LA NAVIGAZIONE PERICOLOSA (O DI RENATA MORRESI)
Di DANIELE BARBIERI
Mi rendo conto di disprezzare le poesie che danno troppo peso alle cose di cui parlano trascurando la qualità delle parole. A rigore, nemmeno avrebbero il diritto di essere chiamate poesie: sono semplice prosa che va a capo, e di solito anche cattiva prosa, perché scimmiottano senza accorgersene le parole della poesia. Quello che Sanguineti chiamava il poetese è questa lingua assunta acriticamente, attraverso la quale si pretende di arrivare alle cose facendo poesia. Certo, una di queste cose che emergono così importanti a dispetto della qualità delle parole è non di rado l’io: così eccoci nel campo della cattiva lirica, apoteosi del poetese. Ma può uscire ugualmente l’ineguaglianza, la rivendicazione sociale, la vita quotidiana: il civile non ci salva dal poetese, il minimalismo nemmeno.
Scarsa attenzione alle parole vuol dire ripetizione di moduli già pronti e un poco frusti, spesso nella convinzione che la giustezza delle idee e l’importanza dei temi riscatteranno la scarsa attenzione al modo in cui li si espone. Ma se questo può essere vero in politica, già tentenna vistosamente quando applicato alla prosa letteraria. La poesia, per parte sua, si trova proprio altrove.
Diffido, con qualche difficoltà in più, anche delle poesie che danno troppo peso alle parole con cui parlano, trascurando la qualità delle cose. Mentre il primo è un atteggiamento facilmente accusabile di ingenuità, questo secondo normalmente non lo è, poiché denota comunque un qualche tipo di consapevolezza letteraria, specie della poesia del Novecento, e una qualche riflessione in merito. Per questo mi è più difficile diffidarne, poiché appartengo al medesimo ambiente che produce testi di questo tipo.
È anche più difficile spiegare le ragioni di questa mia seconda – in realtà non meno effettiva – diffidenza. Poiché ritengo che anche le parole siano cose, dovrei pensare che lavorando sulle parole si lavori implicitamente anche sulle cose. E c’è indubbiamente del vero in questo. Ma questo lavoro sulle parole, sull’ostensione (critica) dei luoghi comuni, sulla combinatoria linguistica che produce lo straniamento, sull’elencazione secca, finisce talvolta per diventare a sua volta così secco da apparire sterile. Non mi convince la tesi secondo cui dev’essere il lettore a trovare la sua strada nel testo e i propri motivi di interesse: questo posso farlo anche con i fondi del caffè, con le configurazioni delle nuvole e con le parole estratte a caso da un sacchetto. Se si accettasse questo principio come principio estetico generale, qualsiasi cosa sarebbe una poesia o un’opera d’arte; e se è pur vero che io posso scoprire grandi verità e grandi bellezze in qualsiasi cosa o evento naturale o artificiale, e il ruolo del lettore è comunque importante, una poesia o un’opera d’arte dovrebbero essere qualcosa costruito apposta per favorire esperienze di questo genere – altrimenti la loro esistenza non avrebbe senso…
Prosegue qui, su Critica Impura.
Una riflessione acuta e misurata che condivido in pieno, anche se io (come credo anche Giuliano Mesa) preferisco viaggiare un po’ più vicino alle cose-non-parole, e interagire (per figura) con altri codici che non sono verbali.