Pittura e narrazione per immagini

Pittura e narrazione per immagini

Dopo avere parlato di fumetto e letteratura, questa volta parliamo di pittura.

In estrema sintesi, possiamo dire che la nascita della pittura astratta, poco più di un secolo fa, ha sancito definitivamente una concezione della pittura sostanzialmente formale, come costruzione plastica. Solo perché la pittura, pur avendo un soggetto, era ormai da lungo tempo concepita così, a Kandinsky e Malevitch è stato possibile fare il salto, ed eliminare definitivamente il soggetto. Questa concezione della pittura ha origine nel Rinascimento, quando la pittura inizia ad avere una sostanziale committenza privata, e i dipinti iniziano ad essere (anche) oggetti da esporre nelle case private: quindi begli oggetti, il cui tema è di importanza relativa (certo non irrilevante, ma nemmeno fondamentale).

Ben diverse erano le cose prima di questo cambiamento, quando la destinazione dei dipinti era pubblica, per chiese ed edifici di governo. Quando i dipinti erano fatti per essere visti da tanta gente, non erano pensati per la libera contemplazione che si può avere in un luogo privato. Erano piuttosto supporti per la predicazione, o per il racconto. Li si guardava quando qualcuno ne spiegava il senso, o la storia raccontata; o quando qualcuno già l’aveva fatto, e le sue parole risuonavano nella memoria…

Prosegue qui, su Fumettologica.

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Di Alain e i Rom

Emmanuel Guibert, Alain Keler, Frédéric Lemercier, "Alain e i Rom" (Coconino 2010) pp.56-57

Emmanuel Guibert, Alain Keler, Frédéric Lemercier, "Alain e i Rom" (Coconino 2010) pp.56-57

Emmanuel Guibert ci riprova, sempre con i colori e la grafica complessiva di Frédéric Lemercier. L’idea del reportage basato su un montaggio di disegni e fotografie era stata alla base del bellissimo Il fotografo, insieme con il fotografo Didier Lefèvre, perduto nelle montagne dell’Afghanistan. Stavolta il fotografo è invece Alain Keler, e il libro si chiama Alain e i Rom (in originale Des nouvelles d’Alain). Le riflessioni che facevo qualche mese fa sul rapporto tra immagine disegnata e fotografia nell’altro libro varrebbero pienamente anche per questo.

Ma là c’era anche una traccia narrativa, una storia, quella del viaggio di Lefèvre attraverso l’Afghanistan; mentre qui lo spirito è quello – chiamiamolo così – del dossier soggettivo, o del diario di lavoro del giornalista. Non si arriva, mi pare, alla grandiosità e all’emozione che l’altro volume sapeva suscitare; e tuttavia anche questo è un testo molto godibile, un bel reportage sull’esistenza dei Rom e sull’esperienza di chi ha cercato di avvicinarsi a loro, per fotografarli e farli conoscere, un libro di belle immagini, forti e sentite.

Magari è proprio per il suo essere meno emozionante, meno unico del precedente, che potremmo dire che questo libro inaugura effettivamente un genere, apre una possibilità, definisce un format. La storia de Il fotografo era troppo estrema per essere davvero ripetibile. Ma Alain e i Rom mostra come si possa usare la narrazione per immagini disegnate per contestualizzare le immagini fotografiche senza ricorrere né all’ossessione ritmica dell’alternanza foto-didascalia, né all’inevitabile marginalizzazione della foto quando il testo verbale diventa un’esposizione continua, racconto o saggio che sia.

Il disegno accorcia la distanza tra ciò che il fotografo ha visto e testimoniato e l’evento dell’andare, entrare in contatto, vedere e testimoniare, ciò che, insomma, veniva inevitabilmente delegato alla sola parola. Il reportage a fumetti (alla Joe Sacco) ha reso possibile anche questo formato misto, in cui il disegno racconta e la foto testimonia e le parole, che inevitabilmente ci sono, si trovano in una relazione con ciò che si vede che è più simile a quella che intrattengono nel mondo di tutti i giorni, nel mondo reale.

Questo rende, paradossalmente, l’operazione di Guibert davvero simile al documentario filmico, al reportage filmato; solo che le foto sono foto, con tutta la loro icastica fissità, e non immagini che scorrono come avviene nel cinema, e che, per quanto forti, un attimo dopo non sono più sotto i nostri occhi. Insomma, ora che la strada è aperta, ce ne aspettiamo altri. Guibert è bravo, indubbiamente; ma chissà cosa potrebbero fare autori diversi, con uno spirito diverso dal suo?

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Del fumetto, della sua nascita e dell’Europa del primo Novecento

Geo McManus, <i>Les jeunes mariés</i>, da <i>Nos Loisirs </i>n. 25, 1907

Geo McManus, Les jeunes mariés, da Nos Loisirs n. 25, 1907

Nel post del 29 giugno del suo bel blog, Neuf et demi, Thierry Groensteen ci presenta questa immagine, che lui trae a sua volta da uno studio di Eckart Sackmann e Harald Kien pubblicato nel volume Deutsche Comicforschung 2010. (L’immagine che Thierry ci propone è purtroppo a bassa risoluzione, per cui è inutile cercare di ingrandirla). Si tratta della versione francese di una serie americana, di Geo McManus, The Newlyweds, precedente di qualche anno alla più nota Bringing up Father.

La pagina ci viene proposta come esempio della difficoltà che all’inizio del Novecento i giornali europei hanno, e per parecchi anni continueranno ad avere, ad accettare l’idea di una narrazione fatta principalmente d’immagini. Ma l’esempio in questione è particolarmente interessante perché, a differenza di quello che accade di solito, i balloon non sono stati cancellati, e ciononostante il testo che accompagna le vignette è un testo di dialogo, fatto di battute così esplicitamente teatrali da riportare, qua e là, le stesse note che a volte portano i copioni teatrali stessi: “a parte”, “a se stesso”…

Questo ci fa intuire alcune cose su come doveva essere inteso nella vecchia Europa il nuovo fumetto che proveniva dall’America. Non una narrazione per immagini indipendente, come oramai erà già negli USA, dove la parola fa parte della scena rappresentata, bensì un set di tipo teatrale, dove la parola precede l’immagine ed è comunque più importante, come succedeva chiaramente nel teatro dell’epoca, basato sulla testualità letteraria del copione e sulla sua messa in scena. Visto in questo modo, il teatro non è poi così lontano dal racconto illustrato, con il tramite del cantastorie che racconta a voce alta mostrando le immagini.

