Diario di Creta. Nono giorno

Si scende progressivamente nel profondo della vacanza, quando ci si incomincia a dimenticare della vita normale, e la quotidianità di qui diventa la norma. Nel frattempo, ci sono stati dei cambiamenti: da Kato Zakos, estremo est dell’isola, siamo arrivati a Paleochora, quasi estremo sud ovest, circa 370 km di strada. E stamattina ho portato la macchina a Chania, tornando in bus. Domattina si prende il traghetto per Gavdos, una piccola isola a 4 ore di navigazione, il punto più a sud dell’Europa. Qui fa più caldo, ma tutto è molto più verde, e le montagne sono bellissime, con un sacco d’acqua che scorre.
Ieri l’altro sera, dopo una passeggiata sull’altopiano per vedere le rovine di una piccola città veneziana, siamo andati a Ziros per un concerto di lira. Il biglietto di 10 euro comprendeva, oltre al concerto, un piatto misto, acqua e raki a volontà per tutta la notte. Gli spiedini (souvlaki) erano a € 1,50 l’uno, e non erano piccoli. La musica è iniziata dopo le dieci, quando il posto (un giardino all’aperto) incominciava a riempirsi, e il tasso alcolico a salire.
La lira cretese è una specie di violino che si suona tenendolo verticale ed era accompagnata dal liuto, una chitarra e un tamburo. Dopo un primo lungo pezzo molto cantato, una specie di ballata di circa mezz’ora, si sono aperte le danze, e progressivamente i ballerini sono aumentati sino a forse più di un centinaio. Il fatto interessante è che questa musica tradizionale appare amatissima anche dai giovani, che erano la maggioranza di una collettività che andava comunque dai 7 ai 70 anni. Noi ce ne siamo andati verso l’una, ma queste feste proseguono di norma sino all’alba.
Le considerazioni sulla tradizione da noi perduta o cancellata, o relegata nei musei, le lascio nella penna. Devo solo osservare che questa tradizione musicale popolare mi pare assai più ricca e interessante, comunque, della nostra. Ma il discorso è spinoso, e lo lascerò cadere.
Ieri lungo viaggio in macchina, con qualche tentativo fallito di fare i turisti: ma era lunedì, e di lunedì tutti i recinti archeologici e i musei sono chiusi: dà un qualche conforto sapere che da questo punto di vista c’è chi fa peggio di noi italiani.
Alla sera, a Paleochora, cena a To Skiolio, ovvero La Scuola, quella che era la scuola di un paesino qui sopra, a quattro km. Si cena sotto i gelsi e un gigantesco olivo, con una cucina particolarmente originale e molto gradevole, per 12 €uro. Se arrivi di giorno c’è anche un notevole panorama, perché subito sotto c’è una gola che scende sino al mare. Qualche anno fa l’abbiamo anche discesa.
Stamattina, con la macchina, sono tornato a Chania, per lasciarla all’aeroporto dove l’avevo presa. Con il bus, alle 2 e mezza ero qui. Poi, letture e contemplazione. E caldo, che qui si sente di più. La Libia è vicina.

To Skolio, Anidri

To Skolio, Anidri

 

(la foto è stata fatta con l’iPad, e, data la scarsa luce, la qualità è quel che è – però mi sembra che ugualmente renda l’atmosfera)

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Diario di Creta. Settimo giorno

Dopo qualche giorno si entra davvero nello spirito della vacanza, nel senso che il resto del mondo svanisce, si fa evanescente, e la problematica esistenziale che ci si sente in grado di affrontare è dell’ordine del bagno sì / bagno no, passeggiata sì / passeggiata no, e così via. Però ieri l’altro siamo dovuti andare a prendere i nostri amici (che non sono potuti partire regolarmente con noi per un problema dell’ultima ora, e hanno spostato il volo a venerdì) sino a Chania.

Da qui (Kato Zakros, estremo oriente di Creta) a Chania (quasi estremo occidente) ci sono circa 350 km, dei quali circa 50 saranno autostrada, e il resto strade in generale abbastanza buone, ma pur sempre a corsia singola. Insomma, sono 5 ore di macchina ad andare e altrettante a ritornare. Per spezzare un po’ il viaggio di andata, siamo partiti con largo anticipo e abbiamo fatto un paio di deviazioni fuori dalla via principale.

La prima era per andare a vedere un supposto monastero, Monastiri Faneromenis, nome che, per quel che capisco di greco, dovrebbe fare riferimento a una manifestazione o apparizione. Ma il monastero non c’era, ed era invece un paesino che si chiamava così. Però il posto era talmente bello che è andata benissimo lo stesso, con questa piazzetta dalla strana forma, davanti la chiesa e di fianco lo strapiombo di uno dei tanti canyon di qui. Peccato non poter traslare le foto dalla macchina fotografica sull’iPad. Dovrei farle direttamente con l’iPad per poterle mostrare qui, ma le foto vere sono migliori, e non giro con l’iPad appeso al collo.

