Dell’epica e della lirica, oggi

pI tentativi di rifondare un’epica non mancano nella poesia italiana di oggi. Tra quelli recenti di cui mi è capitato di parlare in queste pagine, ci sono quelli di Marilena Renda e di Andrea Raos, ma vanno in quella direzione anche certe cose di Sergio Rotino, Giuliano Mesa, Alessandra Carnaroli… Indipendentemente dalla qualità, a volte anche piuttosto alta, dei risultati, si tratta di tentativi (se proprio li vogliamo vedere in questo senso) non riusciti, o comunque – specie quando di ottima qualità poetica – tentativi che arrivano a costruire qualcosa che ben difficilmente potrebbe rientrare nei caratteri tradizionali dell’epica, che cioè sarebbe riconoscibile in quei termini. Sì, certo, c’è la forma lunga (da poema o poemetto), ma non basta. Quindi, o si smette di parlare di epica, oppure si cerca di definire con chiarezza che cosa possa essere un’epica nel XXI secolo in Italia.

In generale, nella nostra tradizione, si parla di epica quando ciò di cui la poesia parla è un popolo, una nazione, una classe sociale, comunque un gruppo che riconosce nella narrazione dell’epica qualcosa che lo fonda, qualcosa che lo identifica collettivamente, un mito che lo riguarda. L’epica è l’espressione di una collettività, e in qualche modo (pensate a Omero per i Greci) ne fonda l’unità. Insomma, l’epica è ciò che dà parola (racconto) al mito su cui si riconosce una collettività.

(Per questo motivo poi, all’epoca in cui si sono creati gli stati nazionali, le nuove classi dirigenti hanno dedicato tanta attenzione al tentativo di far reinterpretare le vecchie epiche come epiche di fondazione nazionale, e tra Nibelungenlied e Kalevala e Cantar del mio Cid, tutti nati quando il concetto di nazione non era nemmeno stato pensato, ci siamo trovati persino a studiare Dante come un precursore dell’unità nazionale italiana!)

Lasciando perdere nazioni e popoli, ormai fuori luogo, quali sono oggi le collettività di riferimento della nuova epica? Su quali valori forti condivisi si può identificare oggi una collettività che si riconosca come tale? Pasolini poteva ancora idolatrare il sottoproletariato e l’utopia del comunismo; così che quella de Le ceneri di Gramsci è forse l’ultima epica nel senso tradizionale prodotta in Italia – ma Pasolini era anche acutamente consapevole della problematicità del proprio epos, del proprio mito, che infatti scompare sempre di più nella sua poesia successiva. Riappare magari nel suo cinema, ma come nostalgia di un’epica, più che un’epica vera e propria.

Negli stessi anni, Sanguineti scriveva il Laborintus, un altro testo epico, per certi versi; ma anche qui quello che domina, più che il mito collettivo, è la sua dissoluzione nella palus putredinis dell’inconscio – magari collettivo, sì, ma un inconscio collettivo non è un epos, non è qualcosa in cui possiamo credere e ci tiene uniti.

Più sicuramente, quello a cui Sanguineti tende è la dissoluzione della lirica, del dominio dell’io personale. Tuttavia, l’epica non è semplicemente l’antitesi della lirica. Non è che dissolvendo l’io si ritrovi automaticamente il collettivo. Di fatto, i frammenti di cui è composto il Laborintus sono frammenti dell’io così come dell’epos. Sanguineti destruttura quello che Lacan chiamerebbe il moi, ovvero la superficiale costruzione della nostra privata identità. Non può trovare un epos dietro la scomparsa del moi perché l’epos non esiste più, semplicemente.

Parlo della situazione italiana, probabilmente allargabile a tutta l’Europa occidentale. Quello che dico non riguarda gli altri popoli del mondo, dei quali non conosco a sufficienza la situazione. Visto da qui, comunque, cioè dall’Italia di oggi, chi certamente possiede un epos sono i fondamentalisti, ma l’epos di un fondamentalista non è qualcosa che io possa accettare; è qualcosa che io, semmai, trovo personalmente rivoltante, demenziale, cieco, ottuso. Un’epica in cui io possa riconoscermi mi deve rappresentare, e deve rappresentare perciò anche la mia diffidenza verso gli epos troppo forti, intensi, acritici.

