Sull’affaire Scozzari-Fumettibrutti

Personalmente credo che a Filippo Scozzari dovrebbe essere data una licenza, come a James Bond, di uccidere, anche se solo verbalmente. E questo non perché io condivida quello che mi pare di aver ricostruito che lui abbia detto (arrivo a cose fatte, e ringrazio Giorgio Franzaroli per aver scritto il post su Facebook che mi ha avvertito di tutta la faccenda, che poi ho finito di ricostruire attraverso le sue tracce sui media). Radicalmente non condivido né il giudizio che Scozzari esprime su Fumettibrutti, che è autrice che io invece trovo particolarmente originale, né i toni con cui lo esprime. D’altra parte, dissento radicalmente pure da chi scrive che Scozzari sarebbe passato dall’essere un giovane reazionario ai deliri senescenti di un sopravvissuto a se stesso, concludendo: “Se un individuo, godendo della propria visibilità, sbandiera idee discriminatorie verso un altro che non tollera, deve essere indicato come latore di un pensiero aberrante.”

Del resto, è vero: Scozzari è sempre stato latore di un pensiero aberrante. Solo che negli anni Settanta e Ottanta quel pensiero era anche il nostro, ovvero di noi che ci fregiavamo di essere la parte più intelligente e progressista della società. Scozzari attaccava quelli che avrei attaccato anch’io, solo che lui lo faceva meglio, molto meglio. E magari per questo gli si perdonava di attaccare un po’ anche se stesso e anche noi. Se leggete quel libro esemplare che è Prima pagare poi ricordare, dall’ecatombe di critiche non si salva nessuno, autore compreso, salvo – almeno in parte – Andrea Pazienza.

In quella fase confusa ed eccitante essere aberranti pagava, perché un po’ aberranti ci sentivamo tutti. Ora che l’eccessività di Scozzari si rivolge contro di noi, e attacca dei valori di cui ci sentiamo sicuri, ecco che il suo essere aberrante fa sì che:  “Non ci sono difese, non hanno senso i distinguo, non serve rifugiarsi nella memoria. Lo si condanna.”

Si noti: non “lo si critica”, non “gli si mostra che ha torto”, bensì “lo si condanna”, da quel vecchio rincoglionito reazionario che è.

Ora, nello specifico Scozzari ha torto, e si esprime male. Ha sempre amato la provocazione, e il suo turpiloquio è sempre servito esattamente a questo: a provocare. A quanto pare, nella provocazione sono caduti in molti. Per quanto stupida sia una trappola, trova sempre la preda più stupida che ci finisce dentro. Scozzari lo ha sempre saputo benissimo.

Nello specifico ha comunque torto. Ma in una dimensione più ampia, ci sono mille ragioni per difendere Scozzari, per le stesse ragioni per cui dovremmo difendere la satira di Charlie Hebdo, per quanto ripugnante qualche volta ci appaia, e per le medesime ragioni per cui dovremmo difendere persino la satira di destra, quella becera, oscena, più o meno apertamente fascista (e né Scozzari né Charlie Hebdo lo sono affatto). Il pensiero aberrante di Scozzari, nella sua voluta grezzezza, nella sua violenza politicamente scorrettissima, ci dice una cosa fondamentale, che è: persino le tue convinzioni più sentite e profonde non sono veramente garantite. Non devi cessare mai di metterle in discussione, per quanto ti appaiano sacrosante e inconfutabili, per quanto ti appaiano la quintessenza dell’essere progressista, comprensivo, democratico e antifascista.

Sgarbatamente, Scozzari ci ricorda la necessità del dubbio. E questo fa incazzare tutti coloro, anche di sinistra, che di dubitare non hanno voglia; che sono convinti che i propri valori sono sacrosanti. Che sono pronti a linciare (magari verbalmente) chi si oppone a loro, o anche solo chi osa metterli in discussione.

