Strisce d’oltre Manica con vocazione letteraria
Il Sole 24 Ore, 10 gennaio 1993
Chi è o è stato lettore di Jeff Hawke conosce la vocazione letteraria del fumetto britannico. Jeff Hawke, di Sydney Jordan, è un serial di fantascienza che accompagna in forma di strip da quasi quarant’ anni l’ uscita di molti quotidiani dell’ isola e d’ altrove. In Italia, dove la striscia pubblicata giorno dopo giorno non ha mai riscosso grande successo, lo abbiamo conosciuto grazie alla rivista Linus, e alla successiva pubblicazione in una lunghissima serie di volumi.
C’ è un filone visionario, d’ altra parte, nella stessa letteratura britannica, da Shakespeare e Marlowe (e chissà da quanto prima) a Milton, a Blake, a Byron, a De Quincey, a Joyce. Non si tratta di un fenomeno prettamente letterario, o perlomeno non di qualcosa che riguardi solamente la alta letteratura: una vena di fantastico attraversa con un’ intensità non indifferente l’ intero contesto culturale britannico. Attraverso di essa, alta cultura e cultura popolare si ritrovano singolarmente solidali.
Il fumetto, che ha una storica vocazione al fantastico e al visionario, e che nel Regno Unito è arrivato e cresciuto rapidamente (anche grazie all’ identità linguistica con gli Stati Uniti), ha trovato in questa eredità culturale un terreno fertile. Con tradizioni letterarie e popolari che sul tema del fantastico si trovano così vicine, è stato del tutto naturale per il fumetto britannico, a partire da un certo momento della sua evoluzione, accogliere nel proprio universo di riferimento tanta letteratura che in altre tradizioni nazionali rimane di solito lontana dal gusto di un pubblico di massa.
L’ effetto di questo recupero è sensibile soprattutto negli ultimi vent’ anni, ma è rintracciabile anche in numerose produzioni precedenti, come ben sanno gli appassionati di Jeff Hawke. Non è che il fumetto britannico copi o riproduca modi letterari (l’ influsso del cinema rimane di sicuro più evidente); è che la letteratura fa comunque parte del suo background di riferimento in un modo che in altre nazioni si incontra solo in fumetti rivolti espressamente a un pubblico colto. Basta considerare quello che succede negli anni Settanta, quando la americanissima Marvel (Uomo-Ragno, Fantastici Quattro, Hulk…) crea per il mercato locale un supereroe britannico, Captain Britain, e lo affida ad autori locali: persino un simile campione di superomismo americano diventa in Gran Bretagna il malinconico e problematico protagonista di una saga in cui elfi, streghe e buffoni non riescono a perdere una eco di shakespeariana vivacità .
Il momento di particolare successo che il fumetto britannico sta vivendo in questi anni deve molto all’ interesse della cultura americana. Una nutrita schiera di giovani sceneggiatori e disegnatori, che sino a qualche anno fa vivacchiavano in patria senza troppi riconoscimenti, è stata scoperta negli anni Ottanta dal mercato statunitense. Le case Usa più importanti hanno affidato loro parti sempre crescenti della propria produzione, ed essi si sono trovati a realizzare storie di supereroi senza, spesso, essere cresciuti avvolti dal mito di Superman, come accade invece normalmente ai giovani disegnatori d’ oltre oceano. E l’ effetto, sulla produzione americana, si è visto, sia per qualità che per vendite. In questo momento, un’ ampia maggioranza delle serie migliori della Dc Comics è realizzata in tutto o in parte da autori britannici. Il successo americano ha avuto come effetto collaterale quello di rilanciare la produzione nella madrepatria. Fattisi conoscere sugli albi statunitensi, i medesimi autori hanno potuto pubblicare in Gran Bretagna; il mercato si è aperto e ha lasciato spazi anche per autori che, quanto a carattere e tipo di produzione, non avrebbero mai potuto sperare in una cooptazione d’ oltre oceano. Chris Reynolds è tra questi.
In Italia, gli autori britannici sono arrivati per la via traversa del comic book americano, ma su riviste come Corto Maltese e Nova Express è da qualche tempo possibile trovare ampi e interessanti esempi anche di quella produzione che non è mediata dal mercato Usa. Tra i libri, che pure si iniziano a pubblicare, due sono recentissimi.
Uno di questi è un saggio critico sulle tendenze del fumetto britannico contemporaneo, dedicato in modo particolare a quegli autori che si sono imposti sul mercato americano, autori come Alan Moore, Neil Gaiman, Pat Mills, Kevin Ò Neill, David Lloyd, Grant Morrison, John Bolton e altri ancora. Si tratta di Nuvole britanniche, di Federico A. Amico, edito dalla Granata Press di Bologna, un libro preciso e dettagliato, ricco di analisi ancor più che di informazioni. Esce da questo libro un quadro piuttosto chiaro della situazione, anche se forse un po’ troppo focalizzato sui singoli autori cui lo studio è dedicato, mentre restano a margine una serie di aspetti contestuali cui sarebbe forse valsa la pena di dedicare più spazio.
Ne restano per esempio fuori (ma l’ esclusione è dichiarata) tutti gli aspetti un po’ underground della produzione d’ oltre Manica, anche quando si tratti di personaggi significativi come Hunt Emerson di cui qualche anno fa, per qualche tempo, “il Manifesto” pubblicò quotidianamente una striscia esilarante: Calculus Cat. E ne resta fuori Chris Reynolds, l’ autore di Mauretania, da poco pubblicato in Italia da Feltrinelli nella collana “I Canguri”.
Mauretania è il secondo romanzo per immagini di questa collana – che normalmente pubblica letteratura – dopo L’ uomo alla finestra di Lorenzo Mattotti. Con la storia di Mattotti, quella di Reynolds condivide l’accento sulla dimensione interiore, sulle sfumature emotive, sui silenzi e sulle contemplazioni. Diversissimo è invece il carattere grafico dei due testi, perché di fronte alla ricchezza del pennino di Mattotti, agilissimo nell’ esprimere tutti i colori delle emozioni, Reynolds non sembra offrire niente di più che una semplicità di segno che pare sconfinare nella banalità. Ma si tratta di un’ impressione solo superficiale. A mano a mano che si entra nel romanzo, questa essenzialità , questa povertà grafica, diventa progressivamente meno rilevante, lasciando emergere al suo posto il ritmo lento, gentile, profondo, con cui questi segni abbozzati disegnano una vita cui la monotona ripetizione degli atti di ogni giorno non arriva a togliere senso e interesse. Tanto più che quando questa vita uniforme viene smossa dagli eventi che il romanzo racconta, il suo essere raccontata con la medesima povertà di segno lascia il lettore con il dubbio se gli eventi fantastici che l’ hanno movimentata siano in fin dei conti davvero differenti dal tornare a casa, dal parlare con la madre, dall’ avere un lavoro in un ufficio, dallo sposarsi o meno.
Il fantastico – qui nella forma della paradossale relazione tra un minuscolo evento nella campagna inglese e il destino del mondo – non è, per Reynolds, nulla di strano o eccezionale, nulla che richieda spettacolarizzazione o stupore. Di quello che accade in Mauretania sembra non stupirsi nessuno dei personaggi: tutto è sempre, ed è destinato a rimanere, malinconica ma anche serena quotidianità .
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