Certo, c’è l’epica dell’epica, quella (quando va bene) del Fiore delle mille e una notte di Pasolini, o (quando va male) dei generi filmici hollywoodiani, che non si fanno problema nel celebrare acriticamente valori remoti o fittizi. Un’epica del “facciamo come se un’epica fosse possibile”, cioè un’epica che ha come valore di riferimento l’epica stessa. La poesia, che ha poche preoccupazioni di cassetta (tanto non ne fa comunque – e se ne facesse sarebbe semmai con la lirica) appare lontana da questo campo.

Finisce quindi che le epiche in cui mi posso riconoscere, nel campo della poesia, sono pressoché solo quelle negative, cioè quelle in cui non si esaltano gesta positive, ma si condannano gesta o eventi negativi. A questa categoria di epica appartengono tutti gli autori che ho citato sopra, e le appartiene anche il Pagliarani de La ragazza carla e de La ballata di Rudi. Tramontate le identità collettive nazionali e quelle politiche, ci raccogliamo infatti oggi solo sulla comune condanna di qualcosa, e l’epica di oggi è un’antiepica del male.

Fa parte, in maniera controversa, di questo male, anche la dominanza del moi. Tutte le tensioni antiliriche che serpeggiano (o furoreggiano) nella poesia italiana dai tardi anni Cinquanta in poi si fondano sulla condivisione della stanchezza per il predominio del moi (ne ho discusso a lungo con Marco Giovenale parlando della poesia di Amelia Rosselli qui, e poi ancora qui). La stessa problematica risorgenza dell’epica di cui sto parlando in questo post si basa su questa stanchezza.

Il problema è che il moi, pur essendo una sovrastruttura, non è eliminabile, e anzi si trova a essere, nella nostra società, molto più forte oggi che sino a qualche secolo addietro. La crescita storica del peso del moi ha coinciso, storicamente, con il declino dell’epica (a parte l’artificiosa resurrezione con finalità nazionalistiche di cui si diceva sopra). Paradossalmente, il mito che tiene assieme la nostra società è proprio quello di essere composta di individui, cioè di tanti moi autonomi. E quindi, ancora più paradossalmente, la vera epica della poesia degli ultimi secoli è stata la lirica, cioè la celebrazione collettiva del moi.

Per questo Sanguineti, nel frantumare il moi, frantuma a suo tempo anche qualsiasi possibile epos rimasto. Per questo, quando leggete i poeti che ho nominato sopra, li si continua comunque a sentire lirici, e spesso lirici in maniera originale, non banale. Nella sua frantumazione del moi e dell’epos, inevitabilmente, comunque, Sanguineti mette in gioco se stesso, e una parte del proprio moi – e se non lo facesse, nemmeno apprezzeremmo la sua poesia.

Questa è la contraddizione che rende la poesia oggi, in Italia, ai limiti dell’impossibile, e comunque difficilissima: esprimere il moi attraverso la negazione del moi, esprimere il collettivo attraverso la negazione del collettivo. Il dolore, il male, è una delle possibilità che le si offrono, e forse l’unica che permette, al momento, una qualche forma di epica.

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Di Sanguineti, Szymborska, e Poesia degli anni Zero

Le parole dell’articolo di Carlo Carabba “Meno Sanguineti più Szymborska: liberiamo la poesia”, uscito l’11 marzo sull’inserto domenicale del Corriere, “La lettura” (leggibile qui, segnalato e commentato da Massimiliano Manganelli qui), sembrano riprodurre un antico cliché: buono è ciò che piace ai più. E il libro della Szymborska, caso più unico che raro di raccolta di poesie assurto all’empireo dei libri più venduti, fornirebbe l’esempio di versi “che hanno un pregio che spiazza e sorprende il lettore: si capiscono e, spesso, commuovono”.

