Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di tre anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.
Certo non potrò seguire ancora molto a lungo il criterio di queste prime scelte per questa rubrica, scelte che stanno andando, come vedete, da maestro ad allievo; ma ancora per stavolta posso proseguire, e proseguo. Hugo Pratt (n. 1927) è indubbiamente l’autore di riferimento per la crescita stilistica di José Muñoz (n. 1942), così come Muñoz lo è a sua volta per quella di Lorenzo Mattotti (n. 1954). Fuochi (pubblicato a episodi su Alter dal 1984, e poi da allora numerose volte in volume) è indubbiamente il suo primo capolavoro, il risultato di una acquisita maturità stilistica.
Fuochi è la storia di un uomo (Assenzio, ufficiale di corazzata) che, favorito dagli spiriti di un’isola, si perde nelle proprie emozioni e sensazioni, finendo per provocare il proprio disastro spirituale e la distruzione stessa della nave. Non si tratta di un racconto astratto ed evanescente: al contrario, il racconto è continuamente chiarissimo e pieno di tensione narrativa. Ma l’astrazione e l’evanescenza non mancano, visto che sono esattamente ciò di cui si parla: quel perdersi nelle proprie emozioni che è il filo portante della vicenda, nei loro aspetti positivi e in quelli negativi, ben difficilmente (anzi quasi mai) distinguibili tra loro, se non (un poco) a posteriori, quando la vicenda si è conclusa.
La qualità di Fuochi è quindi legata alla capacità di Mattotti di tenere insieme un filo narrativo nitido e coinvolgente con una serie di travasi emotivi, di improvvise cecità, o di estreme lucidità del tutto straniate. Il filo narrativo è il cavo a cui il lettore si tiene sicuro nella propria avanzata; l’esasperata sensibilità è da un lato l’oggetto del racconto (il perdersi a cui va incontro il tenente Assenzio), e dall’altro la modalità percettiva che viene continuamente proposta al lettore, il quale in questo modo si identifica sempre di più con il protagonista, sino a vivere in prima persona le sue sensazioni.
La chiarezza del filo narrativo è garantita sostanzialmente dalla successione delle immagini e dei dialoghi: si capisce sempre esattamente che cosa stia succedendo, e perché quella cosa sta succedendo sulla base di quanto era accaduto prima (si capisce a posteriori, ovviamente: il racconto è pieno di sorprese). Viceversa, la vividezza dell’emozione è qualcosa che riguarda il singolo istante, ciascun singolo istante, ed è perciò costruita attraverso la forma visiva delle singole immagini, delle vignette. Le didascalie che contengono il flusso di coscienza del protagonista sono una struttura di mediazione, il prodotto di una coscienza che cerca di spiegarsi, razionalizzarsi, raccontarsi quello che le sta succedendo: e infatti, man mano che la storia procede, queste didascalie si fanno sempre più lapidarie, più sgranate, più brevi, sino a scomparire del tutto verso la fine.
Le singole vignette hanno di conseguenza un duplice ruolo: devono contenere un’immagine semplice da decifrare, per permettere al lettore una facile comprensione dell’evoluzione della storia; ma devono al tempo stesso contenere tutta la complessità necessaria per essere fortemente evocative.
Guardiamo dunque la tavola qui a fianco, quattordicesima di sessantadue. Ci troviamo ancora in una fase narrativa iniziale: l’isola sta appena iniziando a manifestare il proprio potere su Assenzio, che si trova in esplorazione con un gruppo di soldati.
Questa tavola è la prima, in tutta la storia, a enfatizzare il proprio sviluppo verticale, con la grande vignetta a sinistra alta due terzi dello spazio, che contiene a sua volta una figura a sviluppo verticale come il faro. Nell’economia complessiva del testo si presenta come una sorpresa, esattamente come il faro alla percezione del protagonista Assenzio: insomma, quello che percepisce il lettore qui è del tutto analogo a quello che percepisce Assenzio in quel momento della sua vicenda. Persino la didascalia che dice “Il faro” non è una semplice descrizione (che sarebbe superflua perché il faro si riconosce benissimo da sé), ma il grido di sorpresa del protagonista.
Guardate ora rapidamente le cinque vignette: l’apparizione del faro, il soldato che lo osserva, di nuovo il faro (in avvicinamento), i soldati che si guardano attorno alla base del faro, Assenzio che sale le scale. La comprensibilità del loro oggetto è immediata, così come immediata è la loro concatenazione narrativa. Ma, subito dopo, ci si accorge che tutto, in queste immagini , è fatto per ridurle a macchie di colore e di luce, a contrasti cromatici. Guardate quella in cui ci sono più figure, cioè la quarta vignetta: dei tre soldati, solo a uno si vede il volto, ed è ridotto a una maschera; al soldato più vicino resta persino tagliato fuori dall’inquadratura. Così, anche qui la variegata struttura giallo-verde dei soldati diventa una base orizzontale su cui si staglia la verticalità della scala sul fondo.
Questo dominio della sensazione si trova vissuto qui insieme dal protagonista e dal lettore, identificati in questo modo sin dall’inizio (e andando avanti sempre di più) in una comune discesa nel Maelstrom.
Se avete sottomano Fuochi, è facile verificare la trasformazione visiva che hanno le rappresentazioni stesse dei fuochi nel corso del testo: all’inizio geometriche e compatte, perché lontane e vissute da fuori, poi informi e sgranate, quando sono un vissuto interiore esaltante e doloroso, e alla fine ancora sgranate ma lineari, quando sono l’esplosione dei cannoni, della corazzata e del sé del protagonista.
Raccontare una storia non è mai un semplice elencare una successione di fatti. Una storia riuscita cerca di farli anche vivere, quei fatti, alla sensazione del lettore. Mattotti, in Fuochi, sfrutta questa possibilità al massimo grado.
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