Si dirà che, così facendo, Scozzari porta acqua al mulino dei reazionari, e magari è pure un po’ vero. Ma la differenza tra il totalitarismo e la democrazia è la stessa che c’è tra la certezza assoluta e il dubbio. Né Hitler né Stalin avevano dubbi. Nello specifico, può darsi che il comportamento di Scozzari porti acqua al mulino dei loro penosi emuli. Ma in una dimensione più ampia, Scozzari va difeso a oltranza, lui e la possibilità di un pensiero aberrante.

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Degli autori di Frigidaire: 3. Filippo Scozzari

Filippo Scozzari, "Primo Carnera e la gara di squisitezza", da Frigidaire n.1

Filippo Scozzari, “Primo Carnera e la gara di squisitezza”, da Frigidaire n.1

Il terzo autore che appare nelle pagine del primo numero di Frigidaire, dopo Tamburini e Pazienza, è Filippo Scozzari. Scozzari è un po’ più anziano degli altri, e ha già avuto un ruolo, qualche anno prima, nello scatenare e e nel dare una prima direzione al genio ancora incerto di Pazienza, oltre che nell’organizzare e dirigere Cannibale. In questa specie di gioco delle parti che stiamo cercando di analizzare, attorno a un’avanguardia che non era proprio un’avanguardia, di cui Tamburini era in qualche modo l’ideologo e Paz il cane sciolto movimentista, Scozzari riveste un ruolo a sua volta cruciale.

Ci sono ben tre fumetti dovuti alla sua mano e alla sua penna, in queste pagine: una storia autoconclusiva (“Primo Carnera e la gara di squisitezza”), una meno significativa doppia pagina a colori intitolata “Secret agent man”, e il primo episodio di una versione a fumetti di The Blue Dahlia, di Raymond Chandler. Il protagonista della prima non è l’omonimo pugile, ma un’esteta di un’epoca che potrebbe essere la proiezione futurista e futuribile degli anni Venti, in cui appaiono in veste di personaggi Fritz Lang, Gabriele D’Annunzio e Tamara de Lempicka, tutti persi dietro al mito di una spasmodica squisitezza.

Scozzari sembra essere acutamente consapevole del rapporto tra Frigidaire e il futurismo, e sembra persino confermarlo, mettendo in scena personaggi che appartengono a quell’epoca e a quel contesto – ma al tempo stesso lo nega con violenza, annegando il tutto in un sarcasmo mortale. I bolidi (più belli, certamente, della Vittoria di Samotracia) di Carnera e della rivale vanno (come carburante) a citazioni squisite o a squisitezza orgasmica uterina,  parodie estreme di un estetismo ipernarcisista intorno a cui sembra girare tutto, nel mondo raccontato.

Scozzari prende una trama collaudata (l’eroe viene sconfitto dalla rivale, ma poi sul finale scopre e rivela a tutti come sono andate davvero le cose, ed è evidentemente lui il vincitore effettivo) ma la riempie di valori paradossali. Quello che ne emerge è forse una qualche nostalgia per l’epoca di cui si racconta, ma soprattutto il sarcasmo devastante del modo in cui se ne parla. Se Tamburini incarnava lo spirito dell’avanguardia, e Pazienza quello dell’inafferrabile movimentista, spontaneo e improvvisatore, qui Scozzari arriva a incarnare l’altro corno del trovarsi dopo, cioè l’altro corno della post-avanguardia: il cinismo scettico, il sarcasmo amaro, senza redenzione e senza limiti. Forse Tamburini può ancora credere che la sua avanguardia potrà fare la rivoluzione (in verità pure lui è sufficientemente consapevole dei limiti della propria azione); forse Pazienza vive felicemente la propria felicità creativa e inventiva e il suo cavalcare con disinvoltura il flusso (ma poi finirà, qualche anno dopo, per scrivere Pompeo, e poi…); ma Scozzari è post-avanguardia per il suo nichilismo e la sua metafisica tristezza. È come se fosse colui che sa benissimo come andrà a finire, e che le avanguardie, in fin dei conti, non hanno combinato gran che nel mondo, e che il sarcasmo o la risata sono ciò che ci resta, in fin dei conti, specie se a denti stretti.

