Mi guardo intorno, anzi sarebbe meglio dire mi leggo intorno. Leggo su questo schermo blog di diversi tipi, di diversi argomenti. Nei blog dove si ragiona di poesia mi colpiscono in questi giorni tre post differenti, ma che girano attorno a un tema solo, o forse (meglio) a temi diversi con una radice unificante; uno è quello di Paolo Zublena su punto critico, Esiste (ancora) la poesia in prosa?, un altro è quello di Massimiliano Manganelli su Absoluteville, La poesia contro il romanzo, e il terzo, ancora su Absoluteville, solo in apparenza di tema differente, è quello di Rosaria Lo Russo, Scrivere sotto dittatura; tutti con i relativi commenti.
Il tema unificante a cui girano attorno è che cosa sia questa roba che chiamiamo poesia, e in particolare che cosa sia rispetto a quell’altra roba che, per contrasto, si chiama prosa, ed è soprattutto, nel mondo di oggi, romanzo. Non è, io credo, una questione di vincoli maggiori o minori; semmai di quali vincoli. Un commentatore del post di Zublena (Gianluca Garrapa) suggerisce di assumere una regola arbitraria, tipo i 140 caratteri di Twitter “come fosse una regola (quasi oulipo) di versificazione e stare quindi nella ‘poesia’ in una più ampia, però, struttura narrativa_di_prosa. come se insomma ‘macroscopicamente’ fosse prosa e ‘microscopicamente’ poesia”. Mi pare una proposta che può essere magari interessante per fare degli esperimenti (tipo Oulipo, appunto), ma che con la poesia non ha niente a che spartire, in sé (anche se ci si può porre come sfida di scrivere poesia sottostando pure a un vincolo come quello).
Mi sento semmai più in sintonia con Rosaria Lo Russo, che parla di dettatura (o dittatura) del corpo ispirato. Forse la Lo Russo pone troppo l’accento sul corpo (ma lo scrive in un post, non in un trattato, e non si può sottilizzare troppo in poche righe), perché la poesia, da diversi secoli a questa parte, non è solo vocalità. Però io trovo che sostanzialmente abbia ragione, e che nella poesia sia presente una dinamica fisica, o fisiologica, di carattere principalmente vocale-sonoro, ma anche secondariamente (a mio parere) grafico-visivo, che non si può eliminare, se non uscendo dai suoi confini.
Lo dice bene Paul Valery, citato da un altro commentatore del post di Zublena (Luigi Bosco): “L’essenza della prosa è di perire, – cioè di essere «compresa», – cioè di essere dissolta, distrutta in modo irreparabile, del tutto sostituita dall’immagine o dall’impulso che essa significa secondo la convenzione del linguaggio. Infatti la prosa sottintende sempre l’universo dell’esperienza e degli atti, – universo nel quale, – o grazie al quale, – le nostre percezioni e le nostre azioni o emozioni devono alla fine corrispondersi o rispondersi in un solo modo, – uniformemente. L’universo pratico si riduce a un insieme di scopi. Ottenuto tale scopo, la parola muore”. Come dire che, nella prosa, la parola si esaurisce nella trasmissione del proprio significato, e si legge unicamente per capire: tutto il resto, compreso tutto il sentire emotivo che eventualmente ne deriva, passa completamente da lì, dalla comprensione della sequenza di parole. Viceversa, nella poesia la parola resiste alla comprensione del suo significato, e il suo suono traccia altre relazioni, che si accompagnano a quelle del significato, e non si esauriscono in quelle.
La comprensione (anche profonda) del significato di una poesia è ben lontana dall’esaurirla. Con forme differenti, la poesia condivide con la musica l’irriducibilità al senso – pur essendogli più vicina di quanto non gli sia la musica, per la sua natura ovviamente verbale. Qualche giorno fa scrivevo (qui) che “la poesia è un meccanismo che mette in relazione il nostro sentire personale, privato, intimo, con quello collettivo e sociale, fatto di tradizione e di regole e di consuetudini e di stratificazioni”. Potrei aggiungere, esagerando e semplificando, che il sentire personale è legato al senso, al significato, mentre quello collettivo è legato agli aspetti ritmici e sonori. Starei esagerando e semplificando perché le relazioni sono molto più complesse di così, ma non starei mancando del tutto il bersaglio.
In altri termini, potrei anche dire che la poesia è un meccanismo che mette in relazione il significato verbale con altre reti di relazioni, non necessariamente riducibili, nemmeno in ultima istanza, al significato verbale stesso. Se tale riduzione fosse possibile, una buona interpretazione di un testo poetico lo esaurirebbe (come sembra aver ipotizzato qualcuno in epoca neoavanguardista, secondo il racconto, ancora su punto critico, di Antonio Loreto).
