Recensioni d’annata, 1992. Intellettuali a fumetti

Intellettuali a fumetti
Il Sole 24 Ore, 6 dicembre 1992

Nella pletora di pubblicazioni precotte e riscaldate che caratterizza l’editoria americana a fumetti, accanto a un numero non particolarmente ampio di produzioni cucinate a puntino, si distingue una rivista in cui abbondano i piatti crudi, con una nouvelle cuisine fumettistica particolarmente invitante. Si tratta di Raw, un magazine newyorkese dalla periodicità incerta, dalla evidente cura artigianale, rivolto esplicitamente (e ironicamente) ai “damned intellectuals” della Grande Mela e del resto del mondo. In Italia Raw non è facile da trovare, ma vale la pena di parlarne lo stesso. Oltre che per le sue qualità, vale la pena di parlarne perché ultimamente si è molto parlato del suo direttore e fondatore: Art Spiegelman.

Art Spiegelman è l’autore di Maus, un romanzo grafico il cui secondo volume è stato recentemente pubblicato in italiano dalla Milano Libri (e recensito su queste pagine alcune settimane fa). Con Maus, Spiegelman ha creato un’opera piena di fascino e culturalmente importante, ma ha anche costituito un precedente, sia negli Stati Uniti che in Italia: là come qui Maus è stato il primo libro a fumetti che stampa e pubblico hanno trattato con lo stesso tono con cui normalmente trattano i romanzi, invece che con l’accondiscendenza un poco ironica che viene spesso riservata a queste pubblicazioni. Storia drammatica dell’olocausto ebraico, storia ironica (e un po’ tragica) del rapporto con un padre chiuso nel proprio mondo, storia di un’umanità brulicante e resa ancor più umana dall’aver assunto l’aspetto di piccoli animali (topi, gatti, maialini, cani), Maus merita tutti gli elogi che gli sono stati fatti, e un successo presso il pubblico italiano come quello (notevole) cha ha già avuto in America.

Anche se il suo autore non è molto conosciuto al grande pubblico – e non lo era nemmeno a quello americano – Maus non è un opera prima. Spiegelman è arrivato a concepirlo e realizzarlo (con impegno e fatica) dopo una lunga militanza nel fumetto underground, e dopo molti precedenti, anche se nessuno di una portata paragonabile. Inoltre, non è davvero un caso che sia stata quest’opera la prima a uscire dal ghetto culturale in cui sono di solito relegati i comics negli USA. Se c’è qualcuno in America che ha creduto nel fumetto come strumento di espressione artistica di grandi potenzialità, e che ha lavorato e combattuto per diffonderne l’idea, questo è proprio lui. E Raw è stata la sua spada.

Quando Raw è nata, nel 1980, il fumetto underground americano si trovava già da tempo su un lungo, lunghissimo viale del tramonto. Negli anni sessanta e settanta l’underground aveva rappresentato la risposta dell’intellettualità di ambiente universitario al monopolio delle grandi case editrici di fumetti. Negli Stati Uniti, il fumetto che non fosse comic strip, cioè che non fosse di quel genere che si trova pubblicato ogni giorno sui quotidiani, era (ed è tuttora) in larga parte fumetto di supereroi. Sino a tutti gli anni settanta, il pubblico dei fumetti di supereroi era certamente tutt’altro che acculturato, o polemico nei confronti della società. Così, degli outsider come Robert Crumb (“Fritz the Cat”) e Gilbert Shelton (“The Fabulous Furry Freak Brothers”) trovarono un pubblico per i loro disegni e le loro storie dissacranti in quell’ambiente studentesco da cui essi stessi provenivano: un ambiente insofferente, contestatore, pacifista, ecologista ante litteram, talora non lontano dal movimento hippy.

Contro la logica dei monopoli editoriali, il fumetto underground veniva stampato e prodotto artigianalmente, diffondendosi e facendosi conoscere più tramite il tamtam personale degli ambienti studenteschi che non avvalendosi di operazioni commerciali vere e proprie. Negli anni settanta il suo successo e il suo peso culturale fu tale da ingenerare una vera crisi nella grande editoria.

Ma l’underground, per quanto intelligente e sarcastico, mancava della raffinatezza necessaria a farsi accettare dalla classe intellettuale americana in un modo che andasse al di là dalla semplice dissacrazione politica o sessuale. E soprattutto si proponeva con discorsi, e modalità di costruirli, diversi da quelli che la cosiddetta “alta cultura” riconosceva come propri. Tanto più significativo, questo, in un ambiente culturale come quello USA, con tutte le sue essenziali ripartizioni e classificazioni accademiche di generi e linguaggi.

Nel 1980 dell’undeground rimaneva tanto poco quanto della contestazione studentesca. I suoi effetti più forti si sarebbero visti, di lì a poco e paradossalmente, proprio su quel fumetto di supereroi del quale aveva già provocato la crisi, ma che in quel momento incominciava a dare chiari segni di ripresa. Raw fu inventata da  Spiegelman, insieme con la moglie Françoise Mouly, con l’idea di una rivista evidentemente underground, per marginalità e provocatorietà, ma molto diversa dalle altre per stile e intensità del discorso. Ambedue i fondatori appartenevano a quello stesso ambiente intellettuale cui si rivolgevano, ma intendevano aprirlo a un modo di comunicare diverso, che non fosse né quello della pittura e delle arti visive né quello della letteratura, ma che potesse ugualmente comunicare con entrambe.

