno, e sono ora, e rimarrò in eterno. Cosa invece sono secondo il mio esser nato dovrà morire ed essere annientato, perché è mortale, e perciò deve corrompersi con il tempo. Nella mia nascita eterna nacquero tutte le cose, e io fui causa originaria di me stesso e di tutte le cose; e, se non lo avessi voluto, né io né le cose saremmo; ma se io non fossi, neanche Dio sarebbe: io sono causa originaria dell’essere Dio da parte di Dio; se io non fossi, Dio non sarebbe Dio.
Duemila anni di teologia vaticana gettati alle ortiche.
Vediamo se calza anche questo riferimento (per me sì, logico, ma forse in senso contrario a quanto scrivi):
“Tuttavia è da lungo tempo che ho nel mio spirito una certa opinione, secondo la quale vi è un Dio che può tutto, e da cui io sono stato creato e prodotto così come sono. Ora, chi può assicurarmi che questo Dio non abbia fatto in modo che non vi sia niuna terra, niun cielo, niun corpo esteso, niuna figura, niuna grandezza, niun luogo, e che, tuttavia, io senta tutte queste cose, e tutto ciò mi sembri esistere non diversamente da come lo vedo? ”
Cartesio, Meditazioni metafisiche, 1641
Eh, ma questo è solo il dubbio relativo al solipsismo metafisico, che nella versione moderna (vedi Putnam) è quello del “cervello nella bottiglia”, altrimenti detto Matrix (nel senso del film).
Eckhard va molto più in là nell’assurdità (e fantastica consequenzialità logica) di quello che dice. Nel caso specifico, quello che mi ha colpito è il suo sostenere che sia necessario svuotarsi della conoscenza per raggiungere la conoscenza (o comunque qualcosa); è questo paradosso tra affermazione e negazione del sapere, che mi ritrovo nelle parole della Alziati.
Sarà magari coincidenza, o strani percorsi delle idee nei secoli; o magari scopriamo che Cristina Alziati è una lettrice di Eckhart. Glielo chiediamo giovedì.
Sì, glielo chiediamo.
ma non ti pare che Eckart formalizzi nel suo pensiero una “teoria dei palinsesti”? Si cancella la conoscenza per raggiungere un’altra conoscenza che si sovrappone alla prima. Non si somma, si sovrappone: una ignara dell’altra. Se ho travisato chiedo venia.
No. Eckhart è complicato, e io ho letto solo poche cose (e nemmeno in tedesco); però mi sembra che quello che dici tu sarebbe una sorta di teoria dei tipi alla Bertrand Russell, che è un modo elegante per evitare i paradossi. Invece Eckhart è un mistico, e nel paradosso ci vive benissimo. Persino Dio, nella sua idea, mi pare di capire che sia un ente paradossale, ma non per questo da abbandonare (come invece facciamo noi razionalisti moderni, per cui il paradosso è il male). Ho trovato qualcosa di simile leggendo Aurobindo, pura mistica shivaista indiana, che vive senza paura nel paradosso – pur non potendo essere qualificata come irrazionalista. Noi viviamo dopo Kant, che ha operato un taglio radicale, e nel mito cartesiano delle idee chiare e distinte. Ma l’universo della poesia vive proprio di quello che sta all’esterno di questo.
perchè m’interessa(no) il testo (e i commenti in calce): non so, da lettore ingenuo del discorso del metodo e Eckhart dell’Adelphi (+ il bel libro di Vannini qua citato), a me sembra i due vadano proprio in direzione opposta e che anzi Cartesio dimidi tremendamente il campo della razionalità\del concetto (che ancora oggi da questo taglio non si sia ripreso?) al punto di giungere a quell’ e(o)rrore di suscitare D(io) dall’io, mentre E. sia un monista talmente convinto dell’esistenza di una sostanza e della sua unicità da poterne trovare il fondamento solo nella sua inesistenza – c’è qualcosa di “orientale” in questo, un dire “credo in Dio perchè non esiste” (ma non “perchè io voglia farlo esistere”); quasi una dimensione asemantica catturata all’interno di un procedere dialettico, logicizzata
più probabilemnte parlo solo a vanvera, però…!
Caro Anonimo (che sarebbe bello avesse un nome, anche ipotetico)
non sono sicuro di capire bene quello che dici, però sì, penso anch’io che Eckhart e Cartesio vadano in direzioni totalmente diverse, e che Eckhart sia un monista radicale – ma soprattutto che sia un radicale assertore di un logos senza compromessi. E poi, certo (lo dico sopra), che abbia qualcosa di orientale, ma senza saperlo.
Al di là del parallelo (quasi casuale) con le parole della Alziati, quello che mi affascina in Eckhart è il non avere paura delle conseguenze logiche delle premesse da cui parte, sino alla contraddizione più paradossale. E per questo mi sembra che anticipi ciecamente il Kant della Dialettica Trascendentale.