Questo modello tutto basato sulla parola scritta è talmente forte da permettere ai lettori di Nos Loisirs di accettare anche una situazione testuale assurda come quella che vediamo qui, in cui ci sono dialoghi che accompagnano le immagini e dialoghi dentro le immagini – senza che si possa capire in che relazione stiano tra loro. È un po’ come se i dialoghi nei balloon facessero parte delle immagini stesse, cioè della parte illustrata, mentre il racconto vero scorre sotto, nelle didascalie.

Questo mi dà ulteriore ragione di pensare che qualcosa di nuovo è davvero successo in America, qualche anno prima, e che il fumetto non poteva nascere in Europa, perché questa è la fine cui sarebbe stato destinato: una versione statica del teatro, una narrazione per immagini, dove la narrazione è inevitabilmente legata alla parola. Forse Outcault e i suoi immediati contemporanei non hanno inventato molto, ma il piccolo passo che hanno fatto non sarebbe mai stato possibile nell’Europa di quegli anni (e di molti anni a venire), troppo letteraria, troppo legata alla parola e alla scrittura.

Mi viene da pensare che, paradossalmente, la fortuna del cinema è di essere nato muto, e di essere stato costretto, per questo, a nascere come arte dell’immagine in movimento, e non del racconto. Se fosse nato con la parola, è piuttosto probabile che in Europa non avrebbe avuto una sorte molto differente da quella del fumetto.

Magari l’America si sarebbe salvata lo stesso. E comunque, quando il sonoro è arrivato, per fortuna, c’era già abbastanza storia per non poter più tornare indietro.

E infine – guarda un po’ – gli anni dell’adozione del balloon in Europa sono grosso modo gli anni dell’invenzione del sonoro nel cinema. Non ci sarà un legame?

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Dell’arte, del rito e del fare

Già molti decenni fa (ma io l’ho imparato solo in questi giorni, leggendo il suo Come interpretare un’opera d’arte, Milano Rusconi 1977) Ananda K. Coomaraswamy faceva osservare che la parola arte, tradizionalmente, nelle culture europee, non fa riferimento a oggetti o a una categoria di oggetti (le opere d’arte), bensì a un modo di operare. Per capire cosa questo voglia dire basta far caso al fatto che quest’uso della parola arte è ancora ben presente nell’italiano di oggi, quando si dice, per esempio, che qualcosa è fatto ad arte, o che qualcuno lavora con arte. Come è ovvio, pure la parola artigiano deriva da arte, intesa in questo senso; mentre la parola artista sembra che indicasse, in origine, semplicemente qualcuno che eccelleva nella propria arte (ovvero abilità costruttiva), qualunque essa fosse.

Coomaraswamy fa anche notare che anche il fatto di considerare le arti come oggetto di un’estetica è un’invenzione occidentale e recente. La parola estetica deriva da aisthesis, ovvero sensazione, e che la riflessione sull’arte abbia nome estetica tradisce l’idea di base che il campo dell’arte sia quello della sensazione, nello specifico quello della sensazione piacevole. L’invenzione dell’estetica avrebbe dunque deviato verso il campo della sensazione quello che prima apparteneva al campo della conoscenza.

Credo (io, non Coomaraswamy) che questa deviazione sia parallela allo sviluppo di un’idea di conoscenza razionale esclusiva, che sfocia ai primi del Seicento nella concezione cartesiana della scienza. Dove la conoscenza debba essere fatta di idee chiare e distinte non c’è più posto per una conoscenza tradizionale su base rituale, con una forte componente religiosa. Progressivamente (perché queste cose richiedono secoli, e né Cartesio si è inventato tutto da un giorno all’altro, né dal giorno dopo l’enunciazione delle sue idee il pensiero occidentale è cambiato di colpo) una serie di cose che prima erano sentite come centrali per la vita e la conoscenza del mondo vengono relegate a un ruolo più marginale. Nella misura, poi, in cui esse sono anche legate al culto religioso, secondo il nuovo criterio illuminista finiscono per ritrovarsi nel campo della superstizione.

La parola estetica, usata in senso moderno, è settecentesca; ma l’idea dell’arte come qualcosa che riguarda la sensibilità piuttosto che la conoscenza la precede. Potremmo dire che l’invenzione dell’estetica come tale, nel Settecento, è il tentativo illuminista di dare un posto decoroso all’arte all’interno di un sistema cognitivo che la lascia fuori. Alla fine di questa lunga trasformazione, siamo passati da un sistema in cui la pittura, la scultura, l’architettura e la musica erano modalità rituali (o collegate a situazioni rituali) di conoscenza del mondo, a un altro sistema in cui queste medesime attività sono diventate testimonianza dell’espressione dell’io, e al tempo stesso manifestazioni del sublime – con questa particolare e interessante coincidenza di due estremi, entrambi tenuti ai margini di un mondo sempre più dominato da una conoscenza di tipo razionalistico e dalla sua applicazione attraverso una tecnica che per sua natura esclude l’arte, cioè l’abilità manuale.

Dobbiamo a William Morris e alla sua utopia neoumanistica della seconda metà dell’Ottocento l’idea del design industriale, ovvero l’idea che l’arte (intesa come cura della qualità) possa essere applicata anche ai prodotti della tecnologia. E gli dobbiamo, in qualche modo, anche l’idea del graphic design, ovvero l’idea che pure i prodotti della comunicazione possano essere progettati con cura e con arte.

Ma Morris non poteva cambiare, evidentemente, le regole di fondo. In una società deritualizzata, o in cui i nuovi riti sono effimeri e sempre collegati a una razionalità produttiva, le nuove arti (in senso antico) inventate da lui non possono ricoprire lo stesso ruolo che avevano nel mondo fortemente ritualizzato al cui interno si erano sviluppate. Benché sia figlio della cura dell’artista medievale (ovvero colui che eccelleva nella sua arte), e sia in questo senso ciò che davvero potrebbe legittimamente essere definito arte, il design non può godere della stessa considerazione sociale di cui godeva nel medioevo l’arte: gli manca quel legame con il sacro che allora era parte di qualsiasi opera, di qualsiasi operazione, anche quotidiana.