Il risultato è che Raw è da tredici anni oggi una rivista unica al mondo, per qualità e continuità, e rappresenta per molte persone una specie di mito. Spiegelman e Mouly vi hanno alternato autori americani, europei e giapponesi, con una sapiente e calibrata riproposta di classici un po’ dimenticati. Non so quanto dicano ai lettori italiani i nomi di Sue Coe, Jerry Moriarty e Mark Beyer, autori forse un po’ troppo legati a quell’espressionismo crudo ed emotivamente violento tipico di molta arte newyorkese per essere davvero amati in Europa. Probabilmente il nome di Charles Burns è già più noto, vista anche la sua lunga permanenza in Italia e la sua partecipazione al gruppo italiano Valvoline nei primi anni ottanta. Joost Swarte, Ever Meulen e Lorenzo Mattotti sono tra gli europei che compaiono su Raw.

Uno degli aspetti più affascinanti della rivista è la sua alternanza tra autori così diversi. Spesso impressionante è il contrasto – non di rado da una pagina all’altra – tra il caos pollockiano di Gary Panter e l’ironia elegante di Swarte, tra l’intensità narrativa di José Muñoz e l’irriverenza grafica di Pascal Doury, tra la sensualità materica di Mattotti e il concettualismo underground di Kim Deitch. Eppure, l’insieme tiene, senza dare in alcun modo l’idea di un contenitore neutro. La linea intellettuale è chiara e coerente. Complessa, questo sì, come un pranzo di nouvelle cuisine, in cui lo chef accosti sapori tradizionalmente lontanissimi, alla ricerca di nuove relazioni tra loro, e di altri sapori che emergano dalla relazione.

Spiegelman ha trovato questi nuovi sapori. La contaminazione di tragedia e ironia che rende grande il suo romanzo, Maus, mostra altre facce, altri modi di essere, in Raw. Con la sua rivista, questo altro piccolo ebreo newyorkese dimostra di non essere solamente un grande solista, ma anche un sapiente direttore d’orchestra.

Se ne è accorta, tra gli altri, la casa editrice Penguin, che dal 1990 si è presa carico della pubblicazione e distribuzione, dopo dieci anni di ostinato e intenso lavoro casalingo.

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Del freddo e del caldo, o di Chris Ware e Paolo Bacilieri

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 1 e 2

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Chris Ware da McSweeney's Quaterly Concern 2004, pagg. 3 e 4

Tempi di Chris Ware. Tra poco, a Roma, anche giorni di Chris Ware. Sottile, acuto, innovatore, tragico (secondo l’analisi che ne fece Thierry Groensteen a Bologna nel 2004, interrogandosi proprio sul valore del tragico nel fumetto).

Non so quanto ci sia da dar credito alle sue stesse parole, secondo le quali lui non avrebbe tratto nessuna particolare ispirazione dai fumetti pubblicati dopo gli anni Trenta. Certo l’ombra di McCay è quella che aleggia più vivamente sui suoi lavori, anche se altrettanto vivamente mediata da quella di Frank King. Ma credo che, con un pizzico di snobismo, Ware si voglia soprattutto mantenere distaccato dagli universi avventurosi e superomistici che hanno imperversato negli USA dopo gli anni Trenta. Difficilmente si sarebbe verificata altrimenti la convergenza con quella costola particolare dell’underground che è stata la rivista di Art Spiegelman, Raw.

E d’altra parte l’underground stesso in generale, a partire da Crumb, si rifà a quei medesimi anni, e il mondo specifico di Raw non fa eccezione. Un mondo in cui i primi interventi di Ware si inseriscono in piena armonia.

Forse, è proprio questo pizzico di snobismo a impedire a Ware di essere ancora più bravo di quello che è. Mettiamo subito in chiaro che Ware è un narratore di grande qualità, che racconta storie originali dove dimostra un’estrema sensibilità, e che ha un modo ugualmente originale di affrontare la dimensione visiva – anzi, nello specifico, grafica (e una volta tanto l’italiano grafico traduce davvero l’inglese graphic, nonostante le differenze di senso non così trascurabili tra i due). Insomma: è fuori discussione che il suo posto di rilievo nella storia del fumetto Chris Ware ce lo debba avere.

Detto questo, va detto anche il resto.

Chris Ware è un autore gelido. Certo, so benissimo che questa sensazione di controllo intellettuale, enfatizzato dalla parcellizzazione del discorso in percorsi visivi inconsueti che l’occhio è obbligato a seguire, esasperato dalla riduzione di tutte le forme a semplicità geometriche, perentoriamente sancito dalla ripetizione ossessiva di forme che già richiamano a loro volta altre forme circostanti… so benissimo che tutto questo è un espediente narrativo, e che la gabbia dell’ossessività testuale rende magnificamente le ossessioni delle vite raccontate. Di questa poetica (tragica) del controllo Ware è davvero il maestro, e ha davvero inventato nuovi modi per esprimere il senso di una vita tenuta in ostaggio dai vincoli sociali

Però, mamma mia! che freddo! E come sono piccoli quei disegni in cui devo infilarmi anima e corpo, per sentire quella medesima oppressione che vivono i suoi personaggi, per sentirmi io stesso melanconico, ossessivo, devastato. E pure l’ironia, che certo a Ware non manca, è ugualmente nera, priva di speranza, gelata, glaciale.

Solo in apparenza i procedimenti di Paolo Bacilieri (che è pure figlio di quel medesimo underground, se pur di qua dall’oceano, e mediato da Pazienza) assomigliano a quelli di Chris Ware. In Bacilieri, potremmo dire, anche se il mondo è ugualmente brutto e tragico, è proprio l’ironia che ci salva, che ci scalda, che ci produce la risata o il sorriso.

Anche Bacilieri è (per dirla con Spiegelman) un damned intellectual, e probabilmente non meno di Ware. Però non mi viene mai freddo, a leggere i suoi fumetti arzigogolati.

Paolo Bacilieri - La magnifica desolazione, 2007

Paolo Bacilieri - La magnifica desolazione, 2007

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di Daniele Barbieri

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