Dell’allitterazione, e di una poesia di Giovanni Giudici

Giovanni Giudici, da "Il ristorante dei morti", 1981

Giovanni Giudici, da "Il ristorante dei morti", 1981

Per quello che voglio dire in questo post questa poesia potrebbe essere sostituita da molte altre, ma è una bella poesia, e prenderla come esempio è anche un’occasione per farla leggere. Il tema di questo post è l’allitterazione, e a cosa serve.

L’allitterazione è un parente della rima, ma può ricorrere con molta più frequenza, dimostrando che il principio del parallelismo con cui Roman Jakobson pretenderebbe di spiegarne la ragione può essere certamente valido in casi particolari, ma è lontano dall’avere valore generale. Secondo Jakobson, infatti, il parallelismo sul piano dell’espressione (creato, per esempio, dalla presenza della rima) dovrebbe implicitamente suggerire un analogo parallelismo su quello del contenuto, portandoci a ipotizzare relazioni semantiche nascoste tra parole avvicinate da elementi comuni di suono. Ma in un caso come quello esemplare del dantesco “e caddi come corpo morto cade” – in cui tutte le parole sono legate da allitterazione o quasi-rima con quelle circostanti – se il principio del parallelismo dovesse avere valore universale, il verso si ritroverebbe coperto da un’alluvione di sospetti di legami di senso tra tutte le sue parole. Non mi sembra che sia così.

Trovo più proficuo semmai un approccio che va nella direzione delle proposte di Henri Meschonnic, che porta a considerare la presenza dell’allitterazione e di altre figure fonetiche come strumenti di accentuazione, capaci di focalizzare l’attenzione e produrre rilievo, grazie all’improvvisa e innaturale presenza di una ricorrenza regolare dei medesimi suoni in un contesto – quello della normale sequenza linguistica – in cui solitamente i suoni sono distribuiti senza uno schema fonetico preciso, essendo utilizzati come semplici mattoni da costruzione delle parole, e queste a loro volta come veicoli del senso, a prescindere dal loro suono.

La presenza stessa del verso, che inquadra e permette di focalizzare gruppi ristretti di parole, favorisce l’osservazione dei fenomeni fonetici (che esistono anche in prosa, ovviamente, ma si trovano a essere molto meno sottolineati). La presenza di schemi di suono regolari attira la nostra attenzione per lo stesso motivo per cui questo accade anche al di fuori del linguaggio, nell’interazione col mondo: là dove ci sono strutture regolari c’è potenzialmente vita, e quindi ragione di interesse per noi in quanto viventi, vuoi che si tratti di una preda, di un pericolo, di un amico o di un manufatto (Gregory Bateson insegna). Le strutture dotate di qualche regolarità sono i principali candidati ad essere forme non solo salienti ma anche pregnanti: come minimo la nostra attenzione viene risvegliata e ci spinge ad almeno una prima analisi. Intanto, però, l’allitterazione (come pure assonanze, consonanze, rime…) ha creato rilievo, motivo di attenzione sulle parole che la contengono, e il senso che esse trasmettono ne risulta sottolineato, a sua volta messo in rilievo.

Anche questo approccio ispirato alle posizioni di Meschonnic non esaurisce però il valore dell’allitterazione. Se infatti da una parte, in un ambiente tendenzialmente irregolare la presenza di locali regolarità si fa notare come eccezione, d’altra parte si può trattare di un’eccezione di carattere tranquillizzante, non appena si arrivi a riconoscere la sua natura di manufatto, ovvero di oggetto realizzato secondo le regole dell’uomo, a noi comunque più familiari di quelle della natura extraumana. Questa percezione di regolarità tranquillizzante sarà tanto più forte quanto più ampiamente diffusa nel testo (come accade alle rime nella metrica italiana tradizionale; o come accadeva all’allitterazione stessa nei metri germanici antichi, il cui verso prevedeva obbligatoriamente la presenza di più parole allitterate). Ma l’allitterazione si presta molto più della rima a creare aree particolarmente dense di queste iterazioni, organizzando il testo (da questo specifico punto di vista) in aree strutturate e non strutturate (zone allitterate e rimanente del testo), o di confortante senso sonoro e di neutro rumore bianco. Teniamo sempre presente che la poesia non è, a differenza della prosa, un semplice dominio del senso, discorsivo o narrativo, dove le parole sono puri tramiti trasparenti. Un componimento poetico assomiglia piuttosto a un luogo, del quale sappiamo che molte – magari tutte – le cose che lo popolano hanno un significato nascosto; tuttavia per scoprire questi significati nascosti non abbiamo altra strada che iniziare a valutare gli oggetti per il loro aspetto esteriore. Gli oggetti della poesia sono le parole di cui essa è fatta, e il loro aspetto esteriore è dato dal suono non meno che dal loro significato più immediato ed evidente.