Divento inquieto quando leggo queste cose. Evidentemente io non appartengo alla categoria dei lettori a cui fa riferimento Carabba, visto che trovo talvolta commoventi i versi di Sanguineti, mentre non mi ritrovo capace né di capire né di apprezzare la Szymborska. Sto facendo un’affermazione eretica, evidentemente, ma io non leggo il polacco, e ritengo che la poesia sia non traducibile, bensì solo riscrivibile in un’altra lingua (ovvero in un altro sistema semantico, lessicale, prosodico, ritmico, metrico e fonetico – sempre assumendo che il sistema di valori culturali di riferimento sia sufficientemente simile da non produrre troppi equivoci). Di conseguenza non mi permetterei di dire che la Szymborska non è un grande poeta, o anche soltanto che non mi piace: io non ho mai letto la Szymborska, bensì solo i suoi traduttori.

Certo, al cliché (pseudodemocratico) che è buono ciò che piace ai più si contrappone quello non meno irritante (pseudoaristocratico) per cui è buono solo quello che pochi sanno apprezzare. Questo secondo è il chiché delle sette e delle conventicole, e non si può negare che le avanguardie storiche, indipendentemente dalla loro importanza e dal loro successo, abbiano mostrato una certa tendenza a organizzarsi in sette e conventicole. Inevitabile strategia di sopravvivenza, certamente. A cui si aggiunge la rassicurante sensazione di far parte di un gruppo di eletti, di aristocratici dello spirito – persino quando si perseguono ideali socialisti, persino quando si è bolscevichi.

Ma le avanguardie non si possono ridurre a questo. Se lo si fa si corre il rischio di prendere granchi grotteschi, quale il sostenere – come fa Carabba – che tra i bersagli polemici dei Novissimi, espressi nell’Introduzione di Giuliani, ci sarebbe anche “una lingua che abbia la pretesa (ingenua) di significare qualcosa”. Nemmeno Balestrini, il più estremista del gruppo da questo punto di vista, potrebbe davvero riconoscersi in una proposta così estrema. E così stupida, bisogna aggiungere: Carabba deve costruire la caricatura del proprio bersaglio, e caricarla in eccesso, per poterlo distruggere. Un segno che in verità il suo obiettivo polemico non è così facilmente attaccabile.

Ha un poco più ragione quando espone l’altro obiettivo polemico di Giuliani, quella che (pure qui caricando, perché i termini della polemica di Giuliani non sono esattamente questi) Carabba definisce “la malaugurata tendenza dei poeti a parlare di sé”.

È a questo punto che, come esempio (negativo) delle perduranti conseguenze dei mali introdotti nella poesia dall’avanguardia, Carabba cita il volume curato da Vincenzo Ostuni, Poeti degli anni Zero. Ho polemizzato anch’io con Ostuni, e non condivido diversi tra i criteri che hanno guidato le sue scelte. Tuttavia, interventi come quello di Carabba mi spingono, se non a concordare, perlomeno a prendere le difese di Ostuni.

Intanto, nel complesso l’antologia è riuscita. Il criterio di selezionare un numero ridotto di autori cui dedicare molte pagine è condivisibile e anche coraggioso, perché comporta la necessità di escludere tanti. Inevitabilmente, quindi, non si sarà (e non sono) d’accordo sulle esclusioni e inclusioni. Ma questo è secondario, perché non esiste (per fortuna) una scienza esatta della qualità dei poeti – e tutto sommato Ostuni me ne presenta parecchi che interessanti sono.

Detto questo, c’è davvero un errore nelle posizioni di Giuliani, Ostuni e Zublena (che Ostuni cita ampiamente nella sua introduzione), ed è quello di ritenere che la riduzione dell’io sia uno strumento in mano al poeta e/o un metro di giudizio in mano al lettore. Se dovessimo dar credito ciecamente a queste posizioni, dovremmo concludere, guardando indietro, che Gabriele D’Annunzio (che di se stesso parla direttamente assai poco nei propri versi) è un poeta molto più in linea con i Novissimi di Guido Gozzano (il quale invece non fa altro che parlare di sé e del proprio mondo); e non si capirebbe come mai il medesimo Sanguineti attribuisca tanta importanza al secondo anziché al primo.

