Ho scattato questa foto a Tiruchirapalli (anche detta Trichy) nel Tamil Nadu, di notte, dalla terrazza del ristorante dove stavamo aspettando la cena. È una foto che a me piace molto, non solo per l’ordine maniacale con cui i commercianti indiani dispongono la frutta, che contrasta singolarmente con il disordine che regna tutt’attorno; non solo per i colori brillantissimi, a grandi macchie, e per lo spazio irrisorio in cui il fruttivendolo si trova costretto ad agire.
E poco importa anche che alle spalle della bancarella si stenda un enorme spazio buio: una grande cisterna, praticamente un piccolo lago quadrato nel bel mezzo della città. Davanti, viceversa, c’è luce e vita, e un sacco di gente che passa e si ferma a far compere.
Qui, in quello che si vede nella foto, il rettangolo della bancarella illuminata si staglia sul rettangolo più grande e oscuro intorno, ripreso, in piccolo, dalla macchia nera dell’uva proprio al centro. E poi, qui, sono tutte macchie rettangolari, cesto di frutta accanto a ogni cesto di frutta, compreso il corpo del fruttivendolo in alto. Rettangoli irregolari, molto creativi evidentemente, però ugualmente mattoni per assemblare questa composizione un po’ funzionalista.
E così mi viene in mente che l’India è in verità un paese di grandi matematici, che i nostri numeri sono stati inventati lì, e che al giorno d’oggi vi si scrive anche la maggior parte del software che si produce al mondo. A camminare per le strade magari non si direbbe; ma poi quell’anima nascosta e astratta si rivela, a livello popolare, anche nel razionalismo maniacale dei fruttivendoli, e nei contrasti geometrici tra rettangoli di luce e quadrati d’ombra.
La cena, comunque, qualche minuto dopo è stata buonissima.
A proposito di softwarehause indiane, nel film Nirvana di Salvatores il protagonista dovrà rivolgersi ad un tecnico indiano per avere un virus da introdurre nei computers della azienda per cui lavora. A ben vedere tutto il film si fonda sull’india, New Bombay ecc… ed essendo un film di fantascenza Salvatores aveva già intuito come la tecnologia informatica avrebbe avuto nell’India una diffusione esponenziale.
Come sempre ottimi i tuoi articoli!
E’ vero, così come è vero che mi ero del tutto dimenticato di Nirvana (che peraltro ha come locandina proprio un’immagine della dea Kali). Per farmi perdonare, rispondo con una citazione pertinente ancora più antica, che risale a un William Gibson del 1986, il cui Count Zero inizia proprio a New Delhi.
E poi, anche il termine orami troppo di moda avatar è di origine indiana. L’avatar è la manifestazione (incarnazione) di un dio, ed è un concetto centrale delle religioni induiste: Vishnu si incarna molte volte, tra cui in Rama e in Krishna (e per alcuni persino in Buddha e in Cristo). Per gli shivaisti tutte le divinità non sono che avatar di Shiva. E secondo l’interpretazione del Vedanta, tutti gli dei non sono che avatar del Brahman, lo spirito vitale, di cui sono avatar (meno consapevoli) persino gli uomini!
[…] foto dal contenuto complicato è stata scattata la sera successiva alla foto contenuta nel post del 5 giugno, dalla medesima terrazza (in attesa di ripetere l’esperienza gastronomica della sera prima), […]
Il fruttaròlo acefalo e le mille teste di frutti al suo cospetto, che si ripetono molecolari.
La leggendaria spiritualità indiana, mi viene da pensare, si poggia forse su una comprensione della struttura intima delle cose, dell’incanto ipnotico dei motivi ripetuti, dal tripudio orgiastico del colore.
Anch’io ho percepito un retrogusto di fantascienza in questa ripresa. Di “bladerunneriana” memoria, prima ancora che da Salvatores. Luci artificiali di metropoli notturne, dove queste pile hanno ragion d’essere perché qualcuno potrebbe comprarle, nel brulicare inarrestabile delle 24 ore nostop.
Mi pare che questa dimensione popolare, il mercato in strada, sia inestinguibile, fosse anche ad opera del più acerrimo futuro che si riesca a immaginare. Perché, come diceva il vecchio copy di uno yogurt, c’è la vita dentro.