Da “Scuola di fumetto” n.97-98, 2015: Lezione da Spirit di Will Eisner

Ho pensato di ripubblicare qui, a distanza di due anni, gli articoli già usciti sulla rubrica da me curata, “Figure cifrate” sulla rivista di Laura Scarpa, Scuola di fumetto. Così, a questa distanza di tempo, non le faccio più concorrenza, e magari le faccio invece un po’ di meritata pubblicità. Continuerò con periodicità bimestrale, come quella della rivista, in modo da mantenere il distacco temporale.

Will Eisner, The Spirit 20.06.1948 frontespizio originale

Will Eisner, The Spirit 20.06.1948 frontespizio originale

Will Eisner, The Spirit 20.06.1948 frontespizio dellla ristampa in bianco e nero degli anni Sessanta

Will Eisner, The Spirit 20.06.1948 frontespizio della ristampa in bianco e nero degli anni Sessanta

Settantacinque anni dalla sua prima apparizione e dieci anni dalla morte del suo autore sono una buona accoppiata di ricorrenze per ridare un’occhiata a The Spirit, e concentrarci, nella fattispecie, sulla tavola di apertura dell’episodio del 20 giugno 1948. Come è noto, The Spirit usciva settimanalmente dal 1940 come una sorta di comic book (il formato era quello) però allegato all’edizione domenicale di un quotidiano, invariabilmente 7 pagine a colori, con una storia autoconclusiva – che in pochi casi aveva un seguito la settimana successiva. È un fatto noto che la crisi del fumetto di supereroi nel dopoguerra aveva progressivamente coinvolto anche The Spirit, seppure con tempi molto più lunghi, così che sul finire dei Quaranta Eisner aveva progressivamente delegato sempre di più il disegno ai collaboratori dello studio, sino a chiuderlo nel 1952. Nell’interregno tra il ’52 e il 1978, anno di rinascita di Eisner come fumettista pubblico, e anno di fondazione ufficiale del formato graphic novel proprio con il suo A Contract with God, Eisner non viene però dimenticato. Ci pensa il suo già collaboratore Jules Feiffer, nel frattempo assurto a sua volta alla fama come satirista, a far ristampare The Spirit, a partire dagli anni Sessanta, ma nella versione in bianco e nero, più economica e più rispettosa dello stile del maestro.

La tavola che analizzeremo viene qui mostrata in due versioni. Quella grande, in bianco e nero, proviene dalla riedizione Kitchen Sink del 1987; quella piccola, a colori, dall’edizione originale. Proprio avendole avute casualmente l’una a fianco dell’altra mi sono reso conto delle differenze, e ho poi verificato che queste differenze non sono occasionali: sono diversi infatti i casi di aggiustamenti tra la versione originale a colori e la riedizione in bianco e nero (non so se già la riedizione Feiffer dei Sessanta, come suppongo, o solo quella Kitchen Sink). Si potrebbe ipotizzare che, ripubblicando, Feiffer o magari Denis Kitchen abbiano colto l’occasione per un recupero filologico di un originale all’epoca menomato per esigenze di pubblicazione. Ma ritengo piuttosto che sia stato lo stesso Eisner, al momento ben vivo e attento curatore dei propri interessi, a proporre delle modifiche, ritenendo l’originale carente (come nei casi di ridisegno completo della pagina) o semplicemente inadatto, così com’era, per la pubblicazione in bianco e nero – essendo stato concepito a suo tempo per il colore.

In questa seconda ipotesi, è davvero interessante il confronto tra le due versioni, perché rende ancora più esplicito l’intento della pagina, e più completa e acuta la spettacolarizzazione narrativa.