Nonostante questo, Scozzari non molla. Racconta che non ci crede, però continua non solo a stare al gioco, ma a proporlo e a gestirlo. La sua malinconia esistenziale si rispecchia in quella dei personaggi di Chandler. Lui è quello che lo sa che l’unica avanguardia possibile ormai è quella che non crede più nelle avanguardie. Frigidaire nasce in una contraddizione, che è anche la sua ricchezza, perché condivide e rispecchia la contraddizione in cui vivono i suoi lettori. Scozzari agisce da subito, da ancora prima che Frigidaire nascesse, nel centro organico di quella contraddizione, ben consapevole che ogni avanguardia, in qualche modo, puzza di estetismo, ma che dentro quella puzza, comunque, si sta vivendo, e ben al di là dell’estetismo stesso.

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Recensioni d’annata, 1997. Fumetti d’imPazienza

Fumetti d’imPazienza
Il Sole 24 Ore, 9 novembre 1997

Venti anni fa, 1977, mentre le università italiane ribollivano degli ultimi, scoppiettanti bagliori della stagione nata con il ’68, e la sinistra studentesca iniziava a morire tra tossicodipendenze e Brigate Rosse, il fumetto italiano stava iniziando un viaggio che lo avrebbe segnato e trascinato lontano. Per almeno 10 anni gli autori che si stavano formando allora avrebbero dominato il campo, lasciando tracce un po’ su tutta la scena culturale italiana, dalla letteratura alle arti visive, dalla satira al teatro, al costume.

Non c’era solo un manipolo di ragazzi geniali. C’era un ambiente culturale che si riconosceva nel fumetto come in una forma espressiva non compromessa con l’ufficialità editoriale o commerciale; un’ufficialità peraltro inutilmente combattuta e detestata, ma contrastata, almeno simbolicamente, con ogni mezzo possibile. L’ambiente culturale riconosceva nei ragazzi geniali del “nuovo fumetto italiano” coloro che più compiutamente esprimevano il sentire diffuso, e li eleggevano a loro portavoce.

All’inizio era stato Cannibale, rivista troppo aperiodica e managerialmente dilettantesca per durare, ma radicale e innovativa, e di qualità straordinaria, tanto più se si pensa che gli autori erano tutti giovanissimi, e tutti alla prima esperienza editoriale, o quasi. Da quegli stessi autori, insieme ad altri con qualche capacità amministrativa in più, era subito dopo arrivato Il male, la rivista di satira più cattiva (e intelligente) che si possa immaginare, di cui resta memoria, nel pubblico, soprattutto per le false copertine di quotidiani nazionali che strillavano notizie straordinarie, da “Lo stato si è estinto” di Repubblica a “Annullati i mondiali” de La Gazzetta dello Sport.

Sono gli stessi ragazzi, nel 1980, a fondare Frigidaire, rivista di tendenza e di culto della prima metà degli anni Ottanta, mescolando un giornalismo aggressivo e controcorrente all’inventività grafica e letteraria. E producendo, naturalmente, fumetti tra i migliori che si siano mai visti in Italia.

Vent’anni dopo, cosa resta di questo? Che cosa fanno i protagonisti di questa storia? Due di loro sono morti: il corpo di Stefano Tamburini, motore grafico e ideologico di Cannibale e Frigidaire, fu trovato parecchi giorni dopo il decesso, nel 1986; e due anni dopo, nel 1988, morì di overdose Andrea Pazienza, l’autore più prolifico e amato della sua generazione. Tanino Liberatore e Massimo Mattioli continuano ancora oggi a pubblicare ottimi fumetti tra Parigi e Roma. Filippo Scòzzari non disegna quasi più, ma in compenso scrive, penna caustica e irriverente, non di rado avventata, quasi volgare – ma sempre gustosa, gustosissima, e tanto di più quanto più dice quello che di solito le lingue forbite usano tacere.