Nella nostra cultura, quel legame è diventato appannaggio dell’Arte (con la A maiuscola, cioè nel senso corrente dell’espressione), la quale, però, ha dovuto separarsi in maniera radicale dalla tecnica, dalla produzione di buoni oggetti d’uso, e relegarsi nel campo di un tipo particolare di comunicazione, quella espressiva – cercando di ricostruire, solo con i propri mezzi, delle situazioni rituali a cui la società concede diritto di esistere a patto che non riguardino il campo del sapere, e si limitino a quello del bello, dell’aisthesis, della sensazione. L’Arte finisce per diventare, in questo modo, solo una forma più complessa (magari più colta) di intrattenimento – e il sacro stesso finisce per essere oggetto di aisthesis.

Dobbiamo avere nostalgia per come era prima, o per come sarebbe altrove? Non so. Non so quanto prima fosse meglio. Non mi interessa seguire Coomaraswamy in questo. Non credo che sia questo il punto. Quello che è importante, piuttosto, è capire bene quanto fossero diverse prima le cose, e che il senso in cui Giotto era un artista era molto diverso dal senso in cui lo definiremmo tale oggi. Giotto era (di gran lunga) il più bravo a esprimere visivamente quello che la collettività sentiva; a raccontare per immagini quello che tutti sapevano e intorno a cui tutti si raccoglievano.

Non esiste niente di simile a questo, oggi. I presupposti sono cambiati. Il nostro stesso sentire e il nostro stesso conoscere sono differenti.

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Del fumetto, delle immagini, del racconto e del jazz

In almeno un post precedente ho introdotto il tema delle immagini finalizzate al racconto. Ma quella volta poi il discorso si spostò, grazie alla polemica con Stefanelli, sul tema dell’origine del fumetto. Voglio tornarci sopra ora, per vedere le cose da un altro punto di vista.

Riprendo da alcune parole scritte allora:

La narrazione per immagini è sempre esistita, sin da quando si dipingevano i bisonti sulle pareti della grotta di Altamira, per farne presumibilmente gli attori di una storia raccontata a voce nel corso di una cerimonia rituale. Con l’avvento della scrittura e l’abitudine alla sequenzialità legata alla lettura, la narrazione per immagini prende talvolta essa stessa la forma di una sequenza, oppure inserisce filatteri di testo verbale in un contesto figurativo. In un certo senso gran parte della pittura medievale non è che narrazione per immagini, e non mancano gli esempi di sequenze narrative vere e proprie.

I concetti importanti li avevo già scritti allora, ma non ne avevo tratto le dovute conseguenze. Ora li ho evidenziati col neretto. Se riguardiamo l’arte visiva occidentale sino a qualche secolo fa, ci accorgiamo che essa è sostanzialmente narrativa. Non lo è talvolta nella decorazione (ma la decorazione è appunto tale – cioè non è figurazione autonoma); non lo è talvolta quando rappresenta la divinità e i luoghi ad essa vicini (perché qui vuole esprimere proprio l’assenza del tempo, e quindi degli eventi). Come ci ricorda Lina Bolzoni (La rete delle immagini. Predicazione in volgare dalle origini a Bernardino da Siena, Torino, Einaudi 2002) le immagini prodotte nel medioevo erano addirittura pensate per essere fruite in presenza di una voce narrativa di accompagnamento. E in questo senso non erano molto diverse, quanto a funzione, dai bisonti dipinti sulle grotte di Altamira.

Ma se pensiamo alla pittura in questi termini, è inevitabile pensarla, sino a un certo momento della sua storia, come narrazione per immagini. La concezione moderna della pittura, formalistica e plastica, è quindi impensabile prima del tardo Rinascimento, ed è figlia, credo, della pittura di genere, che è il primo tipo di pittura (non decorativa) che possa fare a meno del racconto – anche se per molto tempo continua a faticare davvero a farne a meno. E la nascita della pittura di genere, a sua volta, è legata alla diffusione di un modo diverso di utilizzare la pittura, in cui il privato (e l’arredamento delle case) gioca un ruolo particolare.

Comunque sia, nel corso del Rinascimento la pittura impara a costruire il proprio discorso da sé, e a fare a meno della necessità di una parola che l’accompagni. Quando Velázquez dipinge Las Meninas, l’acquisizione è pienamente compiuta, e la pittura è già qualcosa di molto simile a quello che intendiamo oggi.

Ma se le cose stanno così, e la pittura è stata sino a tutto il medioevo sostanzialmente narrazione per immagini, allora il problema storico non è quando sia nata la narrazione per immagini, bensì semmai quando sia nata la pittura intesa in senso moderno. In questa prospettiva, il discendente diretto di (poniamo) Paolo Uccello non è Pablo Picasso, ma Winsor McCay!

Certo, il fumetto, inteso in senso stretto, non poteva nascere prima. Gli mancava la possibilità di riprodurre tecnicamente le immagini per il grande pubblico – ma soprattutto gli mancava l’abitudine nel pubblico alla lettura e di conseguenza alla sequenzialità ad essa legata. Quando nel corso del Rinascimento a una pittura legata alla parola si sostituisce progressivamente (e mai del tutto, come sanno bene i teorici visivi della Controriforma) una pittura autonoma, autoesplicativa, la percentuale di coloro che sono avvezzi alla lettura e alla sequenzialità è ancora minima rispetto alla totalità dei fruitori delle immagini. Un’arte visiva sequenziale autonoma non può davvero nascere se non c’è nel suo pubblico una competenza sequenziale sufficientemente evoluta.

Nei due secoli che seguono, la narrazione per immagini vive un’esistenza più sotterranea, mentre l’alfabetizzazione si diffonde, e la cultura stampata inizia ad assumere forme anche popolari. Ma è interessante che l’evento scatenante, quello da cui esplode davvero il fumetto in senso stretto, avvenga negli Stati Uniti, nel medesimo contesto in cui nasce anche l’altra grande creazione artistica originale americana: il jazz.