Si osservi che nell’originale a colori è presente la testata, la quale conduce naturalmente l’attenzione verso destra, alla fine della lettura del titolo, punto da cui ha inizio la sequenza di ripetizioni dell’insegna SPIRIT, progressivamente poi più grande e vicina, con un andamento da destra verso sinistra, inverso a quello della testata. Sulla quarta ripetizione dell’insegna si inseriscono i due personaggi, una coppia di gemelli identici, dei quali solo uno parla. La stessa coppia ritorna, maggiormente in evidenza, sulla quinta ripetizione, mentre la sesta ripetizione dell’insegna è ortogonale alla quinta, e ripristina il movimento verso destra. C’è adesso una specie di fossa in muratura, con una scala; la direzione della luce è invertita, da destra anziché da sinistra (mentre l’insegna non ha ombra); sul fondo il gemello che parla appare solo e nel suo discorso le parole BLOODLESS MURDER (omicidio senza sangue) hanno un particolare rilievo. Tutto questo su fondo bianco e vuoto.

Nella versione in bianco e nero questo medesimo sfondo si trova striato da una serie di linee in prospettiva, che enfatizzano l’uniformità dello spazio, e la relazione prima/dopo delle varie occorrenze dell’insegna. Poiché non c’è più la testata a condurre l’attenzione al punto di partenza giusto, le occorrenze più lontane dell’insegna non vengono infatti in sé percepite come precedenti a quelle più vicine. Il punto di attacco percettivo, per iniziare, sembra essere piuttosto il primo balloon del gemello di sinistra. Oltre alle linee esplicite di fuga, Eisner introduce perciò un secondo fulcro di interesse in alto a sinistra: una processione di macchie, poi interpretabili come macchie di sangue, che dall’alto si avvicina, ingrandendosi, a noi. La presenza di questa serie affianca la serie delle insegne, e presto si spiega ulteriormente come corrispondente visivo del racconto che viene fatto nei balloon.

In basso, la fossa in muratura ha perso il triangolo d’ombra sulla destra, in modo da permettere la vista della colata del sangue lungo la parete, colata che prosegue sulle scale sino a fermarsi all’altezza di un corpo che ha appena risalito faticosamente quelle medesime scale. Ancora più a destra è comparso un cartiglio, che riprende le parole del personaggio in forma parodisticamente più burocratica, poliziesca, secondo una modalità familiare ai lettori della serie.

Tutte e due le versioni mostrano come si possa trasformare lo spazio (bi- o tridimensionale e senza vettori intrinseci) nel tempo (monodimensionale e intrinsecamente direzionato). Nella prima c’è una sorta di costruzione a Z, basata sulla ripetizione dell’insegna SPIRIT nella testata in alto e nell’immagine, e della figura del box, due volte nella testata e in basso nell’immagine. Nella seconda c’è invece una progressione duplice, dall’alto a destra verso il basso a sinistra, insieme all’allargamento prospettico della situazione focalizzata. La diagonalità è cruciale in ambedue i casi, ma nella seconda versione diventa irrilevante l’inversione di direzione.

Si noti che non sarebbe stato necessario cancellare l’ombra sulla destra, nella fossa, per lasciar vedere la colata di sangue. Se essa viene cancellata è piuttosto per minimizzare o nascondere l’inversione della direzione della luce, che ora non ha più senso (rimane, sì, nella posizione dell’ombra del personaggio, ma senza particolare rilievo, e può restare inosservata). Piuttosto, si è creato adesso un piccolo squilibrio grafico, un vuoto sulla destra, che il cartiglio va a riempire, compensando anche la spinta verso sinistra del cadavere che conclude la progressione delle macchie, e fungendo da raccordo con la vignetta che seguirà nella pagina successiva, idealmente in basso a destra rispetto al cartiglio stesso. Adesso, l’angolo creato dai vettori del cadavere e del cartiglio riprende quello, poco più in alto a sinistra, delle ultime due occorrenze dell’insegna: è la metafora del racconto, che è uscito dalla pagina organizzata in vignette (come quella che vediamo qui in diagonale) per arrivare direttamente a noi, qua fuori. Del resto è proprio a noi, qua fuori, che si rivolge, con lo sguardo e con il you, il personaggio che parla.

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I frontespizi di The Spirit e il tempo nello spazio

I frontespizi di The Spirit e il tempo nello spazio

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Ho passato un po’ di tempo a riguardarmi i frontespizi di (ce n’è, per esempio, una vasta collezione online qui, ordinati dalla fine, 1952, verso l’inizio, 1940), lasciandomi andare alle libere associazioni di un antico lettore di fumetti. Il risultato è almeno in parte documentato dalle immagini a corredo di questo articolo.