La seconda deviazione è stata verso il mare, alla ricerca di una taverna in cui mangiare. Non è difficile trovare taverne, in Grecia. Ce ne sono nei luoghi più sperduti e incredibili. Si sa, la cucina greca non ha una varietà soverchiante di piatti differenti, però quelle quattro cose che si trovano dappertutto sono molto buone, e costano due soldi.

Dopo di che eravamo in ritardo. In realtà lo eravamo già da prima, ma non ci eravamo resi conto che ci sarebbe voluto taaanto tempo. Dopo tutti i chilometri fatti, verso Chania c’era un pezzo di autostrada, dove l’uscita per l’aeroporto non era segnalata. E quindi l’abbiamo mancata, trovandoci per le vie della città a divinare la direzione giusta.

Insomma, circa un’ora e mezza di ritardo (ma avevamo avvertito gli amici di andare al bar). E quindi saluti, bagagli, e via per il ritorno. Dopo Aghios Nikolaos (era già notte) ci siamo fermati per mangiare; i nostri amici entusiasti (prima volta a Creta), noi un po’ provati. E poi via di nuovo, per le curve della notte (ma quasi nessuna macchina in giro) per altre due ore, e strade progressivamente più piccole.

Per buona parte del ritorno non ho guidato io, ma all’arrivo ero estenuato lo stesso, così stanco da fare fatica persino ad andare a letto.

La nozione successiva del mondo è stata alle 10 della mattina dopo. Mi sentivo come con i postumi di una sbronza. Quindi giornata calma, letture, contemplazione, cicale, vento. Verso le 5 una passeggiata di un paio d’ore per andare a vedere una grotta. Mi sono portato la torcia e sono sceso giù fino all’oscurità, e c’erano le stalattiti, e ambienti molto grandi. Sono sceso sinché lo si poteva fare senza troppo rischio. A un certo punto la discesa diventava un’arrampicata all’ingiù, e lì mi sono fermato, cercando di capire quanto fosse fondo il buco diagonale che avevo davanti, ma con la mia luce ho visto soltanto che non lo si vedeva.

Poi, risalendo e uscendo mi sono accorto anche di quanto risalisse la temperatura. Non che si muoia dal caldo qui: di giorno si sta sui trenta, ventilati, e verso sera si scende sino a ventiquattro, però rispetto ai 17 della grotta è comunque un bello sbalzo. La cosa più affascinante è che la base delle stalattiti (o sono stalagmiti, quelle che salgono? non riesco a tenerlo a mente) alla luce della mia torcia appariva avvolta come da una rete argentata. Quando l’ho guardata da vicino, e toccata, ho visto che sono migliaia di goccioline d’acqua, umidità condensata che non viene assorbita dalla roccia, e crea questo effetto di patina argentata e riflettente, come un catadiottro.

La sera, poi, qui sotto, c’era una festa di matrimonio. Era nel ristorante di fianco a quello scelto da noi (ma in tutto sono quattro, quindi saremmo stati comunque vicini), ed era una festa piccola, per gli standard di qui: poche decine di invitati, disc jokey e non suonatori veri (l’altra volta che eravamo a Creta ci è capitato di partecipare a una festa di matrimonio media, con circa seicento invitati e l’orchestra). Però l’atmosfera era comunque quella della festa, con tutti a ballare e la musica sino a tarda notte, e il raki che scorre a fiumi (anche per noi, perché veniva offerto a tutti i dintorni). Io mi sono addormentato con la finestra chiusa, perché la musica continuava e continuava.

C’era un po’ di rock anni settanta (gli sposi non erano giovanissimi) e molta musica cretese, ovviamente. Ascoltandola mi veniva da pensare che c’è una strana analogia con la musica indiana. Non tanto ritmicamente, armonicamente e melodicamente, perché da questi punti di vita la parentela è piuttosto con il medio oriente (e in maniera nettamente più forte della musica greca del continente). L’analogia sta piuttosto nel circolo ipnotico che questa musica crea in chi la ascolta, costruendo più l’immersione che l’ascolto frontale – che è un po’ l’effetto che producono anche i raga, specie quando durano più di quaranta minuti (e anche qui le lunghe durate sono abbastanza la norma). Si entra nel flusso e si ondeggia al suo interno, interminabilmente. Il tempo viene sospeso, e tutto ritorna, ritorna, però sempre leggermente diverso…

Adesso è mezzogiorno. Nel pomeriggio andiamo a fare una passeggiata sull’altipiano, e poi andiamo a sentire il concerto di un suonatore di lira, che è un piccolo strumento ad arco tradizionale e molto usato qui.

A presto.