Le riflessioni che state leggendo provengono da un incontro fortuito che ho fatto oggi in rete, un articolo di Giorgio Rimondi sul jazz dove si dicono (con tre anni di anticipo) cose piuttosto simili a quelle che ho scritto anch’io in un post di qualche settimana fa sulla scrittura e sulla musica. Rimondi ritiene, come me, che il jazz sia nato come reazione dell’oralità (con tutte le sue potenzialità espressive) al dominio della scrittura in ambito musicale. Ovviamente, la scrittura ha permesso alla musica un’evoluzione che altrimenti le sarebbe stata impossibile; ma le ha anche chiuso una serie di possibilità, che hanno continuato ad esprimersi nelle tradizioni popolari, senza però possibilità di accesso alla sfera colta, pubblica, di grande diffusione. Il jazz rappresenta questa mediazione: quella delle istanze dell’oralità, dell’espressività diretta, portate in un contesto sia popolare che colto.

La coincidenza del contesto di nascita tra fumetto e jazz mi ha sempre colpito; ma solo alla luce di considerazioni come queste sul rapporto tra scrittura e oralità, si può capire come non si tratti di una semplice casualità. Tutte e due le nascite avvengono in America, a cavallo tra i due secoli, in un contesto di minoranze etniche alla ricerca dell’integrazione; in un mondo nuovo che, in quanto tale, è sufficientemente slegato dalla tradizione da poter accettare più facilmente le innovazioni; in un mondo nuovo che si gloria di essere la patria della democrazia, dove non esistono privilegi di casta né alcun tipo di nobiltà – ma anche in un contesto di ricchezza crescente, di fiducia nel futuro, e di volontà di sviluppare un’identità propria, sufficientemente distinta da quella della vecchia Europa, nonostante essa resti comunque l’inevitabile punto di riferimento.

È questa situazione particolare che permette il riemergere di istanze che in Europa sarebbero probabilmente rimaste ancora a lungo sommerse: quella di una musica meno intellettualmente legata ai rigori geometrici della scrittura musicale, e quella di una narrazione per immagini finalmente dotata di un pubblico e di una tecnologia riproduttiva adatti. Queste istanze spingevano dappertutto, nell’Occidente, ma in Europa l’inerzia della tradizione le avrebbe probabilmente tenute ancora sotto controllo a lungo, se non per sempre. In America, viceversa, erano funzionali a quel diverso contesto.

Detto questo, si potrebbe pure osservare che non solo nel jazz ma anche nel fumetto sono in realtà presenti delle istanze orali importanti, e che, se pure di una sorta di scrittura si tratta, il fumetto è una scrittura che riproduce in immagine i corpi e li dota di parola diretta, ricreando in qualche modo con la sequenza delle vignette la sequenzialità della dimensione orale. Qualche accenno a questo tema l’ho fatto anche qui. Più estesamente ne parlo invece in un saggio che dovrebbe essere in uscita sulla rivista Fictions. Studi sulla narratività, dal titolo “Disegni che parlano. Il fumetto tra oralità e scrittura”.

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Dell’uso narrativo dell’immagine fotografica

Vorrei parlare del libro di Emmanuel Guibert, Didier Lefèvre e Frédéric Lemercier, Il fotografo (Coconino Press e Fandango 2010), non solo perché è un bellissimo libro di reportage a fumetti (nella tradizione inaugurata a suo tempo da Joe Sacco), ma anche perché presenta un modo del tutto originale di accostare l’immagine disegnata a quella fotografica per raccontare a fumetti. Ovviamente, è il tema stesso a fornire l’occasione: trattandosi del racconto dell’esperienza di un fotografo (Lefèvre) nel realizzare un reportage, il reportage stesso è giustamente parte del racconto, e il racconto è a sua volta un modo per dare ancora più senso e più gusto al reportage medesimo.

Il fotografo pp. 144-145

Guibert, Lefèvre, Lemercier, Il fotografo, pp. 144-145

Parlando in generale, l’immagine fotografica non è narrativamente autonoma: poiché essa consiste di un frammento visivo di mondo sottratto al suo contesto, ha bisogno che il contesto le venga in qualche modo ricostruito per acquistare significato (a meno che non si tratti di un gioco fotografico formale – il che va benissimo, ma in questo caso la fotografia non è così diversa dalla pittura, e il fatto di essere fotografia anziché pittura incide solo nella misura in cui aggiunge l’informazione che quelle forme lì che stiamo guardando esistono davvero nel mondo da qualche parte, e che bisogna solo saperle vedere). Il contesto viene ricostruito tipicamente attraverso titoli, didascalie, oppure inserendo le immagini come accompagnamento di un testo verbale narrativo (per esempio, un articolo sugli eventi che le foto mostrano).

I tentativi di fare racconto per immagini utilizzando direttamente le immagini fotografiche approdano di solito ai grotteschi risultati del fotoromanzo – riscattato solo in rarissimi casi da produzioni comunque di carattere intellettualistico e ostentatamente provocatorio. Il problema è che l’effetto realistico dell’immagine fotografica (in fondo si tratta davvero di un frammento visivo di mondo strappato al suo contesto) mal si armonizza con la natura grafica e convenzionale del balloon (qualsiasi forma esso prenda); mentre la scelta di accompagnare le foto con un racconto a pié di immagine (oltre a ricordare troppo le pratiche editoriali dei rotocalchi) non fa che sancire la separazione tra la funzione del raccontare (destinata alle parole) e quella del testimoniare-documentare (destinata alle immagini).

Anche ne Il fotografo è evidente che esistono parti con funzione di narrazione e parti con funzione di testimonianza; tuttavia la natura sostanzialmente visiva delle parti narrative rende lo scarto con le parti di testimonianza molto più piccolo. Così, le fotografie, pur essendo chiaramente testimonianza, riescono a essere insieme anche racconto, armonizzandosi con le vignette disegnate. L’effetto è quello di un racconto che costantemente ci sbatte di fronte alla realtà di quello che racconta, senza più la mediazione del disegno. Certo, c’è la mediazione della fotografia, ma Lefèvre è un reporter, ovvero qualcuno che (pur non negando, certo, la rilevanza del proprio punto di vista e delle proprie scelte) mira a rendere il più possibile il senso stesso della scena che sta riprendendo, e usa i propri strumenti per calibrare la foto in modo da trasmettere il più possibile il senso di quello che sta vedendo.