In verità, io credo, la riduzione dell’io non è una causa bensì un effetto, collaterale, della qualità poetica. In altre parole, una poesia di valore è una poesia che viene apprezzata per il suo rappresentare qualcosa per chi legge, indipendentemente dal fatto essa che dica “io” oppure no, o che abbia “tratti di immobilità o compiutezza”, come ricorda Ostuni, oppure no. Si potrà forse sostenere che un componimento che escluda l’io e che abbia carattere di non propositività esprime meglio il nostro tempo (e questa è l’unica giustificazione sensata che riesco a trovare alle regole esposte da Zublena e citate da Ostuni); ma anche questo è a sua volta discutibile, e presuppone implicitamente che il nostro tempo sia suscettibile nel suo complesso di una rappresentazione sufficientemente unitaria – fosse pure quella della semplice incertezza: ma anche la certezza dell’incertezza è una certezza, e dal paradosso non si esce.

Quanto alla natura democratica o aristocratica delle scritture poetiche, temo che Carabba sia vittima comunque di un errore di prospettiva. Il prestigio culturale di cui la poesia gode da secoli e di cui continua comunque a godere, per quanto in Italia sia evidentemente in calo, non è legato alla sua natura democratica o popolare, se non ritornando sino alle origini orali, per noi perdute. Tra i poeti che leggiamo sulle nostre antologie scolastiche, gli ultimi sospettabili di un legame con il popolare sono assai più vecchi di Dante. Il prestigio culturale della poesia ha poco a che fare con la sua diffusione, e con i grandi numeri.

L’auspicio, del tutto condivisibile, di una sua maggiore diffusione, non è l’auspicio a una semplificazione della poesia, bensì quello a un maggior numero di lettori competenti. Non sarà una cosa facile, sinché l’accento, nella fruizione dei testi letterari, a partire dal romanzo, continuerà a essere messo dall’industria culturale sui contenuti, sulla trama avvincente, sulla storia – come comunque fa Carabba, e come continua a fare, implicitamente seppur in negativo, chi sostiene la necessità della riduzione dell’io, e ne vede lo strumento nella complessità sintattica e discorsiva. Che le proposte avanzate a suo tempo dai Novissimi siano diventate ormai da anni maniera, e abbiano contribuito – come ogni maniera – al formarsi di sette e conventicole, è certamente un fatto. Ma questo non squalifica a priori nessuno specifico poeta, come non lo qualificherebbe a priori la sua appartenenza a qualsiasi ambito stilistico. E né la complessità né la semplicità sono di per sé indici di qualità.

La realtà, quella sì, è davvero complicata. Ridurre la qualità poetica al successo di pubblico, al giudizio del lettore qualsiasi, è una semplice ingenuità – oppure è un programma politico, ma noi speriamo di no.

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Delle lingue sacre e della lingua della poesia

Edoardo Sanguineti, "Laborintus" 1

Edoardo Sanguineti, “Laborintus” 1 (1956)

Devo a un piccolo dibattito con Lello Voce (iniziato qui e poi proseguito in privato) la lettura che sto facendo di Paul Zumthor, La presenza della voce. Introduzione alla poesia orale (Il Mulino, 1984). Vi ritrovo molte cose che mi sono note, ma anche delle osservazioni interessanti, e qua e là annotazioni che mi stimolano la riflessione.

A un certo punto Zumthor fa un accenno alle situazioni di diglossia, dicendo (p. 170) che “quando regna una situazione di diglossia, una delle due lingue può farsi carico, sotto la spinta delle circostanze e grazie all’iniziativa di alcuni individui, di una funzione poetica particolare: si pensi ad esempio al joual dei cantanti del Québec intorno al 1970, in un contesto di rivendicazione nazionale… […] O si pensi ancora a certe canzoni parzialmente o interamente in bretone di Gilles Servat o di Alan Stivell” (il joual è una varietà popolare del francese del Québec). La mia attenzione si è fatta qui acuta e non ho potuto fare a meno di domandarmi in quante tradizioni sia o sia stata presente una seconda lingua dedicata alla ritualità, di carattere sacro: il latino per l’Europa, l’ebraico per l’antichità che parlava aramaico, il sanscrito per l’India, o tutte le lingue sacre sciamaniche, come quella di cui descrive l’uso Carlo Severi (in Il percorso e la voce. Un’antropologia della memoria, Einaudi 2004, pp. 227 segg.) parlando del rituale del parto difficile dei Kuna.