Ce n’è un primo gruppetto in cui affianco un frontespizio del 1940 a una tavola di del 1980. Non c’è bisogno di sottolineare le differenze, che saltano all’occhio. È invece interessante osservare che (e siamo a pochi mesi dall’apertura della serie) introduce una tecnica che permette la composizione sequenziale della tavola secondo una logica che non è quella canonica delle vignette: nello specifico, la lettura della didascalia sotto la testata introduce al titolo , il quale si collega, attraverso il braccio levato che afferra l’ultima lettera, alla ragazza bionda, il cui sguardo conduce allo scimmione vestito in primo piano, che si appoggia sul piano di una banchina che è lo stesso su cui agiscono i due personaggi con cui inizia davvero il racconto, all’interno di una quasi-vignetta, i cui limiti vengono suggeriti da quelli della situazione narrativa e da quelli del rettangolo della dida che la sovrasta.
Analogamente, nella pagina di Toppi la direzione alto-basso e varie linee che costituiscono altrettanti impliciti vettori conducono la lettura.

Eisner_Toppi

C’è un secondo gruppetto, in cui affianco due frontespizi del 1947 e ’48 a due tavole rispettivamente di Gianni De Luca e di . Qui la tecnica è leggermente diversa: c’è un quadro spaziale generale, sopra il quale le medesime figure ricorrono più volte, senza che possano sorgere dubbi sul fatto che non sono compresenze di personaggi diversi, bensì ripetizioni dei medesimi. Sappiamo l’uso straordinario che ha fatto De Luca di questa tecnica nella sua trilogia shakespeariana del 1976,  ed è suggestivo riflettere sul fatto che la rivista Eureka inizia a pubblicare regolarmente The Spirit in Italia nel 1969.
Guarda caso gli esperimenti sia di Toppi che di De Luca iniziano qualche anno dopo. E questo lascia anche capire come non ci sia bisogno di scomodare davvero De Luca per individuare l’ispirazione dell’uso di questa tecnica da parte di Miller nel 1990…

Prosegue qui, su Lo Spazio Bianco

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Gli anni nascosti di Will Eisner

Gli anni nascosti di Will Eisner

Giovedì 24 settembre sarò a S.Marino a parlare a un convegno sull’uso didattico dei fumetti nell’educazione sanitaria. Ci saranno con me Otto Gabos e Sara Colaone, che sul tema diranno di sicuro cose più strettamente pertinenti di me. Io ho pensato di cogliere l’occasione per studiarmi un poco una serie didascalica un po’ particolare, ovvero quella che Will Eisner realizzò per l’esercito americano dal 1951 al 1971, curando nel suo complesso una rivista che forniva istruzioni per la manutenzione dei veicoli e di altri apparati di uso bellico. Evidentemente il tema non è direttamente pertinente, ma si tratta comunque di una lunghissima serie di fumetti didascalici (fumetti didattici), realizzati da uno dei maggiori maestri dell’arte.

I presupposti sono (più o meno) noti. Will Eisner vive una giovinezza produttiva folgorante, creando a 23 anni (dopo un sacco di altre serie minori) uno dei capisaldi della storia del fumetto, The Spirit, 1940. Lo realizza per 12 anni, poi nel 1952 chiude lo studio e cambia mestiere. Ritorna a fare fumetti negli anni Settanta, quando è già una sorta di mito, grazie anche alle numerose ristampe del suo lavoro degli anni Quaranta. Fa un po’ di fumetti umoristici sparsi, e poi decide che non è quello che gli interessa, e che il fumetto, specie il suo, ha bisogno di una dignità culturale che solo la pubblicazione in forma di libro gli può fornire. E così, nel 1978, pubblica la prima graphic novel, A Contract With God, and Other Tenement Stories, aprendo la strada a un formato che cambierà la storia del fumetto, e a cui contribuirà lui stesso con ben 20 opere, sino alla morte, nel 2005.