Il componimento di Giudici è scritto in una lingua mediamente piuttosto piana e colloquiale, con una normale distribuzione dei fonemi della lingua italiana. Solo in alcuni punti si aggregano alcuni fenomeni di ricorrenza fonetica, creando aree di rilievo. Altri rilievi, che non approfondiremo qui, vengono suggeriti da sorprese di carattere discorsivo o narrativo, come il “puzzo di cavoli” del decimo verso, nonché naturalmente dal procedere stesso dell’argomentazione sino all’effetto liberatorio della fine.

L’inizio del componimento è già allitterato, con l’insistenza sulle liquide (il luogo era lo), seguito da alcune parole in assonanza e rima (stesso, ma preso di peso), che si incrociano con una seconda, più forte, allitterazione (preso di peso e portato). Segue un verso senza particolari ricorrenze che però annuncia, già nella sua parte finale (non nel) l’allitterazione lunga e forte che segue (vicolo / fitto di facce da festa di streghe), dove la dominanza del suono f rende pertinenti i vicini suoni simili v e s.

Questo terzo verso è particolare anche per altre ragioni: è infatti un endecasillabo, il primo che incontriamo in un componimento in versi liberi, e possiede un sistema di accenti estremamente regolare, di carattere dattilico (1, 4, 7, 10). Un verso che si fa notare, insomma, sotto diversi aspetti, un verso costruito con forme tradizionali innestato in un contesto di linguaggio apparentemente più prosastico e colloquiale, un verso talmente concluso in sé che la scoperta dell’esistenza di un enjambement viene fatta solo a posteriori, quando già si sta percorrendo il verso successivo, e ci accorgiamo che in verità quell’andamento così ritmicamente definito dovrebbe sciogliersi nella continuità del discorso – mentre è impossibile che possa farlo del tutto.

Ce ne sono ancora altre, nei versi successivi, di queste ricorrenze allitterative: “L’ognigiorno del sogno”, “femmina e maschio che tremano ai minimi rumori”, “via vai a voce”, “succedeva / Volevo semplicemente un po’ scherzare”, “nessuno ci conosce”.

Escludo che il principio del parallelismo di Jakobson possa essere di qualche utilità per spiegare questa presenza diffusa: le parole allitterate sono troppo vicine tra loro perché abbia senso postulare un richiamo semantico basato sulla somiglianza fonetica, visto che ce n’è già un altro, molto più forte ed evidente, che si basa sulla vicinanza, o addirittura sull’appartenere alla medesima proposizione, se non anche al medesimo sintagma.

La funzione di creazione di rilievo è invece plausibile, però si trova in concorrenza con creazioni di rilievo di altro tipo. E poi, quando i rilievi sono troppi, o troppo frequenti, finiscono per neutralizzarsi a vicenda.

