E il fumetto prova a perdere la parola
Il Sole 24 Ore, 13 giugno 1999
Chi si ricorda che nella seconda metà degli anni Trenta, studente rumeno ed ebreo, poco più che ventenne, Saul Steinberg disegnava su “Il Bertoldo”, rivista satirica assai poco allineata al regime? Non era ancora, certo, l’intellettuale raffinato che le copertine e le pagine del New Yorker avrebbero fatto conoscere al mondo a partire da qualche anno dopo; ma le sue vignette senza parole erano già loquacissime, e sembrano appartenere, viste da oggi, a un epoca ancora a venire – segno che tale epoca a venire a lui e al suo stile ha poi dovuto molto.
Chissà: se non fosse stato per le leggi fasciste contro gli ebrei, forse Steinberg non avrebbe lasciato l’Italia – come invece fece nel 1940 – e la storia del prestigioso mensile di New York sarebbe stata diversa…
Steinberg non è stato un vignettista qualunque, e nemmeno un grande vignettista qualunque. Si ha l’impressione, guardando molti dei suoi disegni, di trovarsi di fronte a scarne e ironiche riflessioni sul mondo, sulla comunicazione, sul disegno stesso. Qualcuno l’ha definito un filosofo, ma la definizione non sembra calzargli davvero: manca solitamente ai filosofi quello sguardo divertito, quell’amore per l’apparenza (e solo l’apparenza) del nonsense. Un artista pensatore, semmai, che ha usato il pennino per tracciare non parole ma immagini parlanti, vere concrezioni di segni.
Steinberg ha portato al massimo grado la capacità di accostare, tramite il suo pennino, segni appartenenti a mondi comunicativi diversissimi, creando riflessioni implicite sull’uomo e sul suo modo di comunicare. La serie basata sui nomi dei grandi pensatori – per fare un solo esempio di tanti – è un manuale di semiotica della linea grafica, dove la dimensione, la posizione, il tipo dei caratteri sono altrettante componenti dell’effetto complessivo. E, altrove, i personaggi che disegnano se stessi, le divagazioni sulla linea, che diventa ora un profilo, ora il contorno della vignetta, ora una linea e nulla più, gli arabeschi calligrafici, suggeriscono la densità e complessità di un linguaggio, quello grafico, completamente maturo, maturo al punto, in Steinberg, di poter riflettere su se stesso – un potere tradizionalmente riconosciuto solo alla parola.
Steinberg ci lascia un patrimonio sterminato di immagini, e innumerevoli lavori su di lui. C’è una sua vignetta in cui un uomo dall’aria distinta porta a mo’ di trofeo un groviglio di nomi di eroi letterari, da Raskolnikov al Capitano Achab a Emma Bovary; lo affronta con fare spavaldo un individuo assai meno raffinato che brandisce un arabesco formato da un solo nome: Kim Novak. Come armi e come trofei Steinberg ha usato, con grazia e ironia, tutta la cultura di un secolo che ha attraversato da cima a fondo.
Saul Steinberg, Dog on leash
Un post di Caro su The Hooded Utilitarian mi riporta agli occhi l’arte di Saul Steinberg, ricordando quella che lui (ma solo lui, Caro) definisce una graphic novel ante litteram (del 1954): il volume The Passport. Che The Passport fosse una graphic novel è naturalmente solo una boutade da appassionato, ma la passione per il lavoro di Steinberg è un fatto del tutto comprensibile, indipendentemente dalla decisione (discussa nel post) se si tratti di fumetti oppure no – un tema su cui non mi pronuncerò qui.
Saul Steinberg, No
Io ho incrociato Steinberg su un numero di Linus degli anni Settanta, o forse ancora prima. Ne ricordo una vignetta spettacolosa in cui il personaggio seduto dietro a una scrivania parlava a quello seduto di fronte a lui, e il fiume di incomprensibili parole che costituiva il suo discorso era contenuto in un grande e arzigogolato balloon che formava chiaramente un enorme NO. Al di là dell’efficacia della gag, c’era qualcos’altro che indubbiamente m’intrigava in quel disegno, e che ritrovo pienamente negli esempi portati dal post di Caro (al quale rimando per vederne molti di più di quelli riportati qui – ancora di più se ne possono vedere, ovviamente, su Google images).
Con poche eccezioni, tutto il lavoro di Steinberg è basato sull’uso di un pennino sottile, dalla punta dura che consente poca modulazione della linea, e su un’estrema economia di segni. In qualche caso, come quello riportato in alto, questa estrema economia diventa quasi il tema, e l’effetto insieme lirico e ironico di questa immagine è tutto basato su una grande assenza evocata dalle poche presenze – o da un grande nero (il buio della notte) rappresentato dalla pagina bianca. In altri casi, come quello che segue, si arriva al virtuosismo di eseguire immagini figurative abbastanza complesse attraverso l’uso di una sola linea continua: e l’ironia di Steinberg ci rivela di colpo dimensioni percettive di cui non siamo consapevoli, e, insieme, strane relazioni tra le cose.
Saul Steinberg, Tree and dog
Non è tutto qui. Con le sue linee striminzite, Steinberg ha costruito uno stile molto ben riconoscibile, talmente personale da essere continuamente quasi una specie di firma. Non a caso, poi, la sua firma vera e propria quasi non si distingue dagli scarabocchi con cui, di tanto in tanto, imita la scrittura.
Questo segno così personale è una sorta di “io” grafico; attraverso il segno così riconoscibile, è come se per ogni immagine che ci presenta, Steinberg stesse (sommessamente) dicendo “io la vedo così”, “ecco la mia visione delle cose”. Questa forte soggettivizzazione toglie immediatamente alle sue vignette qualsiasi pretesa di rappresentare il mondo com’è, e ci invita subito a cogliere il punto ironico e/o lirico del suo discorso.
Nell’immagine che segue, la complessità della parte in basso la rende subito sfondo, mentre l’attenzione si concentra su quella in alto, che contiene il cuore del discorso – compreso il delizioso dettaglio della luna, che si trova inquadrata nel finestrino, come se appartenesse solo al mondo di chi dorme, e non al paesaggio sottostante.
Saul Steinberg, Airplane
La forte caratterizzazione dei pochi segni permette a Steinberg di ottenere l’immediata concentrazione dell’attenzione dello spettatore su quello che gli interessa comunicare. Ed è in questo modo che diventa possibile trasmettere anche qualcosa di molto sottile, di leggero e impalpabile: qualcosa che magari fa appena sorridere il lettore, magari con un’ombra di tenerezza, magari con un sospetto di crudeltà.
L’ultima vignetta qui sotto la dedico agli amici del blog Sinsemia, che si occupa di comunicazione visiva. Come a volte succede con le vignette di Steinberg, ho dovuto avanzare dei dubbi sulla mia prima interpretazione. A prima vista, mi è sembrato che la vignetta giocasse sulla scarsa capacità di progettare ( e quindi di pensare – think) del personaggio, proprio mentre scrive la parola think. Poi mi sono accorto che quello che lui sta scrivendo si può leggere anche come “thin k”, cioè “k sottile”, dove “sottile” è scritto in bold. La seconda lettura non esclude la prima, né viceversa. Su cosa gioca Steinberg?
Saul Steinberg, Think
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