Tra questi due periodi di grande fama si stende un ventennio del quale, sino a qualche anno fa, non si sapeva nulla. Poi, nel 2011, c’è stato il volume curato da Eddie Campbell, PS Magazine. The Best of the Preventive Maintenance Monthly (New York, Abrams) (in italiano PS magazine. Il meglio del mensile di manutenzione preventiva, Bao) che ha permesso di leggere una bella scelta di quello che Eisner ha prodotto tra il 1951 e il ’71 (praticamente tutto PS Magazine può essere comunque sfogliato qui).

PS Magazine n.1, 1 June 1951

La storia, da quel che ho capito, è dunque questa. A partire dal 1949 Eisner aveva affiancato allo studio che produceva The Spirit un secondo studio, per realizzare comics sostanzialmente per la pubblicità e cose simili. E’ nella sua veste di responsabile di questo secondo studio…

Prosegue qui, su Fumettologica.

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Recensioni d’annata, 1999. Eisner, storie di uomini invisibili

Eisner, storie di uomini invisibili
Il Sole 24 Ore, 7 marzo 1999

Ha 82 anni, ed è una leggenda da quasi sessanta. Quando, all’inizio degli anni Quaranta, Will Eisner creò The Spirit, creò un prodotto di grande successo e prorompente innovatività. Aspetti avventurosi e aspetti umoristici si sposavano con arguzia, ma quello che colpiva era la finezza della descrizione psicologica dei personaggi, insieme alla magistrale invenzione grafica. The Spirit non ha mai smesso di fare scuola, da allora; e il mondo del fumetto continua a riscoprirlo, generazione dopo generazione.

Fu Eisner invece a smettere di fare fumetti, negli anni Cinquanta, per tanto tempo che sembrava una scelta definitiva. Solo negli anni Ottanta, infatti, la sua vena creativa ritornò a scorrere. Incontrato di persona durante una sua visita in Italia nell’autunno scorso, durante la quale ha partecipato a una serie di dibattiti con il pubblico, Will Eisner dimostrava nello spirito e nell’arguzia la metà dei suoi anni.

Questa seconda fase della produzione di Eisner consiste (oltre che di un fondamentale manuale, tradotto in italiano con il titolo di Fumetto e arte sequenziale) di storie di vita, che hanno per protagonisti persone comuni. E come ogni persona comune, anche queste quando sono viste da vicino rivelano un intero universo di motivi di interesse.

Gente invisibile, realizzato nel 1992, e pubblicato in italiano negli ultimi mesi, raccoglie tre storie di persone che non si vedono, celate dalla loro normalità e dalla loro solitudine nella grande città. Ciascuno di loro fallisce l’occasione per essere un po’ meno invisibile, non per nequizia o sfortuna, ma perché, ci sembra dire Eisner, nella grande città l’invisibilità è la condizione normale.

Pincus, che fin da bambino aveva sempre cercato di nascondersi, trova il proprio annuncio mortuario sul giornale. Un errore, certo, ma la catena di conseguenze è devastante per lui.

Morris è un guaritore, con un potere sanatorio vero. Ma l’unica strada che le circostanze gli permettono di seguire, suo malgrado, è quella del ciarlatano.

E il bibliotecario Herman, che nonostante la mezza età vive con la madre, si ritrova innamorato e costretto a scegliere tra due situazioni, adesso, entrambe frustranti.

Se cercate eroi, nei fumetti, questo non è certamente il libro per voi. Ma se cercate uno specchio di voi stessi (che è ciò che la letteratura sa costruire meglio di tutto – indipendentemente dal linguaggio con cui viene realizzata), queste storie, raccontate con la vena di ironia che ci permette di guardare ad occhi bene aperti anche i drammi più neri, sono un sincero e attento campione.