La fotografia è uno strano strumento comunicativo, che associa l’indubbia oggettività di quello che viene colto (immagini del mondo che impressionano la pellicola in maniera meccanica) con l’indubbia soggettività delle scelte che si fanno per coglierlo (dove puntare, in che momento scattare, che obiettivo e quanto zoom utilizzare…). L’accostamento con le vignette disegnate da Guibert sottolinea gli aspetti soggettivi delle foto di Lefèvre, rendendole parte della narrazione a tutti gli effetti. Tuttavia, questa parte stessa della narrazione è insieme anche la testimonianza, il documento, e l’oggettività di quello che Lefèvre ha visto ne viene fuori con una forza straordinaria.

Per diversi giorni dopo aver letto Il fotografo mi sono ritrovato a ripensarlo dentro di me come un grande film, perché l’effetto di coinvolgimento che aveva prodotto su di me era del medesimo tipo di quello del cinema. Il fotografo non è però un testo a fumetti particolarmente cinematografico in sé: è proprio la combinata di racconto e immagine fotografica a suscitare un tipo di coinvolgimento non dissimile da quello del cinema.

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Della controversa questione del plagio

Il genere musicale del Notturno fu inventato da John Field (1782-1837), ma fu il “plagiario” Frederik Chopin (1810-1849) a passare alla storia per i suoi Notturni. Basta ascoltarli e non è difficile capire il perché: davvero plagio?

Harold Bloom ha scritto nel 1973 un bellissimo libro (The Anxiety of Influence. A Theory of Poetry) sul difficile rapporto che ogni autore ha con gli autori che lo hanno ispirato: e, ovviamente, degli ispiratori ci sono sempre.

Comparaison Job-McCay

Job vs McCay (da Fumettologicamente)

Riallacciandosi alla polemica di qualche giorno fa sull’origine del fumetto, Matteo Stefanelli rende nota una scoperta sul plagio operato da Winsor McCay nei confronti di (almeno) due autori francesi di qualche anno prima: Rip e Job. Le immagini che vengono mostrate sul suo blog esibiscono una somiglianza che non si può contestare: penso che non ci siano dubbi sul fatto che McCay si sia fortemente ispirato a quelle pagine. Tanto più che, sul suolo americano, le probabilità che qualcuno si accorgesse della somiglianza con una pagina di giornale francese di venti anni prima erano davvero irrilevanti.

Ma fa bene Stefanelli a insistere sul fatto che nulla di tutto questo sminuisce il valore di McCay. Basta osservare la comparazione stessa di immagini che ci dimostra il plagio, per rendersi conto perché McCay sia passato alla storia e Job no.

Continua a essere dominante la convinzione che il cuore di un testo narrativo sia la storia raccontata, e che chi copia la storia copia il testo stesso. A partire da Shakespeare, dunque, gran parte degli scrittori e commediografi di tutte le epoche sarebbero dei plagiari. In verità, la storia raccontata è solo uno degli elementi che contribuiscono al fascino di un’opera, e spesso nemmeno il principale. La medesima storia è interessante nella pagina di Job e favolosa in quella di McCay. E la differenza sta in una concezione radicalmente diversa del rapporto tra sequenza di vignette e spazio della pagina, del tutto tradizionale in Job, ed estremamente innovativo in McCay. (Meglio, da questo punto di vista, il lavoro di Rip: ma l’abisso rimane)

Puntualizzato questo, l’influenza c’è, indubbiamente. E McCay ha indubbiamente visto quei lavori e li ha utilizzati come punto di partenza dei suoi. Il che non sposta di una virgola i termini della polemica sulla nascita del fumetto.

Anzi, forse li sposta. Mi viene voglia di proporre di posticipare di 10 anni la data convenzionale di origine del fumetto, dal 1895 (o ’96) al 1905, anno dell’uscita di Little Nemo. Lì sì che succede qualcosa di nuovo, e non solo nel sistema di produzione e consumo!

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“Del fumetto prima del fumetto”: the New Adventures

Mi sa che stiamo discutendo un po’ del sesso degli angeli. Siamo d’accordo sull’importanza della narrazione per immagini dell’Ottocento, sul fatto che Outcault non ha inventato niente o quasi (ma ha usato lo strumento comunicativo giusto al momento e nel contesto giusto), sul fatto che non è possibile se non arbitrariamente decidere quale sia l’occasione d’origine del fumetto.

A questo punto l’unico punto di divergenza nella polemica sta proprio attorno all’espressione fumetto. Ma l’ambiguità su quando iniziare ad applicare questo nome corrisponde a un’ambiguità nel termine stesso. In verità, se stessimo alla lettera, poiché la parola fumetto fa riferimento alla fatidica nuvoletta, non ne dovremmo parlare prima che compaia – e questo taglierebbe fuori tutto quello che succede in Italia per un sacco di anni. Ma una simile, drastica, scelta sarebbe stupida, e valida solo per l’italiano: né comics, né bande dessinée, né historietas pongono un problema analogo. Anzi, di cose comiche, di strisce disegnate e di storielle ne esistevano tranquillamente assai prima del 1896.

Insomma, non se ne esce più. Il tempo speso nel dibattito non è comunque tempo perso perché ci costringe ad approfondire le nostre posizioni. Però a un certo punto i dibattiti sul sesso degli angeli (tipica questione indecidibile, perché qualsiasi posizione si prenda è ragionevole anche quella opposta) stancano. La mia proposta è di parlare della storia della narrazione per immagini, e poi ciascuno deciderà per sé da quale momento storico in poi utilizzare la parola fumetto – tenendo comunque ben presente che sostenere che Ally Sloper non è ancora un fumetto non significa sostenere che è irrilevante per la storia del fumetto.

