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Di Mumin, della memoria e delle traduzioni

Ho scoperto Mumin intorno al 1970. Stava su un supplemento di Linus dell’anno prima, finito in casa mia non so come. Allora si chiamava Moomin, all’inglese, perché, nonostante l’origine finlandese dell’autrice (e la sua lingua-madre svedese), a noi arrivava attraverso i suoi successi britannici. Fu per me una specie di colpo di fulmine, per la sua sottile demenzialità, per la sua tenerezza, per la sua capacità di rendere il mondo una fiaba, per il suo essere un fumetto che sembrava per bambini e non lo era affatto. Negli anni successivi, e per molto tempo, ne sono stato su Linus un appassionato lettore – fino a quando la stagione di Moomin è finita, e del fumetto in Italia si sono perse le tracce.

(Di passaggio: in quel supplemento di Linusli’l linus, aprile 1969 – scoprivo contemporaneamente Li’l Abner, Popeye, Valentina e Jeff Hawke, più altre delizie minori – minori almeno per il mio gusto, visto che di tutte quelle maggiori sono stato da allora in poi un lettore quasi ossessivo. E questo comunque la dice lunga sulla qualità dell’operazione di Linus di quegli anni.)

Per chi non lo sapesse, il Mumin (o Moomin) di cui sto parlando è la versione a fumetti di una fortunata serie di romanzi per ragazzi, realizzata da Tove Jansson, e molto amata anche nei paesi di lingua inglese. Il fumetto è disegnato da suo fratello Lars. Dei romanzi c’è stata in Italia una serie di traduzioni, a partire dalla fine degli anni Ottanta, pubblicati dalla Salani e curati da Donatella Ziliotto. Il fumetto è invece quasi scomparso, per riapparire or ora in una bella edizione di Black Velvet, primo volume (si spera) di una serie cronologica completa.

Quando l’ho avuto in mano, ho pregustato l’emozione di rileggerlo, di ritrovare il piacere trasognato e divertito che le storie degli Jansson mi hanno sempre procurato.

E invece non è successo nulla, o quasi. Ho trovato un bel fumetto per bambini, sottile nel suo essere grottesco e insieme romantico, pieno di trovate brillanti. Insomma, comunque, un classico. Ma non qualcosa capace di destare in me una passione come quella che aveva risvegliato allora. Se lo leggessi ora per la prima volta, lo apprezzerei certamente, ma non mi sorgerebbe quel desiderio di averne ancora e poi ancora.

Mi sono domandato perché. C’è una prima risposta del tutto ovvia: nel 1970 avevo 40 anni in meno di oggi, e benché per certe cose io mi senta ancora la passione del ragazzino di allora, può davvero darsi che io non sia più lo stesso. Inoltre, le cose che si portano racchiuse nel ricordo per tanto tempo tendono a ingigantirsi, e magari io ho mitizzato Moomin. O forse ancora, quando lo leggevo allora, Moomin rispondeva a delle esigenze mie che nel frattempo sono cambiate – indipendentemente dal fatto che ora sono più vecchio, ma semplicemente perché vivo una vita diversa.

Tutto questo può essere: tra Moomin e Mumin magari non c’è differenza, ma nel suo lettore sì. Però nel leggere l’edizione Black Velvet qualcosa non mi quadrava lo stesso, e sono andato a cercarmi la copia di li’l linus dove l’avevo incontrato allora. E così, comparando Mumin con Moomin, la differenza è saltata fuori, ed è una differenza di traduzione.

Il sospetto lo avevo avuto già quando avevo letto il nome della fidanzata di Mumin, cioè Grugnina. Io ricordavo un nome più dolce e più ironico. E, in effetti, nella versione Moomin, lei si chiamava Adipella. Nelle note in fondo al libro si sottolinea che la traduzione dei nomi rispetta quella fatta da Donatella Ziliotto, e capisco bene che non sia facile trovare un corrispondente italiano per lo svedese Snorkfröken, o per il finlandese Niiskuneiti. Ma per gli inglesi il medesimo personaggio è Hattifatteners, e Adipella ha la stessa sfumatura di delicata grassezza – mentre Grugnina a me suona tanto di ingrugnato.

Moomin vs Mumin Es. 1

Moomin vs Mumin Es. 1

E poi c’è il toscano. Certo, far parlare dei troll finlandesi come dei villici di San Casciano in val di Pesa era una scelta parecchio azzardata – e non so davvero quanto fosse giustificata dal linguaggio dei personaggi originali (ma quale poi? il finlandese, lo svedese o l’inglese?). E tuttavia questa idea era talmente stralunata, che, magari un po’ paradossalmente, corrispondeva davvero alla dimensione a sua volta stralunata del mondo di Moomin.

Moomin vs Mumin Es. 2

Moomin vs Mumin Es. 2

Nella versione Black Velvet, i troll finlandesi parlano un corretto italiano. Poiché conosco bene la passione e la serietà dei curatori Omar Martini e Sergio Rossi, non ho alcun dubbio sul fatto che la scelta è stata meditata, e che si è preferito conservare la coerenza con la traduzione Ziliotto. Però così, per quel vecchio lettore di Moomin che sono io, Mumin non è più Moomin. E con quel toscano così assurdo ma così caratterizzante, se ne è andata anche una fetta del fascino di una volta.

Moomin vs Mumin Es. 3

Moomin vs Mumin Es. 3

Ah. Qualche romanzo di Moomin me lo sono anche letto, molti anni fa, in inglese. Nemmeno lì avevo ritrovato lo stesso fascino dei fumetti pubblicati da Linus. E allora davvero: o la bellezza delle cose che vediamo dipende dallo stato d’animo in cui ci troviamo quando le incontriamo, oppure il merito era tutto del toscano, e di chi ebbe questa stramba idea.

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2 comments to Di Mumin, della memoria e delle traduzioni

  • La traduzione in toscano di cui parli, mi ha fatto pensare a quello che mi è accaduto con Asterix, di cui da quando vivo in francia sto rileggendo gli albi in originale.

    Una delle cose che da ragazzino mi faceva ridere a crepapelle, era lo sguaiato romanesco dei legionari, nel doppiaggio italiano del cartoon. Tutto questo ovviamente nell’originale non c’è (anche se uderzo gioca con i font nei balloon in maniera sublime per suggerire accenti vari).

    La stessa cosa accade ne I simpson, dove il custode della scuola (in originale scozzese) diventa sardo e il nero con l’accento del nord degli stati uniti diventa veneto… quando rivedo le puntate in originale mi sembra paradossalmente che manchi qualcosa.

    Ecco queste traduzioni/tradimenti dovrebbero farci inorridire da puristi, però in alcuni casi sono terribilmente divertenti.
    E’ la dimostrazione che anche i fraintedimenti (volontari o meno) tengono vivi i linguaggi. Contribuiscono a farli evolvere, magari in direzioni imprevedibili.

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