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Della definizione del fumetto (e di altri media)

Ally Slooper, 1867, dalla voce di Wikipedia

È rispuntata la polemica sulla data di nascita del fumetto, tra Matteo Stefanelli e me, qui. Ma non è di questo che voglio parlare, bensì di un tema correlato, ovvero l’annosa questione della definizione del fumetto. Il tema è correlato perché, se avessimo una definizione sufficientemente affidabile del fumetto, sarebbe assai più facile verificare da quale data in poi esistono testi che vi si attagliano – e il dibattito potrebbe vertere non su opinioni ma sulla verifica di documenti storici concreti.

Ma la definizione sfugge. Anche quella faticosamente costruita da Scott McCloud, “Immagini figurative e d’altro tipo giustapposte in sequenza deliberata mirate a trasmettere informazione e/o a produrre una reazione estetica nel fruitore”, lascia fuori innumerevoli esempi che ancora consideriamo fumetto, e ne ingloba altri che non sono tali (come le istruzioni di montaggio dei mobili IKEA, per esempio). Non è perciò una buona definizione, e non è utilizzabile per tracciare un confine storiografico. In particolare, per non correre il rischio di lasciare fuori degli esempi importanti, è volutamente e consapevolmente generica.

A questo punto abbiamo due strade (senza escludere che ne esistano altre). Potremmo lavorare come fa la teoria dei prototipi cercando una definizione che centri l’essenza di quello che consideriamo fumetto, cioè quello che è per noi il fumetto prototipale. È una via interessante per la creazione di voci di dizionario, perché permette di cogliere proprio quei tratti cruciali che mettono in grado la maggior parte delle persone di capire di che cosa si sta parlando. Ma è un pessimo candidato per definire un confine storiografico, perché la concezione prototipale del fumetto cambia anch’essa col tempo; e anzi, in particolare, tipicamente non si è ancora formata in quel momento iniziale che stiamo cercando di definire. Per cui il massimo a cui potremmo arrivare è qualcosa del tipo: secondo la concezione prototipale del fumetto nell’America degli anni Novanta il fumetto è nato nel 1896; secondo la concezione prototipale del fumetto della Francia del 2000 il fumetto è nato intorno al 1820, ecc. ecc. Cosa che può essere utile per una storia delle concezioni del fumetto, ma non direttamente per una storia del fumetto.

L’altra strada appare allora inevitabile, per il fumetto come per qualsiasi altro medium. Si tratta di capire che un medium non è qualcosa che esiste in natura, classificabile secondo leggi rigorose. È piuttosto il frutto di una serie di scambi tra le persone, e soprattutto di un continuo proporne, contrattarne e definirne i confini. Supponiamo che esista una rivista che pubblica solo fumetti, e supponiamo che su questa rivista appaia un oggetto anomalo, tipo una grande vignetta unica, o una serie di riquadri che contengono testo (e non disegni). Se questo oggetto comparisse in un altro contesto, nessuno si domanderebbe se sia fumetto; ma il fatto che compaia proprio in quel contesto significa che è stato proposto proprio come fumetto, ovvero inserito nel dialogo su come debba essere fatto il fumetto. Poi i lettori potranno approvarlo o meno. Magari diranno: “Bello, ma che ci fa qui?” Oppure lo accetteranno come una provocazione, riconoscendo implicitamente la sua appartenenza (provocatoria) all’ambito del fumetto.

Dovremo dire allora che ciò che rende qualcosa un fumetto è l’apparire su una rivista di fumetti? Mi pare che sarebbe, in sé, una proposta ridicola, se non fosse che possiede un germe (solo un germe) di verità. Diciamo che il confine tra ciò che è fumetto e ciò che non lo è sta nell’essere accettabile come tale o non esserlo, e il luogo di pubblicazione può anche costituire, a volte, l’elemento determinante.

Tuttavia, se possiamo discutere se qualcosa sia fumetto o meno (senza dimenticare che le provocazioni di oggi diventano a volte la normalità di domani) è perché, evidentemente, una qualche idea di fumetto l’abbiamo, e questa idea si esprime socialmente attraverso l’esistenza di un dialogo, cioè di testi che mostrano caratteristiche comuni sia da un punto di vista formale che dal punto di vista delle modalità di produzione/pubblicazione e di fruizione.

Ma un’idea che si esprime socialmente è qualcosa di diverso da una definizione tranciante, come quella che cercavamo sopra. Il confine storiografico che andiamo cercando non sarà allora dato dalla comparsa di opere che corrispondano alla definizione, ma dalla comparsa di un dialogo collettivo attorno ad alcuni elementi cruciali.

