Un topo cattivo aiuta Telefono Azzurro
Il Sole 24 Ore, 4 febbraio 1996
Quando un tema è così drammatico e intenso come la violenza sui minori, è fin troppo facile cadere nell’eccesso e nella retorica dei buoni sentimenti e del rispetto. E’ facile scambiare moralità e moralismo, e credere che una qualsiasi storia di condanna possa essere una buona storia. Il tema, trattato da autori mediocri, diventa facilmente un tema “di tendenza” come tanti altri, e la condanna morale, affidata ad un testo noioso, appare come l’ennesima ripetizione di un copione ribadito ossessivamente dai media.
Non che se ne parli troppo, certo: di violenza ai minori non si parlerà mai abbastanza. Il fatto è che, per quanto importante e tragico sia, qualsiasi problema, qualsiasi dramma troppo ripetuto ci rende ciechi e sordi nei suoi confronti, a meno che il modo in cui ci viene presentato non sia in grado di risvegliare il nostro interesse. Per quanto cinico questo possa apparire, il mondo delle comunicazioni di massa funziona così.
La pubblicazione in italiano de “La storia del topo cattivo” di Bryan Talbot è per questo una molteplice occasione di interesse. E’ una storia sull’adolescenza e sul riscatto dalla violenza subita, affrontata con delicatezza e originalità; è una storia che varrebbe la pena di leggere anche se il suo tema non fosse quello che è; ed è una storia a fumetti, che segna il ritorno di un grande autore inglese a temi più specificamente suoi – dopo anni di, pur spesso notevolissime, produzioni seriali americane.
Di Bryan Talbot abbiamo parlato ancora, nel 1993, quando uscì in italiano Luther Arkwright, prototipo di un’avanguardia fumettistica britannica (l’originale inglese è dei primi anni Ottanta) con poco da invidiare alle avanguardie letterarie o artistiche. La storia del topo cattivo, invece, non ha nulla di avanguardistico: è una storia scritta e disegnata per essere letta anche da persone non abituate a frequentare i fumetti. Vi si racconta di una ragazza fuggita di casa, dopo anni di abusi sessuali da parte del padre, alla ricerca di qualcosa che nemmeno lei sa; o alla ricerca della forza, della consapevolezza per affrontare la situazione, e risolvere il nodo pauroso, l’angoscia e il senso di diversità e di colpa che le impediscono di vivere.
Il suo nome è Helen Potter, e la coincidenza con il nome di Helen Beatrix Potter è il secondo motore della storia. Helen vive la propria storia attraverso l’immaginario della sua più famosa omonima, copiandone i disegni e il senso ambiguamente tenero e tragico della vita. Troverà una via d’uscita dal suo dramma proprio attraverso i simboli dei personaggi della Potter. Troverà la forza di affrontare il padre quando, in qualche modo, si sarà ricongiunta con i simboli della propria infanzia.
Anche il disegno è un oggetto interessante, in questo “Topo cattivo”. Nessun virtuosismo, nessuna fuoriuscita da un realismo narrativo dall’apparenza semplice, elementare. Eppure un disegno del tutto fuori tendenza, di estrema efficacia persino quando i personaggi rappresentati ricordano in qualche modo (sempre discreto) gli animaletti della Potter. Il dramma della ragazza ne esce descritto con intensità, senza che mai si abbia l’impressione che l’immagine voglia impadronirsi di quello che la storia ci dice.
Pubblicato con il patrocinio del Telefono Azzurro (cui è destinata una parte dei ricavi delle vendite) “La storia del topo cattivo” è una miniserie di quattro albi, in vendita nelle edicole e nei negozi specializzati.
Bryan Talbot, La storia del topo cattivo, Phoenix, Bologna
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