E’ proprio sulla storia che abbiamo accennato sin qui che Scòzzari ha pubblicato da poco un racconto autobiografico, dove gli entusiasmi e i drammi di quegli anni appaiono vissuti intensamente da dentro, da protagonista, inventore e trascinatore di autori destinati talvolta a un successo maggiore del suo. Un libro, Prima pagare poi ricordare, appassionato e sgarbato come il suo autore, composto con uno stile acutamente originale – da superba, irrefrenabile “malalingua”.

Il ritratto che appare più nitido, nelle pagine di Scòzzari, è quello di Andrea Pazienza, amato e ferocemente invidiato (da lui come da tutti) per la sua capacità grafica straordinaria. Scòzzari ci racconta come lo conobbe, come lo frequentò, come si concluse il sodalizio, prima – come spesso accade – per semplice esaurimento, e poi, inaspettatamente, in tragedia. Pazienza, nei suoi pochi anni, ha davvero attraversato come una bomba gli anni Ottanta, senza fare scuola e senza riconoscimenti all’estero: troppo originale e troppo calato in una realtà giovanile profondamente italiana, nella quale ha creato opere in cui il suo pubblico si è riconosciuto e immedesimato.

A Pazienza, in questo ventennale senza celebrazioni (ma che fa evidentemente riscontrare un diffuso risveglio di interesse per le vicende che ebbero inizio allora) troviamo dedicati in questi giorni un CD-Rom e una mostra. Il CD-Rom, Andrea Pazienza. L’antologia illimitata, a cura di Ferruccio Giromini, fa abbastanza fede al suo titolo, presentando nel non agevole formato dello schermo del computer (640×480 pixel) le tavole di tutti i fumetti di Pazienza, più una discreta scelta di vignette, dipinti e altro. Vi si trova una bibliografia delle sue opere che si può presumere completa, un’antologia di commenti della critica e una breve biografia, con filmati e foto del giovane e meno giovane Andrea dalla prima comunione in poi. Con gradita discrezione, gli autori non aggiungono altro: né commenti, che infatti meglio troverebbero posto in un volume cartaceo, né gratuite divagazioni multimediali, con l’eccezione di alcuni inutili giochi – ma pare che non si possano fare CD-Rom senza di loro.

La mostra, Andrea Pazienza. Antologica, promossa dall’Assessorato alla Cultura del comune di Bologna, è aperta nel capoluogo emiliano a Palazzo Re Enzo dal 5 ottobre al 16 novembre, e presenta circa 250 originali, di cui la metà tavole di fumetti e il resto illustrazioni e dipinti, alcuni inediti. Il catalogo, curato dai fratelli di Pazienza e da Vincenzo Mollica, contiene una nutrita serie di interventi.

 

Filippo Scòzzari
Prima pagare poi ricordare. Da “Cannibale” a “Frigidaire”. Storia di un manipolo di ragazzi geniali
Roma, Castelvecchi 1977
pp. 232, £.18.000

Andrea Pazienza. L’antologia illimitata (CD-Rom)
Imagica – L’Unità iniziative editoriali n.5
£. 30.000

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Dei rumori grafici

C’è un ambito, nel fumetto, che riguarda la scrittura ma non il lettering in senso stretto, ed è quello dei rumori. I rumori appaiono sotto forma di segni di scrittura dalla forte caratterizzazione grafica, con una grande varietà di forme.

Il rumore non è un oggetto del mondo rappresentato, e la natura semiotica della sua espressione nel fumetto è complessa. Un rumore viene tipicamente rappresentato attraverso una sequenza di lettere che, pur essendo di carattere onomatopeico, appare comunque come una parola – magari inventata. In quanto parola, implica la presenza di un senso (che magari può anche semplicemente essere: rumore forte) e soprattutto del suono che la sequenza di lettere evoca, un suono che (a parte quando si tratta di grida) non può davvero corrispondere a quello letteralmente espresso dalle lettere. Il suono espresso dalla parola brakabrakabraka, per esempio, che vediamo qui sotto in una tavola di Frank Miller, sarà dunque interpretato come il suono della mitragliatrice mostrata dall’immagine, un suono caratterizzato – proprio come la sequenza fonetica rinviata dalle nostre lettere – dalla ripetitività di suoni secchi, meccanici ed esplosivi.