 

Will Eisner
Gente invisibile
Editrice PuntoZero, Bologna, 1998
pp. 120, £.18.000

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Dei settant’anni di The Spirit

Will Eisner, The Spirit, 1948

Will Eisner, The Spirit, 1948

Su Lo Spazio Bianco, Marco D’Angelo ci ricorda che quest’anno ricorrono i 70 anni dalla nascita di The Spirit. Lo fa scegliendo il tema della maschera, quell’orpello ridicolo che Eisner mette sul viso del suo personaggio perché in qualche modo gli viene imposto – ma poi, come ci spiega bene D’Angelo, diventa il simbolo stesso della natura grottesca delle storie di The Spirit.

Settant’anni sono tanti e sono pochi. Io scoprii The Spirit sulle pagine di Eureka, verso la fine degli anni Sessanta, mi pare, o poco dopo – intorno ai suoi trent’anni, insomma. Essendo io molto giovane, molto più giovane di lui, mi pareva che provenisse davvero da un’altra epoca; ed era così differente da tutto quello che si pubblicava in quegli anni a fumetti in Italia, che pareva che provenisse anche da un altro mondo. Eisner non produceva più fumetti da quasi vent’anni, e non avrebbe ripreso per ancora quindici. Nella mia ignoranza, io pensavo che fosse morto, o vecchissimo.

The Spirit dichiarava la sua alterità in tutto. Fumetto di un’altra epoca e di un altro mondo, era però stupefacente per la sua originalità anche rispetto a quel poco che sapevo della sua epoca e del suo mondo. Io, come tutti, credo, ero innamorato dei suoi frontespizi. Ancora venti anni dopo, ne I linguaggi del fumetto, ne ho fatti riprodurre parecchi, perché la fascinazione di quei frontespizi non era (non è) diminuita.

Il secondo Eisner, quello delle graphic novel, ci ha mostrato un altro mondo ancora, più maturo, più colto – ma forse un pelino più retorico. The Spirit colpiva, appassionava, divertiva anche chi – come me – non conosceva il mondo degli eroi pulp che erano il suo obbiettivo sarcastico diretto.

Questo è interessante: un fumetto (o un qualsiasi tipo di racconto, letterario, cinematografico…) che nasce come parodia di un genere, ma che riesce a colpire anche chi non conosce quel genere! Certo, in seguito, conoscendolo, e conoscendolo sempre di più, The Spirit diventava forse ancora più godibile; ma l’inprinting c’era già stato.

Diciamo che, forse, senza quelle storie di Eisner pubblicate nella rivista di Luciano Secchi, avrei avuto meno motivi per appassionarmi ai fumetti. Magari mi sarei occupato d’altro. Magari oggi terrei un blog di astrofisica o di gastronomia, che avrebbe 10 lettori, o magari 10.000. E magari è stato così come per me anche per tanti altri…

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Di Will Eisner e della stilizzazione espressiva

Colgo l’occasione del dialogo seguito al mio post precedente (Della comunicazione visiva e della lista) per ricollegarmi ai temi di un libro importante appena uscito: è il libro di Will Eisner, L’arte del fumetto. Regole, tecniche e segreti dei grandi disegnatori (a cura di Fabio Gadducci e Mirko Tavosanis, BUR Rizzoli). Si tratta dell’edizione italiana congiunta di due libri diversi (ma evidentemente collegati) nei quali Eisner spiega le regole di base dell’arte sequenziale, ovvero della letteratura a fumetti. Per chi fa fumetti o aspira a farne, è una lettura obbligatoria. Per chi li legge con un interesse che vada al di là della risata o del sapere come va a finire la storia, è comunque una lettura fortemente consigliata – e anche piacevole, non foss’altro che per l’ampia quantità di esempi (anche storie intere) che vi vengono presentati.

Nel dialogo con Stefanelli e “un ospite”, quello che emerge è il tema della semplificazione, o meglio stilizzazione. Alla fine sembra che ci ritroviamo tutti d’accordo su questa frase: “da un lato si deve poter riconoscere con facilità i personaggi e le situazioni, dall’altra essi devono rimanere espressivi e vivaci”. Il manuale di Eisner è molto ricco, ma lo si potrebbe riportare, come morale di fondo, proprio a un principio di questo genere: da un lato il fumetto richiede una stilizzazione grafica e narrativa di personaggi e situazioni che permetta al suo lettore di riconoscerli (sia come esemplari di una casistica nota, sia nelle loro varie ricomparse nella sequenza di una vicenda narrata a fumetti); dall’altro, senza una complessità espressiva sufficiente non si producono fumetti interessanti.