P.S. Questo stava davanti ai miei occhi mentre scrivevo:

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Diario di Creta. Per iniziare: quarto giorno

Cercare di cogliere qualcosa del senso di un paese: forse è questo il senso di una riflessione come quella che può essere contenuta in un post. In realtà non ci sarebbe ragione di riflettere; la vacanza sembra fatta apposta per evitare di farlo. Lasciarsi andare, lasciar trascorrere i giorni senza il pensiero di impegni, e una riflessione è già un impegno. Ma non può essere un progetto, se non genericissimo. Non sono qui alla ricerca di qualcosa. In ogni caso lascio che le cose vengano a me. Io mi limito a creare le condizioni affinché questo succeda, e poi, a posteriori, potrei riflettere a partire dalle cose stesse, e vedere cosa succede.
Oggi lunga camminata. Da Kato Zakros, sulla costa orientale di Creta, dieci chilometri di sentiero sulla scogliera sopra il mare per arrivare a Xerokambos, che è un po’ più a sud. Sole, vento, mare sotto, cespugli spinosi, terra rossa, rocce e sassi bianchi: un meraviglioso senso di desolazione (certo, è necessario non doverci vivere in mezzo). E poi a un certo punto una baia a strapiombo con un mare così azzurro che sembra incredibile. Si scende per un solo passaggio, abbastanza avventuroso. Sotto, persino i sassi grigi sembrano un po’ azzurri, magari per contrasto con la terra rossa che sta sopra, nella parete scoscesa. Niente vento, lì sotto. Una volte tolte le scarpe, il bruciore dei sassi è insopportabile. Ma l’acqua è bellissima e fresca, e come lava via il sudore, mentre la maglietta stesa sui sassi sotto il sole si asciuga con incredibile rapidità!
A Xerokambos c’è un’immancabile taverna. Il frapè che ho ordinato termina prima che io possa capire che sapore abbia: e poi segue un primo bicchiere d’acqua e un secondo e un terzo e pure un quarto. Mi accorgo che forse mi ero un po’ disidratato, nonostante durante il percorso (3 ore) avessi bevuto molte volte.
Solo a questo punto si può ipotizzare di mangiare. Il ragazzo che ci serve e che ci ha portato il menù, alla prima domanda su cosa c’è ci dice di aspettare un minuto che chiama la mamma, che è anche la cuoca. E poi la signora ci fa un breve elenco che comincia con “dolmadiakia”, che è esattamente quello che volevo io; più una birra, che contribuisce alla reidratazione.
Mangiamo, e poi ci prendiamo ancora tempo. Ellenikò cafè, ena metrio, ena skieto. Il nostro greco è basic, ma l’essenziale per il bar c’è. Poi, con il conto, arriva anche il carpusi, cioè l’anguria, che qui è un tipico omaggio della casa a fine pasto (del resto, ieri, in un paesino sperduto della costa sud, passava un furgoncino della frutta, e l’altoparlante gridava tria carpusi pende euro, cioè tre angurie cinque euro, e le angurie erano enormi).
Passano pochissime auto, e questo ci preoccupa, perché il programma è fare l’autostop sino a Zakros, in alto, e poi ridiscendere a Kato Zakros a piedi per il sentiero della Gola del morto. Sotto il sole delle 15 prendiamo la strada in salita, sino a vedere dall’alto un’altra gola (quella di Xerokambos, ovviamente). Camminiamo una mezz’ora. Le due auto che passano andando nella nostra direzione ci ignorano, ma la terza si ferma. Ci sono tre ragazzi greci chiacchieroni, specie lei (ateniese, ma il padre di lì), che ci portano non solo su, ma proprio all’ingresso della gola.
Scendiamo in questa sorta di paradiso terrestre, con il ruscello che scorre tra i platani e gli oleandri fioriti. Al sole fa caldo, ma all’ombra è meraviglioso – e comunque la brezza non smette.
Ma a un certo punto smette l’acqua. C’è un ultima pozza, bella piena, da cui l’acqua non esce, e il resto del corso è asciutto. C’è anche meno ombra, e la gola non finisce mai. Sono 5 chilometri di percorso non difficile ma un po’ accidentato e quindi un po’ lento. Ma alla fine – saranno le 6 – finalmente siamo poco lontani dal mare. C’è uno stradello, e poi, per arrivare alla spiaggia, un breve percorso (saran 100 metri) sotto un pergolato di vite quasi matura; alla fine la fontanella di acqua (quasi) fresca.
Ieri, per arrivare da Matala a qui, abbiamo fatto tutta la costa meridionale di Creta, privilegiando stradelli e stradine. Un paio di volte ci siamo anche persi. Ma tanto qui una taverna c’è da qualsiasi parte, anche nel posto più sperduto dell’altopiano. Bello l’altopiano qui sopra. Pare ci sia (non l’abbiamo vista) pure una cittadella veneziana, i cui abitanti per andar d’accordo con i nuovi dominatori turchi si erano convertiti. Probabilmente così, da bravi veneti, potevano continuare a commerciare.
Oggi è giovedì. Siamo a Creta da lunedì pomeriggio. È quindi il quarto giorno.
Dei libri che sto leggendo avremo occasione di parlare, suppongo.
Kalinichta

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di Daniele Barbieri

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