Marco Graziosi mi segnala che Ally Sloper non era destinato all’infanzia, ma a un pubblico popolare, che non escludeva quello infantile: la stessa situazione di Yellow Kid, dunque. Graziosi segnala anche che probabilmente il suo successo è stato un po’ sopravvalutato e che c’era anche altro a costruire le ragioni del successo delle riviste su cui compariva. Sulla prima osservazione, ho controllato: ha ragione. Anche se poi il modello è quello su cui si sviluppano le riviste per ragazzi britanniche del periodo (cfr. Alan and Laurel Clark, Comics. An Illustrated History, London, Green Wood, 1991). Sulla seconda non so, non ho informazioni; però è credibile che al successo di una rivista contribuiscano molti elementi, e non solo quelli che fanno piacere a noi.

Resta il fatto che Ally Sloper presumibilmete contribuiva, e non in maniera marginale, altrimenti nessun editore avrebbe usato il nome della serie per fondare una nuova rivista.

Quello che mi colpisce, di tutta la faccenda, è che il periodo di cui stiamo parlando, cioè la seconda metà dell’Ottocento, è anche il periodo di diffusione della stampa popolare – cosa che coincide con il diffondersi dell’alfabetizzazione anche alle classi meno abbienti. Tipicamente, si giustifica l’uso delle immagini a scopo narrativo in questo contesto attraverso il fatto che sarebbero più facili e più immediate per un simile pubblico, ancora non pienamente alfabetizzato; e comunque sensibile alle trattazioni umoristiche, leggere, assai più che a quelle drammatiche.

Non voglio mettere in discussione questa idea, che mi sembra sostanzialmente corretta. Però c’è lo stesso qualcosa che non mi torna del tutto. Cerchiamo di chiarire i termini della questione.

Una popolazione non alfabetizzata è una popolazione abituata a una comunicazione (e a una narrazione) orale, nella quale – come è ovvio nell’oralità – sono naturalmente presenti intonazioni espressive e atteggiamenti teatrali del narratore. In questo senso la narrazione per immagini non fa che riproporre una situazione che si avvicina un poco a questa, a un pubblico che è alfabetizzato da troppo poco tempo per aver già perso questa consuetudine. L’uso della caricatura nel disegno corrisponde perciò graficamente alle smorfie e alle mimiche del narratore, e magari funge anche da sostituto per le intonazioni espressive della voce, che la scrittura inevitabilmente perde.

E però, nel passaggio dalla dimensione sonoro/performativa del racconto orale alla dimensione scritto/disegnata del racconto per immagini si consuma comunque una trasformazione cruciale. Intanto c’è il passaggio da qualcosa che scorre a qualcosa che sta; ovvero da qualcosa che c’è solo in quel momento e poi mai più (e anche una ri-esecuzione non è detto che sia ugualmente efficace) a qualcosa che è ripercorribile con lo sguardo ogni volta che si vuole.

Non è un fattore da poco: è la differenza tra stare dentro a un flusso, ovvero vivere un’esperienza immersiva in un contesto di cui si è parte, e stare di fronte a una scena, ovvero essere testimone di una presenza che non ci coinvolge direttamente, se non perché condividiamo spazi contigui. La prima situazione, estremizzando un poco, è quella emotivamente coinvolgente del rito; la seconda è quella distaccata dell’osservatore scientifico.

Così, Ally Sloper & c. sono (volutamente o meno) i fattori di una trasformazione culturale, per cui la contemplazione distaccata, tipica delle classi alte e acculturate, si trasmette anche a quelle basse ed emergenti. Poco importa che si tratti di comunicazione visiva: il gap davvero grosso non sta tra guardare e leggere, ma tra guardare/leggere e udire/partecipare. La comunicazione visiva è già in qualche modo scrittura, e anche se si tratta di una scrittura che mantiene molte caratteristiche dell’oralità, il salto è già fatto.

Certo, possiamo considerare preferibile la situazione orale/partecipativa. È sicuramente molto più gustosa: non ci sono  dubbi – credo – per nessuno. Ma una società complessa come la nostra (e già nell’Ottocento era così) la rende pericolosa perché troppo facilmente sfruttabile da chi la sappia controllare. L’educazione alla lettura (anche attraverso il visivo) è perciò educazione al controllo e alla democrazia: guardare e leggere permettono di riflettere, anche se (o forse proprio perché) il trasporto emotivo difficilmente è comparabile a quello di una situazione udita/vissuta.

In questi termini, allora, il vero passo all’indietro nasce con due invenzioni, visto che sia quella di Marconi che quella dei Lumière permettono un imprevedibile ripresentarsi dell’oralità. Solo che nella radio e nel cinema (o, meglio ancora, nella televisione di qualche decennio dopo) l’oralità viene messa in gioco senza che possa mantenere le sue antiche prerogative di compresenza e interattività. Il nuovo rito, insomma, è un rito frontale, da spettatore, proprio come quello del leggere e del guardare, salvo che di fronte c’è un flusso, che richiede di immergersi e di partecipare, ma senza poter interagire.

L’oralità ritorna dunque prepotentemente in gioco, ma spogliata della possibilità di interagire. Lo spettatore guarda, come il lettore di fumetti, ma è lo spettacolo a controllare lui e non viceversa; e il suono lo invade, come nell’oralità tradizionale, ma senza possibilità di replica.

In barba a tutti i Fredric Wertham, non era certo il fumetto a corrompere i giovani. E anche se forse non tutti i fumetti potevano dichiararsi innocenti, di sicuro c’era già stato un Goebbels e ci sarebbe stato poi un Berlusconi: e il loro potere non è passato attraverso la mediazione della carta.

Il nuovo Ally Sloper si chiama Web. Mentre radio e TV ci danno l’esperienza immersiva senza l’interazione, il Web ci propone l’interazione di fronte a un nuovo tipo di carta, e comunque guardando e leggendo. Persino l’audiovisivo, sulle pagine di Youtube, si trova immerso in una situazione di lettura, e assume alcune delle caratteristiche dell’immagine statica.

Il Web forse ci toglie ancora un po’ di magia ed emotività immersiva in più, ma ci dà anche qualche ulteriore strumento contro chi usa quella magia ed emotività per i propri scopi. Credo che i (proto-)fumetti dell’Ottocento andassero nella medesima direzione.

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Il figlio di “del fumetto prima del fumetto”

Rinvio al post immediatamente precedente per i termini della polemica (e ovviamente al post di Stefanelli che ha iniziato il tutto).