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

La parola brakabrakabraka rinvia perciò a una serie di suoni che sono un corrispondente analogico di quelli emessi dalla mitragliatrice. L’analogia messa in scena a livello del suono trova poi riscontro in un’altra costruzione analogica a livello della forma grafica, alla quale è demandato di dare energia alla figura del suono. Così, nei diversi esempi visivi che abbiamo raccolto qui si vede chiaramente come i rumori siano costruiti graficamente in modo da rendere, per analogia, la qualità dei loro corrispondenti sonori evocati.

Ma il rumore forte visivizzato nel fumetto gode di un’altra caratteristica. Il rumore è un elemento di per sé estraneo alla natura visiva del mondo rappresentato (e deve comunque avere, nel fumetto, una rappresentazione visiva), e si tratta di qualcosa che deve caratterizzare un eccesso, poiché il rumore stesso (quando vale la pena di rappresentarlo nel fumetto) è frutto di un eccesso. Per questa sua estraneità alla dimensione figurativa e per questa sua natura eccessiva, il rumore finisce per apparire come un elemento cruciale di caratterizzazione stilistica: ci sono infiniti modi possibili di essere eccessivi nell’inventare la forma visiva di qualcosa che in sé non ha nulla di visivo; e di conseguenza il modo scelto è cruciale per l’individuazione del contesto grafico di riferimento.

Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967

Guy Peellaert, Pravda La Survireuse, 1967

Così, i rumori di Peellaert sono coloratissimi e bombati come nella visività psichedelica degli anni Sessanta, e quelli di Bodé sporchi e irregolari; mentre Crepax deve giocare sulla poca deformazione di un carattere lineare bold di ascendenza pubblicitaria, e Scozzari non si allontata dal modello underground di Bodé se non per una molto maggiore ricchezza di espressioni. Miller, infine, fa dei rumori visivi uno dei punti di forza della propria poetica della spettacolarità a tutti i costi, con una continua folgorante serie di invenzioni fonetiche e grafiche, dove non di rado il rumore investe la totalità del campo, ed è l’oggetto che si impone principalmente all’attenzione.

Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970

Vaughn Bodé, War Lizards, circa 1970

Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978

Guido Crepax, L'uomo di Harlem, 1978

Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974

Filippo Scozzari, Nekator Superfly, 1974

Frank Miller, Ronin, 1983

Frank Miller, Ronin, 1983

Il racconto – da questi esempi è chiaro – si è mangiato l’immagine: là dove la rappresentazione di un rumore può diventare la totalità di ciò che si vede, è ovvio che si guarda (e si deve guardare, e anche con attenzione) per leggere la storia. Solo nel leggerli come rumori degli eventi della storia i rumori visivi del fumetto ricevono un senso dal proprio essere guardati. Tuttavia, al tempo stesso, essi restano anche delle pure caratterizzazioni grafiche astratte, con una figuratività, perciò, del tutto diversa da quella delle figure del mondo che li attorniano.

Se ignorassimo, o mettessimo sullo sfondo il racconto, certo, allora il rumore grafico si trasformerebbe in uno straordinario oggetto visivo, spesso da godere tramite un puro guardare. Ma non verrebbe più, in tal caso, inteso come un rumore. Eppure, anche se il racconto costituisce il fumetto, sappiamo bene che non lo esaurisce affatto. I rumori grafici sono certo prima di tutto rumori, ma un po’ sono anche favolosi oggetti grafici sospesi nello spazio.

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

Frank Miller, The Dark Knight Returns, 1985

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di Daniele Barbieri

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