Il principio non riguarda solo il fumetto. In ambito narrativo troviamo da sempre la stessa polarità tra stilizzazione ed espressività. Ma è interessante osservare che in ambito visivo il problema inizia a porsi con maggiore decisione nel corso dell’Ottocento, proprio quando la diffusione di una cultura visiva di massa (nella stampa e nella comunicazione aziendale) segna un punto di svolta rispetto alla visività tradizionale, espressa soprattutto attraverso la pittura e le belle arti in genere.

Non che in pittura il problema non si ponga, ma un oggetto visivo che deve rispondere sostanzialmente a una limitata committenza può contare su una specificità di competenze su cui non può contare un oggetto visivo pensato per una fruizione di massa. Sappiamo bene che il limite della stilizzazione grafica possibile è rappresentato dalla parola scritta: qualunque parlante italiano legga (per esempio) queste parole scritte, le riconosce al medesimo modo (poi magari le interpreterà in mille modi diversi, ma questo non è più un problema di stilizzazione visiva). I marchi aziendali che iniziano a diffondersi dalla fine dell’Ottocento tendono a una stilizzazione/standardizzazione di questo genere: vogliono essere una sorta di “parole visive”, che rimandano direttamente e univocamente all’azienda che rappresentano. Il linguaggio della pubblicità, che inizia a diffondersi in quei medesimi anni, nella misura in cui esibisce componenti visive (quelle verbali sono state per parecchio tempo dominanti), gioca su queste medesime stilizzazioni e immediate riconoscibilità.

Graficamente, il fumetto (e tutti i suoi predecessori ottocenteschi di letteratura per immagini) nasce e si sviluppa in un contesto di questo genere, e i suoi autori delle origini sono ben consapevoli del fatto che i loro personaggi possono diventare dei veri e propri marchi, immediatamente riconoscibili, purché siano progettati opportunamente. Questo aspetto è indubbiamente presente nel progetto di Yellow Kid (e in particolare di Buster Brown), ma anche dei Katzenjammer Kids, di Little Tiger e di Mutt & Jeff.

Ma non è questo l’unico motivo per cui il disegno del fumetto nasce in questa forma così semplificata. L’immagine stilizzata e facilmente riconoscibile permette una lettura più veloce, e quindi una scansione ritmica del testo che sarebbe messa in forte difficoltà da immagini più realistiche e più incertamente riconoscibili. Su questa dimensione ritmica del racconto a fumetti Eisner insiste diffusamente: una buona scansione ritmica è il requisito essenziale di una storia di qualità, ancora di più della qualità grafica delle immagini.

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier -2

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier - 2

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier - 3

L'analisi del disegno dei Peanuts di Guy Gauthier - 3

Un esempio straordinario, più vicino a noi, di quanto la stilizzazione grafica abbia contribuito al successo e alla qualità di una serie a fumetti (e anche, va certamente detto, al suo sfruttamento in termini di branding) è quello dei Peanuts di Charles M. Schulz. C’è un articolo del 1976 (“Les Peanuts: un graphisme idiomatique” Communications, 24) in cui Guy Gauthier mostra come le figure dei personaggi dei Peanuts possano essere costruite articolando un piccolo numero di elementi grafici, corrispondenti alle teste, ad alcuni tipi di espressioni facciali, ad alcune posizioni del corpo e delle sue estremità, secondo un procedimento di articolazione che ricorda quello del linguaggio verbale. Ne otteniamo una sorta di grammatica grafica dei Peanuts, ovvero un sistema degli elementi di base e delle combinazioni permesse e vietate.

