Ieri sera ho consumato un piccolo lutto, leggendo l’ultimo numero di Magico Vento, ultimo nel senso dell’inglese last, e non latest: cioè l’ultimo in assoluto, non semplicemente il più recente. Un saluto in sordina, un po’ sotto il livello di tante storie di Gianfranco Manfredi; ma, d’altra parte, c’erano troppi fili narrativi da chiudere in una volta sola, e ci voleva pure una risoluzione sufficientemente definitiva, tipo quelle che il protagonista muore, oppure si sposa e vissero per sempre felici e contenti.
Magico Vento si sposa, o tutto lascia pensare che accadrà. Quanto al vivere felici e contenti, c’è sempre tempo per uno special, o per una miniserie dove i problemi ritornano fuori. Pazienza per il finale in sordina; ma peccato perché sia stato necessario arrivare alla fine.
Confesso che quando Magico Vento fece la sua uscita nelle edicole, l’idea di coniugare il western con l’horror mi era sembrata un po’ balzana. Però, invece, Manfredi si era rivelato subito uno sceneggiatore di talento – e alla fin fine questo mondo magico non è poi così fuori luogo nel diciannovesimo secolo, specie se il co-protagonista si chiama Poe. È solo l’epopea western statunitense che ha cancellato dal nostro immaginario storico tutto il mondo magico che allora esisteva, fortissimo negli indiani, ma forte anche tra i bianchi.
Insomma, quell’apparente improbabile pastiche si rivelava invece un racconto con basi antropologiche (oltre che storiche) fondate, e davvero godibile – il più delle volte – come lettura narrativa.
Quando Manfredi cantava, negli anni Settanta, Ma chi ha detto che non c’è, mi ci scoprivo tra l’affascinato e lo scandalizzato. La canticchiavo e insieme dicevo: no, così non si può fare. Per chi non la ricorda, quel testo eccessivo si può leggere, per esempio, qui. Oggi la si leggerebbe come un inno alla violenza, ma allora non era affatto l’inno delle Brigate Rosse, e il suo valore metaforico e provocatorio era evidente a tutti. E comunque poneva il problema.
A modo suo, anche Magico Vento ha posto il problema. E Manfredi lo ha fatto varie volte, a fumetti e non. Perciò ci aspettiamo che lo rifaccia, speriamo presto.
Nel frattempo, certo più in piccolo, è come se se ne fosse andato un amico. Ciao Ned. Stammi bene.
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Passando ad altro. Il blog Conversazioni sul fumetto ha appena pubblicato un articolo di Bill Watterson sul proprio lavoro con Calvin e Hobbes. Dalla serietà che Watterson dimostra, si comprende anche l’entità dello sforzo che alla fine lo ha spinto a lasciare – insomma, quello di cui parlavo qualche giorno fa.
La letteratura (e la tradizione orale) western dell’Ottocento americano era piena di storie di fantasmi, demoni, creature mitologiche, leggende più o meno macabre e truculente, “tall tales”. Basta leggere, ad esempio, certi racconti di Ambrose Bierce.
E del resto anche il primo Tex conteneva ancora molti di questi elementi fantastici.
Manfredi ha saputo ricomporre tutto ciò in un universo coerente, dove il fantastico convive senza problemi con la più accurata documentazione storico/antropologica.
Secondo me, il più bel fumetto seriale italiano degli ultimi 20 anni.
Mancherà molto anche a me.
Quoto in pieno Sergio. Manfredi ha saputo allestire e mettere in piedi un affresco narrativo a fumetti senza precedenti. Ha spezzettato la serialità a fumetti come l’abbiamo sempre conosciuta in Italia e l’ha fatta sua ricostruendone regole e strutture. Di Magico Vento se ne parlerà molto, in futuro. Mano male che il buon Manfredi è già all’opera su una nuova miniserie, Shanghai Devil, che dovrebbe essere un sequel di Volto Nascosto.