Nel rituale di guarigione descritto da Severi (è lo stesso di cui parla Lévi-Strauss nel noto articolo sull’efficacia simbolica contenuto in Antropologia strutturale) la partoriente comprende solo in piccola parte le parole dello sciamano, il quale parla una lingua differente, esoterica, solo in parte coincidente con quella di uso quotidiano. Ma il rituale funziona lo stesso, un po’ come se la donna proiettasse, come su una sorta di macchia di Rorschach, quello che desidera intendere realmente.

Credo che questo funzionamento proiettivo, alla macchia di Rorschach, sia comune a tutte le situazioni rituali in cui entra in gioco una seconda lingua, diversa da quella corrente (latino, ebraico, sanscrito o qualsiasi altra). C’è naturalmente chi (come i sacerdoti) è pienamente in possesso del codice e dunque pienamente in grado di interpretare, ma il rito funziona anche nei confronti di coloro che capiscono poco o nulla. Sono altri fattori, di carattere ritmico e compartecipativo, a garantirne il successo; non esclusa l’oscurità stessa delle parole, garanzia, per il normale partecipante, che si sta avendo accesso a una dimensione differente, quella, appunto, del sacro.

La poesia orale di cui parla Zumthor sembra essere assimilabile più facilmente all’ambito della canzone, cioè a un ambito in cui la funzione rituale (su base ritmica e compartecipativa) è sostanzialmente delegata alla musica. Io stesso, quasi come i francesi di Bretagna, ascolto Alan Stivell, e capisco e partecipo quasi come loro. Per questo penso a Stivell come a un musicista, e non come un poeta.

Nel medioevo, prima di arrivare a essere in volgare, la poesia era inevitabilmente in latino. E la poesia veniva cantata, e non esisteva la separazione che per noi è del tutto corrente tra le due. Quando la poesia assume le forme della lingua volgare aggiunge di colpo al proprio appeal i vantaggi della comprensibilità, ma cerca di non perdere quelli della ritualità. Per questo, per esempio, conserva e coltiva assiduamente la propria metrica, permettendosi di trasformarla nel tempo solo quando è certa che le innovazioni non vanno a inficiare la sua forza rituale di fondo.

Questa forza rituale tende a conservarsi anche quando la poesia non è più legata alla religione, e persino quando non è più legata strettamente all’oralità. I riti si trasformano, sono ormai del tutto diversi da quelli di qualche secolo fa; ma sono nondimeno riti, che richiedono la parola (almeno in una pronuncia interiore, che però mantiene tutta la sua durata). Della poesia non si danno riassunti, né lettura puramente ottica (come quella che state facendo di queste parole), senza pronuncia almeno interiore.

Con tutte le sue trasformazioni, la poesia conserva gelosamente non solo le strutture metriche, ma anche il proprio esprimersi in una lingua speciale, diversa, sacralizzata dallo stesso contatto con la poesia. È la lingua della poesia, una lingua che, per noi, ha le stesse regole di base e quasi lo stesso lessico dell’italiano, ma un uso che può essere anche molto differente da quello della prosa o del discorso quotidiano.

Questa necessità di separazione dalla lingua ordinaria ha certo anche relegato la poesia in un ambito particolare. Sappiamo bene come l’enfatizzazione di questa differenza abbia segnato l’Ottocento poetico italiano sino a D’Annunzio; sino a provocare la reazione dei Crepuscolari e di ciò che ne è seguito. Ma si noti bene che il Novecento non è sfuggito al principio della diversità della lingua poetica: in un contesto in cui la separatezza della lingua poetica è la norma, persino la parlata colloquiale di Corazzini e Gozzano può apparire come una separatezza: è, perlomeno, infatti, la separatezza dalla separatezza. Ma persino in loro, in realtà, la riacquisizione del linguaggio quotidiano è parziale. Per quanto infatti ci si provi a utilizzare le parole e le strutture sintattiche di ogni giorno, l’immissione medesima in un contesto di versi e di a capo forzati, e di pertinenza dei fenomeni prosodici e fonetici, rende inevitabilmente differenti quelle parole e quelle strutture.