Seguendo questa metafora sino in fondo (e anche oltre le intenzioni di Gauthier) si potrebbe pensare che i Peanuts siano un sistema di scrittura, dove poi tutta la ricchezza interpretativa (che, come sappiamo, è in questo caso enorme) si dispiega al livello del significato – proprio come con la scrittura verbale: le parole sono in numero limitato, e si possono combinare in un numero limitato di modi; quello che si legge è, al livello del significante, immediatamente comprensibile e semplicissimo; tutta la complessità e la ricchezza semantica si dispiegano a livello del significato.

Le cose, di fatto, non stanno sempre così neanche con la scrittura verbale, nel cui ambito la dimensione poetica costituisce già un controesempio. Ma neppure il disegno dei Peanuts può essere davvero ridotto alla grammatica di Gauthier: per quanto Schulz giochi il più possibile sulla semplificazione e standardizzazione, già le stesse variazioni minime del suo segno grafico producono differenze espressive enormi. E se invece di Schulz prendiamo Floyd Gottfredson come oggetto di analisi, non solo la “grammatica” di base diventa talmente complessa che non vale la pena di descriverla, ma sono soprattutto gli scarti espressivi rispetto alle regole a farcelo apprezzare e amare: Mickey Mouse va rappresentato certamente in questo e questo modo (anche perché è – lui più di tutti – un marchio), tuttavia, una volta fatta salva la riconoscibilità, è l’espressività grafica che conta! Questo, ovviamente, non taglia fuori tutta quella complessità che appartiene alla dimensione del significato e che, come abbiamo visto, caratterizza la scrittura verbale: essa ci può essere anche qui, nel medesimo modo, ma è anticipata, percettivamente, da una complessità espressiva di carattere grafico che la parola non può avere (se non nelle sue dimensioni calligrafiche, o di tipografia espressiva – ma con modalità molto diverse, e non ne parleremo qui).

Eisner appare, nel suo libro, ugualmente preoccupato di costruire la riconoscibilità (attraverso forme di stilizzazione e standardizzazione) e di garantire l’espressività (attraverso opportune deviazioni dalla norma). Comunque sia, il realismo, o naturalismo, rimane del tutto fuori gioco: una storia che ci appare come realistica è una storia che si basa su delle stilizzazioni che noi riconosciamo perché sono le stesse che applichiamo al mondo reale per comprenderlo; e che poi si allontana da quelle stilizzazioni in una maniera che è grosso modo imprevedibile quanto lo è la realtà rispetto alle nostre aspettative – in altre parole, che è imprevedibile in misura che possiamo prevedere e accettare. Se ci si allontana da questo standard si va o verso il noioso (l’eccessivamente prevedibile) o verso il difficile (l’eccessivamente imprevedibile).

Tutte le raccomandazioni di Eisner vanno verso la ricerca di questa difficile via di mezzo. E il libro è, proprio per questo, prezioso – anche se non tutte le sue affermazioni vanno prese come oro colato. Per esempio, da qualche parte Eisner raccomanda di non usare i balloon collegati per far dialogare di personaggi nella medesima vignetta. Gli esempi che propone sono convincenti. Ma noi sappiamo bene che, per esempio, Andrea Pazienza è riuscito a ottenere effetti di grande espressività proprio con questa tecnica. Evidentemente esistono dei casi, sfuggiti all’esperienza di Eisner, in cui la si può utilizzare con profitto.

Allo stesso modo, è anche possibile rendere il gioco più complesso di quello di Eisner dal punto di vista grafico: il lavoro di Muñoz e Sampayo di cui ho parlato pochi giorni fa qui ne è un esempio. Tuttavia il lavoro grafico di Muñoz non è un esempio di realismo: la stilizzazione è in opera, e fortemente, pure lì. Anzi, la sua deviazione grafica appare così fantasticamente espressiva proprio perché si basa su una stilizzazione evidente.

Insomma – e questo lo dico in particolare agli autori esordienti che devono leggere questo libro – i principi di base della proposta di Eisner sono quelli cruciali. Sulla loro applicazione specifica bisogna invece ragionare. Eisner ha trovato un modo esemplare di applicarli; ma esistono molti altri modi per farlo.

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di Daniele Barbieri

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