A titolo puramente di esempio, supponiamo – semplificando mostruosamente – di decidere che il medium fumetto è caratterizzato dalla presenza della nuvoletta a cui (in Italia) deve il nome. Se vediamo le cose in questo modo, il fumetto non nasce quando compare la prima nuvoletta di testo (cioè nel medioevo), ma quando si determina un intero settore di produzione e consumo basato su testi che presuppongono l’esistenza della nuvoletta, anche quando non ne fanno direttamente uso. In altre parole, una volta che questo settore si sia avviato, un testo che si rivolga ai medesimi lettori con altre caratteristiche simili di carattere formale e produttivo sarà un fumetto pure senza nuvolette: perché è comunque in dialogo, e fa riferimento, agli altri testi simili che la nuvoletta ce l’hanno. Viceversa, un testo pieno di nuvolette che risalga a un’epoca in cui questo settore di produzione e consumo non esiste, non sarà mai un fumetto (al massimo un suo precursore) perché in quell’epoca il fumetto non esiste.

Ho semplificato a titolo esplicativo, ma non si può ridurre a un solo aspetto ciò che caratterizza un medium. Si può però decidere che ci sono insiemi di caratteristiche che lo identificano meglio di altri. Per esempio, l’assenza di una narrazione verbale autonoma (ovvero comprensibile anche in assenza delle immagini che l’accompagnano) costringe il lettore a comprendere il racconto basandosi fondamentalmente sulle immagini, ovvero a leggere attraverso un imprescindibile guardare di base. Si noti che la narrazione verbale non è necessariamente scritta: la pittura del medioevo, anche quando sequenziale, e i protofumetti a stampa del Cinquecento tedesco prevedono una voce (orale) che li racconti, e un contesto di fruizione molto diverso dalla solitudine del lettore moderno. In quei casi, dunque, la narrazione verbale c’è, anche se non è scritta, e dunque non è arrivata a noi. Dobbiamo perciò limitare il nostro ambito non solo a un epoca di stampa avanzata, ma anche di alfabetizzazione avanzata, ovvero presupporre un pubblico in grado di ricostruire da sé (leggendo o guardando) le storie che si sviluppano sotto i suoi occhi.

Insomma, venendo allo specifico, se il fumetto nasce quando il guardare diventa la base del suo leggere narrativo, ovvero quando sono prima di tutto le immagini (e non il testo verbale) a costruire nel lettore la comprensione del flusso degli eventi, allora non dovremo andare a cercare i precursori per tracciare il nostro confine storiografico. Il fumetto ha origine quando si crea una tendenza, un ambiente, in cui la norma è una comprensione di questo tipo, visiva ancora prima che verbale. Ma sino all’epoca in cui sono normalmente presenti le didascalie narrative (ed è questa la norma), questa condizione non si verifica. Mentre, viceversa, una volta che la comprensione visiva sia diventata la norma, anche testi come il Prince Valiant di Foster e il Flash Gordon di Raymond sono fumetti, nonostante reintroducano le didascalie: lo sono perché ormai si rivolgono a un pubblico che è abituato a leggere fumetti, e che capisce la ragione di una scelta differente, senza tornare per questo indietro nel tempo di cinquant’anni.

Detto questo, è chiaro che non si potrà dare più a Richard Felton Outcault, autore di Yellow Kid, il merito di avere fondato il fumetto. Gli si riconoscerà semmai la fortuna di essere stato colui che ha aperto una porta che era già socchiusa, e che avrebbe potuto aprire chiunque altro in quel momento. Quello che importa è che il momento era giusto perché si potesse formare – anche esplosivamente, come è di fatto successo – una nuova consapevolezza tra autori, editori e lettori, quella che è possibile scrivere storie non solo molto accompagnate da immagini, ma proprio per immagini. La nuvoletta non è l’elemento discriminante, dunque, ma rimane un buon indizio; ha di buono che ribalta il rapporto tra immagine e testo: con le didascalie è il testo verbale che inquadra e ingloba l’immagine, con la nuvoletta è l’immagine che inquadra e ingloba il testo verbale.

Non pretendo di avere ragione, dunque, a continuare a situare intorno al 1896 la data di nascita del fumetto. Tuttavia per smentirmi non basta produrre esempi di testi per immagini precedenti a quella data, che esibiscano la nuvoletta, o che prevedano una modalità di fruizione principalmente visiva. Bisogna anche dimostrare che, nell’epoca in cui vengono prodotti, essi costituiscono la norma. A me non pare che sia così. Ma il bello della storiografia è che può sempre scoprire qualcosa di nuovo.