Tanti poeti del Novecento poi non si sono affatto riavvicinati alla lingua quotidiana, preferendo semmai cercare un linguaggio rituale differente anche da quello dei propri predecessori, ma indubbiamente riconoscibile come rituale. In questo indimenticabile inizio del suo Laborintus, Edoardo Sanguineti faceva esattamente questo – avendo presumibilmente come riferimento negativo la lingua separata dei poeti ermetisti, con tutta la sua ripresa ottocentesca e dannunziana.

Non tutto è comprensibile in questi versi, né tutto vuole essere comprensibile. Non è solo l’intromissione di parole dal latino a creare questa oscurità: l’intera costruzione sintattica, la scelta di parole inconsuete o inconsuetamente utilizzate, l’assenza di punteggiatura, mirano a una costruzione oscura. In questa oscurità semantica, l’andamento liturgico della recitazione rimane l’elemento dominante. Proprio come la partoriente kuna in presenza del suo sciamano, noi comprendiamo solo in parte, solo qua e là, per sprazzi, ma il ritmo ci prende lo stesso, ci coinvolge, ci trasporta in una realtà che si sta sviluppando, della quale cogliamo faticosamente elementi noti e fascinosi, e ci costruiamo il nostro racconto, la nostra personale veduta, ci immergiamo nella Palus Putredinis del Senso e della Storia. Tanto più potente è la parola poetica (e qui lo è moltissimo) e tanto più ricco e intrigante sarà il racconto che possiamo ogni volta costruire sulla base di quello che si presenta ai nostri occhi, o risuona alle nostre orecchie.

Se invece di leggere con gli occhi stessimo ascoltando una voce recitante, dovremmo essere consapevoli che la possibilità di cogliere il senso effettivo delle parole è ancora, ulteriormente, ridotto, perché la voce corre, e non può ritornare indietro nel testo come l’occhio può fare. La voce può però aggiungere sfumature al suono, può dare corpo al ritmo, può dare musica alla prosodia; può insomma rendere ancora più concreta e avvolgente la situazione rituale.

Se cercate soluzioni, la poesia non è cosa per voi. La poesia si limita ad avanzare proposte, o addirittura accenni di proposte, che ciascuno farà sue a modo proprio. Nel frattempo, proprio nel seguire il suo percorso e nello sforzarci di sentirlo e di dargli un senso, ci ritroveremo in sintonia rituale con tutti coloro che stanno compiendo (o hanno compiuto, o compiranno) la medesima operazione. Molto più che comunicare, la poesia è infatti fare, poiein, anche quando la si sta solo fruendo. E tanto meno la poesia comunica emozioni; al massimo, qualche volta, le produce.

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Della vocalità poetica e del sublime

Al post di Rosaria Lo Russo sulla vocalità poetica sono intervenuto con diversi commenti, e anche con un mio post di qualche giorno fa. Però mancava ancora qualcosa al mio discorso, qualcosa che ho accennato in un ulteriore commento là, e che vorrei riprendere ora qui.

Quello che ho detto in quel commento è che la vocalità poetica è qualcosa che è molto più nell’aria di quanto non lo siano le personalità dei singoli poeti: è nell’aria davvero quando ascoltiamo delle buone performance poetiche, ma è nell’aria anche quando la poesia risuona dentro di noi mentre la leggiamo con gli occhi.

Quell’attore che legge pessimamente una poesia, trattandola come se fosse prosa, è certamente uno che quest’aria non l’ha respirata abbastanza. Sono certo che non è capace nemmeno di leggere la poesia interiormente. Sostanzialmente non la capisce; magari ne capisce le parole e il discorso, ma non ne capisce la componente musicale (che non vuol dire solo fonetica e sonora: la musicalità della poesia sta tanto nel suono quanto nel senso quanto nel rapporto tra loro!)