Ma la mia competenza su Eckhart non va molto più in là di questo – e ho la sensazione che il libro di Vannini (peraltro di grandissimo interesse) finisca per confondere il misticismo proprio con questo iperrazionalismo alla Eckhart (che è dichiaratamente, per lui, il culmine della mistica occidentale).
Insomma, il sogno (non il sonno) della ragione genera mostri.
Intanto grazie per la risposta; per quanto riguarda il nome ancora manca il coraggio, ma ci stiamo lavorando! (Io un po’ fuggirei all’essere me nel mondo vero, figurarsi su internet dove in qualche misura questo sembra possibile – inoltre il problema della tracciabilità, che di sicuro non eludo neppure così, mi fa sentire piuttosto pesante la scelta di un nome anche fittizio perchè già promessa\principio di persona(ggio))
In realtà neanch’io sono tanto sicuro di capire quel che scrivo, ma ho certa fiducia nel chiarirmi le idee scrivendo\assecondandole, principio che purtroppo non sempre funziona!
Penso che il succo di ciò che volessi dire comunque sia un po’ nella distinzione che Octavio Paz (e via a richiamare nomi!, ma in fondo è l’unico modo in cui ci si può sperare di capire, credo) all’interno di entrambe i suoi saggi sull’opera di Duchamp compie tra “idea” (affermativa) e “critica” (negativa)(i giudizi tra parentesi non vogliono essere di valore); ecco, secondo una simile divisione per la mia lettura ingenua (lo ripeto perchè è importante, non per altro), il monismo di Eckhart è un'”idea”, la riflessione cartesiana già una “critica” (per quanto ancora non totalizzante, visto che riesce a ricreare il mondo a partire dalla propria autoevidenza). In conseguenza di ciò mi sembra anche che l’iperrazionalismo giustissimo di cui mi rispondi, se in qualche modo cancella il mondo fuorì di sè, ne ingabbia i fenomeni, d’altra parte suscita al proprio interno l’accettazione di “elementi” vuoti, aconcettuali, dotati di una consistenza solo nominale; che il sistema cartesiano può solo mettere al bando. Se quello che dico ha un senso (e risulta più chiaro\più leggibile) ne deriva che dopotutto il “sistema” (perdona il termine improprio) Eckhartiano sia maggiormente in grado di accettare al proprio interno una componente estetica (termine che utilizzo letteralmente, a là Baumgarten) che Cartesio spinge per sempre (questo è un modo di dire…) al di fuori del discorso razionale… forse a ragione, forse a torto.
Potrei benissimo stare sollevando (anche questo per modo di dire) problemi da lungo superati, ma le mie letture sono appunto dilettantistiche (o comunque minate da lacune), perciò spero in una buona dose di comprensione!
Non so. Parliamo – su Eckhart – da dilettante a dilettante, ma a me pare che il sistema iperrazionale di Eckhart non produca affatto “elementi vuoti, aconcettuali, dotati di una consistenza solo nominale”. Gli elementi paradossali, negativi, a volte apparentemente autocontraddittori, non sono dei flatus vocis. Al contrario, sono prodotti acutamente ed estremisticamente concettuali, magari senza corrispondete empirico, e dunque senza corrispondente estetico. Mi sembra proprio che l’estetica non possa che essere tagliata fuori da questo ragionare su un Dio di intelletto, dove si portano alle estreme conseguenze le premesse della fede, e la aisthesis è implicitamente fuori gioco. Cartesio (e Kant ancora di più) sta cercando di fondare razionalmente una conoscenza empirica, e quell’empiricità radicale che è l’aisthesis ne resta a monte, ma ha la sua ragione di esistere nei loro sistemi. Forse i paradossi di Eckhart potrebbero essere interpretati come il conflitto tra un’ontologia oggettiva (la metafisica aristotelica) e una intellettuale/idealistica (le idee e il demiurgo platonico), entrambe concezioni presenti nella teologia cristiana, ma così faticosamente compatibili da poter far esplodere razionalmente il sistema – sino a mettere in crisi la nozione cruciale di esistenza.
D’altra parte, la nozione di bello nel Medioevo è una nozione intellettualistica e non sensistica. E non so quanto mi sia utile a comprendere Eckhart e il suo misticismo.
Tutto questo detto davvero basandomi su ben poco – e quindi passibile di essere estremamente imperfetto, se non proprio sbagliato.
Sì, è probabilmente una lettura che regge maggiormente di quanto non sia la mia; il punto che credo possa avermi tratto in inganno rispetto gli elementi paradossali del sistema è forse una lettura sbagliata di quanto dice Vannini: in quanto mi pare che lui tragga da tutto questo la considerazione che Eckhart giunga attraverso simile iperrazionalizzazione a un’accettazione dell’Assoluto qui e ora… ma avendo letto probabilmente simile passaggio (ammettendo io non me lo stia immaginando or ora!) con mente viziata, non ho preso in considerazione la possibilità che questo qui e ora possa essere puramente intellettuale