——————————————-

P.S. Oggi, in tutt’altra veste e su altri temi, appaio anche nel rinato blog del mio stimato omonimo, con un intervento autoeterobiografico intitolato La solitudine del blogger. Buona lettura.

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7 comments to Della definizione del fumetto (e di altri media)

  • DB

    escludo di essere io l’autore
    db
    (l’altro? geloso? skizo?)

  • Giuseppe Pollicelli

    Ho già inviato questo contributo nel blog di Stefanelli ma penso possa essere utile pure qui.

    A me pare decisiva, nel tuo discorso, l’intuizione sulla prevalenza delle immagini rispetto al testo, che nel fumetto è sostanzialmente ancillare rispetto alle vignette (tant’è vero che, come ben sappiamo, esistono fumetti fatti di sole immagini, senza le parole). Dirò di più: a differenza di quello che affermi, a me non pare nemmeno che, quando presenti, le didascalie inglobino e inquadrino le vignette: sovente le didascalie sono puramente accessorie e talora, com’è noto, non sono state altro che un artificioso succedaneo dei balloons.
    A mio avviso occorre chiamare in causa il concetto di “percezione”. Un fenomeno, un’invenzione, un linguaggio acquisiscono una fisionomia e un’identità anche in base al modo in cui vengono percepiti e, quindi, all’utilizzo che, a seguito di questa mutata percezione, ne viene poi fatto. Azzardo un paragone con il cristianesimo. Il cristianesimo non è un’invenzione strictu sensu, è il portato e l’evoluzione di teorie, credenze e concetti già presenti all’interno dell’ebraismo, e sappiamo bene che, se è ovviamente imprescindibile, nel suo delinearsi, la figura di Cristo, non è meno importante quella di San Paolo, il quale ha contribuito in modo determinante, con la sua predicazione, a modificare radicalmente la percezione del cristianesimo, in particolare da parte dei non ebrei, rendendolo una religione non più legata a un popolo bensì universale (cattolicesimo) laddove prima (e lo sarebbe stato peraltro ancora a lungo, perché la visione paolina avrà bisogno di tempo per imporsi e dovrà contare sui Padri della Chiesa) era avvertito nel mondo pagano come una specie di scheggia estremistica dell’ebraismo. Con il fumetto accade qualcosa di similare. In tanti avranno (anzi, hanno) utilizzato delle immagini fisse per sviluppare una qualche narrazione ma questa era un’attività senza nome e senza norme, dunque non era un linguaggio. Il fattore discriminante, così come San Paolo per il cristianesimo, è stato a mio avviso proprio l’adozione di questa modalità espressiva – in cui l’immagine “pesa” più della parola, con cui pur convive – da parte della grande industria editoriale staunitense, la quale ha consentito la nascita, il codificarsi e il diffondersi di un linguaggio nonché la possibilità di dargli un nome (diverso a seconda dei Paesi ma indicante una medesima cosa).

    • Condivido pienamente, con un solo piccolo appunto a un tuo appunto: là dove dicevo che le didascalie inglobano le vignette non mi riferivo alle didascalie del fumetto, ma a quelle della narrativa per immagini dell’Ottocento (come nella figura da Ally Sloper in cima al post). Una volta che il fumetto è nato e si è solidificato, la didascalia funziona di solito come dici tu, cioè più o meno come il balloon.

  • ciao daniele, purtroppo in partenza non riesco ora a commentare per bene.

    Mi limito al momento a dire che condivido al 100% il disinteresse (ergo: lo ritengo metodologicamente discutibile) nel “cercare una definizione che centri l’essenza di quello che consideriamo fumetto”.

    Anzi: la prospettiva “essenzialista” è per me sostanzialmente inutile, rischiosa, persino pericolosa: è in questo ottica che è nato, per esempio, il “mito di Yellow Kid”, fondato su una supposta essenza (vedi Waugh, Boschesi, Marschall, Fossati, ecc.) costituita da: balloon, serialità, centralità del character, supporto periodico. Una tesi insostenibile e falsa, smentita anche solo da Topffer o da molte images d’Epinal e simili.

    Del resto riparleremo, spero 😉
    ciao, m.

  • johnj

    molto interessante
    mi sfugge però l’intento estetico delle istruzioni dell’ikea, che peraltro so per certo essere non di rado approssimative (mamma mia che complicato il letto hemnes, altro che semiologia!) suscitando pertanto in me tutt’altre reazioni 😉

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