Ally Sloper, dalla voce di Wikipedia

Parliamo di Ally Sloper. Già nel 1884 (ovvero 12 anni prima di quel mitico 1896) aveva un successo tale in Gran Bretagna, da permettergli di apparire su una rivista dedicata (Ally Sloper’s Half Holiday). Ma era, non dimentichiamolo, una rivista per l’infanzia, e ancora per l’infanzia lavorava Wilhelm Busch. Le cose sono diverse per Caran d’Ache, ma questo non impedisce anche alla tradizione francese di essere prima di tutto rivolta ai ragazzi.

Da questo punto di vista, in Italia, Francia, Gran Bretagna e Germania le cose avvengono all’incirca allo stesso modo; e il pregiudizio che associa il fumetto ai bambini ha proprio questa origine.

Negli USA, quello che fanno Outcault e soci è rivolto sin dall’inizio a un pubblico adulto (pur strizzando l’occhio ai bambini). Questo una differenza la fa. E il cinema non ha niente a che fare con tutto questo, né di qua né di là dall’oceano: oltre a non essere ancora nato quando queste cose hanno inizio, prima di diventare un modello a cui una parte dei fumetti si ispira bisogna arrivare almeno agli anni Venti.

Che poi la narrazione per immagini dell’Ottocento sia un campo di grande interesse, è difficile dubitarne. Ma bisogna anche capire a chi si rivolge il discorso; altrimenti si rischia di confondere le esigenze di semplificazione richieste dai testi per ragazzi con esigenze di differente espressività. Presumibilmente entrambi questi tipi sono presenti nella narrazione per immagini dell’Ottocento; e certamente i testi per ragazzi sono più sensibili alle innovazioni sia perché meno sacralizzati dalla dignità artistica, sia perché rivolti a un pubblico che vive già un mondo diverso.

Ma allora, in questi termini, il 1896 diventa anche il momento in cui una certa narrazione per immagini esce definitivamente e sistematicamente dal ghetto (protetto ma chiuso) della produzione per l’infanzia: quello che in Europa accadrà solo molti, molti anni dopo. (E non contano i casi singoli: stiamo parlando di grande diffusione)


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“Del fumetto prima del fumetto” strikes back

Rispondo a Matteo Stefanelli che commenta il mio post del 26 febbraio (che a sua volta commentava il suo del 3 febbraio).

Direi che tra la situazione dell’origine del cinema e quella dell’origine del fumetto c’è una differenza cruciale, che cambia tutto il modo in cui si possono considerare le cose. Il cinema deve la sua esistenza a un’invenzione tecnica, quella dei fratelli Lumière. Prima non poteva proprio esistere, per banali ed evidenti ragioni tecniche. Non c’è dunque problema a posizionare l’origine del cinema. E tutto quello che è accaduto prima e che in qualche modo lo anticipa ne è chiaramente preistoria.

Ma il fumetto non si basa sostanzialmente su nessuna invenzione tecnica. Tutti gli elementi che lo costituiscono sono già comparsi prima che compaia Yellow Kid. È un poco come cercare di decidere quando nasce il jazz: il periodo lo sappiamo, ma qualsiasi anno di nascita preciso si possa proporre è facilmente e legittimamente contestabile. L’origine del jazz è un fatto sfumato.

A meno che non si possa decidere, con una certa dose di convenzionalità, un evento particolare e particolarmente importante che faccia da spartiacque. È ovvio che la vita di un cittadino romano non è cambiata gran che dopo quel fatidico 476 d.C., e non sono stati in molti ad accorgersi di quel venerdì 12 ottobre 1492: sono date simboliche, per le quali si è scelto un evento le cui conseguenze avrebbero poi, col tempo, mutato la storia.

Il 1895 o 1896 (a seconda che prendiamo la data di pubblicazione di Hogan’s Alley, oppure il momento in cui Outcault si mette a usare il balloon e la sequenza) è dunque una data simbolica. Poiché non possiamo adagiarci sulla sponda tranquilla di un’invenzione tecnica, la più turbinosa e discutibile subitanea diffusione di massa che avviene negli USA in quel momento può essere una buona data per posizionare lo spartiacque.

Non che in Francia e Inghilterra e Germania non fosse già successo niente: era successo un sacco di roba, lo sappiamo! Ma Caran d’Ache, poniamo, era davvero consapevole di stare utilizzando un linguaggio nuovo? Sapeva di essere bravo, quello sì. Ma in fondo non faceva che realizzare (moolto brillantemente) dei racconti illustrati che potevano fare a meno delle parole.

Io ho la sensazione che il successo industriale del fumetto negli USA, proprio perché così improvviso e dilagante, dia da subito la sensazione agli autori dell’epoca di avere per le mani qualcosa di nuovo. E magari si sbagliavano (perché gli Americani, di solito, non sono particolarmente colti, e amano pensare di aver inventato qualcosa di nuovo, in barba alla vecchia Europa), ma, anche sbagliandosi, si sbagliavano tutti insieme: e in questa (forse) illusione collettiva l’espressione comics è passata ad essere un sostantivo dall’aggettivo che era.

Se non ci fossero stati gli americani, gli eleganti autori europei avrebbero continuato – come già facevano – a realizzare raccontini per immagini senza balloon e senza invenzioni di messa in pagina: non avremmo cioè avuto McCay, per esempio. Di fatto, è proprio questo che è successo in Europa sino a tutti gli anni Venti; e solo le spinte innovative provenienti dall’America hanno cambiato la situazione.

Poi, Rubino e Tofano sono ugualmente dei maestri, e io li amo molto entrambi; ma non dimentichiamo che fine facevano le tavole di Little Nemo quando diventavano il Bubu del Corriere dei Piccoli! È un po’ come quando, studiando la preistoria, si scopre che c’erano regioni in cui si era già all’età del ferro, mentre altre, poco distanti, magari stavano ancora scoprendo il bronzo. Ecco, rispetto al fumetto è andata un po’ così: il bronzo l’abbiamo scoperto noi, e l’abbiamo insegnato agli americani, poi loro hanno capito come si faceva il ferro e noi no.