In verità, anche Valery sta esagerando e semplificando. Persino la prosa non si esaurisce del tutto nel suo significato, anche se certo il valore sonoro (o visivo) delle parole è estremamente minore di quello della poesia. Proprio per questo è virtualmente possibile costruire della prosa che conservi i valori della poesia di non riducibilità al significato. Ma non ha tutti i torti Zublena a ritenere la poesia in prosa un’operazione che ha avuto valore storico, un valore oggi del tutto superato (i grassetti della citazione sono miei):
Questo non vuol dire ovviamente che i generi letterari dagli anni ’60 in poi si siano dissolti. Anzi. Sarebbe però ingenuo allo stato attuale considerarli qualcosa di più di dispositivi pragmatici che inquadrano un patto di lettura tra autore e lettore, o ancor meglio tra autore e lettore implicito nell’orizzonte di attesa contemporaneo. Ma questi dispositivi pragmatici sono in primo luogo sopravvivenze di istituti teorici (e normativi) del passato la cui portata si è spostata dal campo letterario (e quindi, se proprio volessimo seguire Bourdieu, da ragioni di conflitto circa il capitale culturale) a quello economico dell’industria culturale: oggi i generi si definiscono in funzione degli interessi del mercato editoriale.
In questo senso, se la nozione di poesia in prosa poteva avere un tempo – e certamente ha avuto – una funzione liberante di ibridismo rispetto a generi ancora fortemente canonizzati, oggi che i generi sono soprattutto etichette in libreria, e la poesia in primo luogo un concetto la cui ipostatizzazione ideologica inverte – appunto ideologicamente – la marginalizzazione che la letteratura che non si vende subisce dal mercato editoriale elevandola nel migliore dei casi a luogo anodino di resistenza etico-politica, nel peggiore a squisito rifugio irresponsabile da anime belle: se insomma la poesia non ha più bisogno di libertà perché il mercato le lascia tutta l’indifferente libertà che vuole, allora questa nozione (la poesia in prosa) è oggi probabilmente inutile.
In questo predominio dell’industria editoriale, la prosa – cioè il romanzo – è diventato davvero pienamente quello che descriveva Valery, cioè qualcosa il cui linguaggio si risolve nel proprio significato: in altre parole, la trama, il plot, la struttura del raccontato. Per Massimiliano Manganelli, su Absoluteville, proprio grazie alla sua marginalità, la poesia “è diventata il terreno più fertile della scrittura letteraria, quello dove si consumano gli esperimenti, dove l’invenzione conta ancora qualcosa, contro l’infinita ripetizione del romanzo”. Alla luce delle sconsolate parole di Zublena, questa fertilità sembrerebbe tuttavia dovuta proprio a quella “indifferente libertà” lasciatale dal mercato.
Nell’un caso come nell’altro, non è però chiaro perché il mercato abbia scelto il romanzo. Non dobbiamo dimenticare che il mercato non ha affatto demonizzato, per esempio, la musica, che è l’altro polo che influisce sulla poesia. In altri termini, il mercato ha puntato da un lato su una parola narrativa che si esaurisce nel racconto, e dall’altro su una struttura ritmico-sonora che si tiene ben lontana dal senso (basti pensare alla banalità media o irrilevanza dei testi delle canzoni, quando ci sono). La poesia, dal canto suo, ha percorso i sentieri aspri delle avanguardie, e si è adornianamente tirata fuori da quella dialettica, enfatizzando l’inevitabile complessità che deriva dal mettere assieme i due campi, quando si cerca di giocare insieme all’interno e all’esterno del senso. La separazione tra mercato e poesia è stata dunque per molti versi consensuale.
Il problema, a questo punto, è concretizzare davvero la non coincidenza tra la cultura e il mercato culturale. Non possiamo lamentarci che la poesia non venda. Dovremmo lamentarci piuttosto che il vendere sia l’unico criterio di valore riconosciuto pubblicamente, e agire di conseguenza. Dovremmo perciò renderci conto che la pubblicazione a stampa non può più essere il discrimine tra poeti da considerare criticamente e poeti da ignorare. La pubblicazione è comunque qualcosa che si paga, vuoi che la paghi il mercato, l’editore o l’autore stesso. Se non crediamo nel valore del mercato dobbiamo coerentemente squalificare anche il valore della pubblicazione a stampa.
In altre parole, sarebbe ora che chi si occupa di critica poetica si accorgesse che l’universo del Web ospita la poesia di oggi e di domani. Naturalmente è molto più scomodo analizzare un campo così vasto, non previamente scremato dalle scelte degli editori. Ma non ci sono alternative, oggi, io credo. Se il criterio seguito da Cucchi e Giovanardi per la loro nota antologia mondadoriana (di prendere in considerazione soltanto autori pubblicati, e da editori veri) era discutibile nel 1996, e pericoloso nel 2004 (le date delle due edizioni dell’opera), credo che sarebbe semplicemente sbagliato, o falso, oggi.
P.S. Sto partecipando al Premio Turoldo.
Se volete leggere i testi (anzi il lungo testo) che ho inviato, e magari lasciare qualche commento, mi potete trovare qui: http://www.poiein.it/premi_letterari/Turoldo2010/aaa_elenco.htm.
Leggo con piacere. Mi interrogo sul linguaggio degli anni 0, degli anni 10. Stanco di bocche rosse e baci al miele, di capelli a l’aura sparsi. Mi perdo tra le raffinerie del nord Africa. Coi tubi di scappamento infilzati nelle vene. Per riprendermi, per rimboccarmi addosso le palpebre. E’ tutto qui?
http://macelleriamarleo.wordpress.com/