Il nome convenzionale di Omero sta per un universo di aedi che condividevano ritmi prosodici, musicali e narrativi. I nomi dei poeti di oggi sono meno convenzionali, e stanno per persone in carne e ossa (Omero, chissà!); ma esiste ugualmente un universo di ritmi a cui tutti attingono e contribuiscono.
Mi verrebbe quasi da dire (ma qui sto esagerando) che la poesia è proprio questo dominio collettivo, che ciascun poeta riempie dei propri contenuti emotivi specifici. Il cattivo attore vede i contenuti e ignora il dominio.

Questo dominio è diverso, non c’è dubbio, da quello che prevale nell’universo del teatro, e questo giustifica le perplessità di Lello Voce (espresse nei commenti al post della Lo Russo) e di chi ha paura di essere confuso con quello. Forse dovremmo dire che la poesia vocalizzata è una forma di teatro che ha come riferimento un dominio differente e specificamente suo; e che solo conoscendolo intimamente è possibile davvero fare performance di poesia.

Rosaria Lo Russo ha risposto così (tra tanti interventi, per i quali rimando comunque al post di Absoluteville):

Daniele Barbieri ha interpretato correttamente il mio pensiero, e sono grata a lui per averlo espresso in termini molto diversi dai miei. Difatti la questione non concerne assolutamente l’impossibile impersonalità della voce, un’astrazione totale, bensì la consapevolezza, chiamata da Daniele conoscenza del dominio poetico, di una performatività altra rispetto al teatro dell’attore e propria del teatro della voce recitante in versi. Per spiegarmi con un paradosso: una cattiva dizione, un grosso difetto fonatorio, può risultare indifferente alla comprensione profonda di una poesia (magari detta ad alta voce dal poeta che l’ha scritta), se l’argomento della poesia non la contempla, viceversa se un attore ha lo stesso difetto di dizione o fonatorio, questo o quello diverranno immediatamente un significato importante di quello che l’attore sta recitando, una connotazione del suo personaggio. La voce recitante, essenzialmente, è dell’anonimia perché esclude l’esistenza di un personaggio, a dirla. E spesso il cattivo attore interpreta il personaggio del poeta piuttosto che la poesia che sta recitando. Altra cosa ovviamente in caso nel caso della poesia scritta per il teatro: genere immenso (Shakesperae, Racine, Moliere…) che appartiene al teatro. Si può scrivere teatro in versi e in tal caso i versi possono essere recitati senza perdere spessore, anzi, accrescendolo. Esistono anche poesie a forte tasso retorico di teatralità, e anche per loro la recitazione immedesimativa è funzionale. Insomma, esistono vari gradi di teatralità di un testo poetico, ma il teatro in essa è solo una funzione retorica, non la sua essenza di genere, se così posso dire (e non è detto bene…). Quando il componimento è lirico, epico etc. etc. prevale invece il dominio poetico e le molte voci della voce recitante: ergo la sua fondamentale anonimia (che non è, lo ripeto, anonimato, quanto piuttosto, pluralità di voci di una voce sola, quella recitante, che deve poter staccarsi dall’egoicità afunzionale delle sue prerogative personali-caratteriali: ecco perché Carmelo Bene è superabile, come performer di poesia…)

E poi, in un commento successivo, ha aggiunto:

Certo, bisogna dare i propri criteri valutativi. E prima di farlo avrò bisogno di parlare di mistica, come dice Fabio, e di musica, il melos di cui parla Stefano La Via in un blog dei nostri. Diciamo che amo molto il Campana di Bene ma non lo definirei “perfetto”. Secondo il mio criterio valutativo “perfetto” potrebbe essere invece Laborintus di Sanguineti, letto da Sanguineti e musicato da Berio, con voci di cantanti lirici. Lì musica teatro e vocalità vanno di pari passo col testo scritto. Personalmente mi godo di più quel gigione di Carmelo, ma questo perché ho una passione sviscerata per il teatro e per la vocalità di CB, trovo Sanguineti-Berio più “freddi”, però è innegabile che se intendo parlare di Performance Poetica Laborintus è un capolavoro. E dunque bisognerà distinguere fra teatro e poesia davvero e per bene: ci proveremo insieme. Qui mi piace soprattutto l’aver ricordato due enormi maestri scomparsi: Edoardo Sanguineti e Carmelo Bene, due pilastri che ci mancano e ci mancheranno.