Per questo, finché qualcuno non mi propone uno spartiacque altrettanto forte, io continuo a metterlo lì, tra il 1895 e il (meglio) 1896. Non è cambiata molto la narrazione per immagini tra poco prima e poco dopo quel momento; ma senza quel momento non so se avremmo la narrazione a fumetti oggi.

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Del fumetto prima del fumetto

La comunicazione visiva è sempre esistita, ma solo da William Morris in poi ha senso parlare di design, e in particolare di graphic design. Certo l’arte tipografica esisteva anche prima, ed esisteva l’artigianato che produceva gli strumenti della vita quotidiana e gli oggetti di arredamento. Ma ha senso parlare di design e di graphic design solo in un contesto di produzione industriale, ed è questo contesto che fa sì che dal XX secolo in poi il graphic design costituisca il cuore e la gran parte della comunicazione visiva.

Analogamente, la narrazione per immagini è sempre esistita, sin da quando si dipingevano i bisonti sulle pareti della grotta di Altamira, per farne presumibilmente gli attori di una storia raccontata a voce nel corso di una cerimonia rituale. Con l’avvento della scrittura e l’abitudine alla sequenzialità legata alla lettura, la narrazione per immagini prende talvolta essa stessa la forma di una sequenza, oppure inserisce filatteri di testo verbale in un contesto figurativo. In un certo senso gran parte della pittura medievale non è che narrazione per immagini, e non mancano gli esempi di sequenze narrative vere e proprie.

Ma il fumetto, che è certamente un tipo di narrazione per immagini, non esiste prima del 1895, e quello che fa la differenza tra Outcault e Töpffer non è un salto di qualità espressiva, bensì il sistema di produzione e consumo che li circonda – e all’interno del quale il lavoro di Töpffer appare come una curiosità mentre quello di Outcault come una novità di tale successo che bisogna immediatamente imitarlo.

Mi ricollego, dunque, alla segnalazione fatta da Matteo Stefanelli dell’uscita del libro di Thierry Smolderen Naissances de la Bande Dessinée. Preciso subito che il libro non ho ancora avuto modo di leggerlo, per cui i miei appunti vanno solo alla posizione di Stefanelli (e a Smolderen unicamente nella misura in cui il resoconto è fedele). Ci dice Stefanelli: “Quel che mi limito ad anticipare è che nel suo lavoro Smolderen ha messo al centro William Hogarth. La tesi è che la grammatica del linguaggio fumettistico si accende con Hogarth passando per Cruikshank, Töpffer e penetrando in tutti i big del fumetto ottocentesco come Cham, Wilhelm Busch, Caran d’Ache, fino ai ‘nipoti’ di inizio Novecento come Christophe, Outcault, Dirks, McCay ecc.” Sull’importanza di Hogarth non ci sono dubbi, e nemmeno sulla genealogia che ne segue. Ma perché dobbiamo confondere la specie fumetto con il genere narrazione per immagini?

Che oggi il fumetto sia la specie dominante all’interno del genere narrazione per immagini non ci autorizza a identificare le due cose. Vi sono tanti libri per bambini che sono indubbiamente narrazione per immagini, ma che non definirei mai fumetti. Gli storyboard sono narrazioni per immagini, ma non sono fumetti se non in senso lato, perché le somiglianze sono certamente forti ma le differenze anche. Quello che certamente possiamo dire è che Hogarth ha fornito un contributo sostanziale allo sviluppo della narrazione per immagini, e al coagularsi di convenzioni di successo, a partire dalle quali è nato il fumetto stesso. E tuttavia quello che succede negli ultimi anni dell’Ottocento negli Stati Uniti è davvero qualcosa di nuovo, che costituisce uno spartiacque così forte tra quanto c’era stato prima e quanto veniva ora ad esserci, come mai ce n’erano stati nella storia della narrazione per immagini.

Lo ripeto perché è importante: magari Outcault e i suoi contemporanei non hanno introdotto niente di nuovo nella narrazione per immagini (e non è così), ma quello che conta davvero è che essi hanno fatto la mossa comunicativa giusta al momento giusto e nel giusto contesto culturale e sociale. Questo ha scatenato una reazione fortissima, e ha fatto sì che in brevissimo tempo la gente fosse immediatamente in grado di distinguere che cosa fosse fumetto da che cosa fosse narrazione per immagini di altro tipo. Il linguaggio del fumetto si è perciò compattato in una serie di forme specifiche, riconosciute dal grande pubblico, e si è evoluto con rapidità sviluppandole e poi magari anche negandole (come sempre avviene nelle evoluzioni), ma non ignorandole. Dunque, mentre è del tutto legittimo – e anzi doveroso – esplorare la storia della narrazione per immagini partendo da 30.000 anni fa (e magari anche prima), la storia del fumetto non ne è che un episodio, iniziato poco più di un secolo fa. Mettere le cose diversamente significa giocare con le parole.

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E, visto che siamo in tema polemico, ne approfitto per affrontare un altro tema, molto più piccolo, un tema di parole, appunto. L’espressione graphic novel è entrata nell’italiano attraverso il suo uso al femminile: la graphic novel. Ci sarà anche un errore alla base di questo uso, ma è l’uso che fa la regola, e non viceversa. Altrimenti dovremmo correggere un secolo di trattati sul cinema, e sostenere che si dovrebbe dire la film, visto che pellicola è femminile in italiano. Qualcuno ha cercato di convincermi del fatto che film è maschile perché i termini stranieri che entrano in italiano vanno in maschile: ma allora dovremmo dire il weltanschauung, il sauna, il samba. Tutti e tre, questi ultimi esempi, mi suonano ridicoli almeno quanto il graphic novel.

Ovviamente, si può sempre tradurre, e invece di scrivere la graphic novel, possiamo scrivere il romanzo per immagini – e non sarebbe una scelta malvagia. Chi sostiene la tesi dell’errore (poiché novel significa romanzo, che è maschile) dovrebbe riflettere sul fatto che novel proviene dal francese novelle o nouvelle, che è a sua volta un calco dall’italiano medievale novella. E quindi l’errore si basa su una verità storica: sono stati gli inglesi a spostare poi il significato del termine. Che novella a un orecchio italiano continui a suonare femminile anche nella sua trasmigrazione linguistica non mi sembra un fatto così deprecabile!


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di Daniele Barbieri

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