Mistica e musica stanno tra le mie ossessioni ricorrenti. Il Laborintus di Sanguineti musicato da Berio non è il testo originale del poeta, ma un lavoro creato apposta da lui nel 1965, che si chiamava, appunto Laborintus II, un pastiche di testi vari, suoi e di Dante (e non ricordo di chi altri), di cui ebbi la fortuna di vedere-sentire un’edizione nei primi anni Settanta, al Teatro Comunale di Bologna – che ricordo come se fosse ieri; e a cui devo, probabilmente, una buona parte dei miei interessi tanto per la poesia come per la musica contemporanee.

Conoscendo Berio, e il modo (genialmente) imperialista in cui ha sempre trattato la parola, riducendola a semplice supporto vocale della sua musica – quasi che la parola non avesse già una sua dimensione espressiva, e dovesse essere piegata fonicamente ai suoi scopi… Conoscendo Berio, è davvero sorprendente come Sanguineti sia riuscito a far rispettare la propria vocalità, il proprio sentire poetico, o meglio la vocalità poetica stessa, quella roba che non è musica e non è recitazione teatrale consueta, ma è fatta di andamenti ritmici che non possono perdere quelli sintattici (e viceversa).

Mistica e musica entrano in gioco qui. Ma la poesia possiede la sua propria specifica musica, che non è quella del canto, e che può persino, talvolta, in qualche caso, fare a meno di una ritmica del piano dell’espressione (prosodica). E la mistica della voce avvicina chi recita a colui che prega, perché un buon Performer Poetico non fa che esprimere un respiro collettivo, qualcosa che è nell’aria che tutti sentono, qualcosa che tutti sono sul punto di trovare quando leggono con la voce interiore degli occhi, e che è una sorta di accordo con il mondo, un “sentirsi in armonia” (per usare le parole di Ungaretti).

Pare ovvio che tutto questo abbia a che fare con la tematica del sublime, a cui sono condannato a ritornare in questi post. Il sublime, parente strettissimo della mistica, o forse semplicemente una mistica laica, è il destino dell’arte in un mondo in cui la religione non è più il fondamento intimo dell’accordo collettivo. Il sublime è la sensazione improvvisa di essere in balia del mondo, in armonia con qualcosa che ci sovrasta e non potremmo mai e poi mai controllare, umano o inumano che sia; è il sentimento oceanico del dibattito tra Romain Rolland e Sigmund Freud; è quello che tocchiamo nel momento in cui la nostra specifica personalità si perde per un attimo in una improvvisa stimmung, in un accordo, in senso musicale, con qualche parte imprevista delle cose attorno a noi.

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Della Palus Putredinis

in te dormiva come un fibroma asciutto, come una magra tenia, un sogno;
ora pesta la ghiaia, ora scuote la propria ombra; ora stride,
deglutisce, orina, avendo atteso da sempre il gusto
della camomilla, la temperatura della lepre, il rumore della grandine,
la forma del tetto, il colore della paglia:
………………………………………………..………..senza rimedio il tempo
si è rivolto verso i suoi giorni; la terra offre immagini confuse;
saprà riconoscere la capra, il contadino, il cannone?
non queste forbici veramente sperava, non questa pera,
quando tremava in quel tuo sacco di membrane opache.

.

È morto il vecchiaccio, brutto come Marty Feldman e sgarbato come un vero poeta.
O forse dovremmo mettergli come epitaffio i primi versi della sua carriera:

composte terre in strutturali complessioni sono Palus Putredinis
riposa tenue Ellie e tu mio corpo tu infatti tenue Ellie eri il mio corpo
immaginoso quasi conclusione di una estatica dialettica spirituale
noi che riceviamo la qualità dai tempi
….

Con tutte le polemiche di questo mondo, comunque grazie, Sanguineti.

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di Daniele Barbieri

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