C’è piuttosto, io credo, in questa frequenza dell’allitterazione, un indice di poeticità, che ha il particolare vantaggio di non pagare alcun debito nei confronti della nostra tradizione (come fa invece l’endecasillabo al terzo verso). In altre parole, un po’ come il verso germanico antico aveva bisogno dell’allitterazione per dimostrarsi verso, perché la sua natura unicamente accentuativa (senza nessuna quantità definita di sillabe o di piedi) era di per sé troppo debole per permettere di riconoscere a orecchio il verso, in maniera simile una poesia come quella di Giudici (e di molti altri poeti del Novecento), basata sul verso libero e su una lingua “non poetica”, può utilizzare l’allitterazione (e altre ricorrenze fonetiche poco canonizzate dalla tradizione italiana) per rendere evidente la propria natura di ambiente verbale costruito, ovvero di poesia. L’allitterazione è cioè uno stratagemma artificiale, un manufatto esplicito, una deformazione della normalità della lingua che si mostra come tale, e perciò un indice di poeticità – ma col vantaggio di non richiamare la tradizione (come invece farebbero le rime, i versi regolari o canonici, la scelta di termini più aulici, e così via). A differenza delle ricorrenze della tradizione, infatti, l’allitterazione è locale, e può quindi essere di carattere tranquillizzante (in quanto evidente manufatto, secondo il principio che enunciavamo sopra) senza che il testo nel suo complesso appaia tranquillizzante – come invece accade inevitabilmente con l’assunzione tradizionale globale di un metro rigido o di un sistema di rime. La poesia del Novecento rifiuta l’inquadramento tranquillizzante della tradizione, in nome di una più efficace espressività – e perché quella maniera di tranquillizzare verrebbe ormai sentita come falsa. La località dell’allitterazione ne fa uno strumento espressivo anche in questo senso, permettendo persino di mettere a contrasto aree più esplicitamente manufatte (e quindi più tranquillizzanti in questo senso) con aree più “prosastiche” e selvagge.

Naturalmente non è l’unico stratagemma possibile a questo scopo; parlando di Amelia Rosselli ne avevamo già identificati altri – e anche lì, nella Rosselli, il rapporto con la prosa e con l’ostentazione del manufatto è indubbiamente forte.

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Del fascismo e dei fumetti, eccetto Topolino

Fabio Gadducci, Leonardo Gori, Sergio Lama, "Eccetto Topolino. Lo scontro culturale tra fascismo e fumetti", Nicola Pesce Editore 2011

Fabio Gadducci, Leonardo Gori, Sergio Lama, "Eccetto Topolino. Lo scontro culturale tra fascismo e fumetti", Nicola Pesce Editore 2011

Lo si capisce già dalle prime pagine, che Fabio Gadducci, Leonardo Gori e Sergio Lama hanno fatto un magnifico lavoro; e poi, andando avanti, la qualità e profondità della loro ricerca diventa sempre più evidente. Ho letto Eccetto Topolino quasi come se fosse un romanzo, perché non solo imparavo l’andamento di una vicenda, quella del fumetto in Italia negli anni Trenta, di cui ignoravo (come più o meno tutti) una grande quantità di dettagli, spesso presentati in questo libro per la prima volta; ma anche perché la visione ravvicinata di questi eventi permette di capire davvero, quasi di toccare con mano, che cosa volesse dire il controllo fascista della stampa, e il tentativo di uniformare il pensiero di tutti gli italiani, cominciando dalla gioventù, a quello che Mussolini e i suoi ritenevano che fosse il bene.

Per puro caso, la mia lettura coincide con i giorni degli omicidi di Gianluca Casseri e del dibattito su Casa Pound. Sarà stata questa diffusa immersione nel clima fascista che mi ha spinto ad andare a vedere il sito di Casa Pound, a leggere qualcosa di quello che scrivono, e in particolare il loro programma. Confesso che nel leggerlo mi sentivo attraversato da dei brividi, perché ritrovavo nelle loro parole quella strana mistura di condivisibili rivendicazioni sociali e cieca adesione a un ideale nazionalista che caratterizzò anche il fascismo storico, almeno nella sua fase ideale, i primi anni di vita. Non va dimenticato che nel vocabolario dell’Italia degli anni Dieci e Venti del Novecento, la parola “fascismo” era pressoché sinonima di “socialismo”, perché il riferimento era ai fasci dei lavoratori, i quali erano organizzazioni di ispirazione socialista. Quello che Mussolini fondò si chiamava Partito Nazional-Fascista (proprio come in seguito Hitler, traendone ispirazione, chiamò Nazional-Socialista il proprio partito, e ne disegnò una bandiera che associava al rosso del socialismo la svastica ariana).

"Eccetto Topolino", pag. 50

"Eccetto Topolino", pag. 50

La deviazione nazionalista ci è particolarmente disgustosa, oggi, ma non dimentichiamo che in Russia le cose andarono diversamente solo per quanto riguarda l’organizzazione economica, ma quanto alla fede nell’ideale e al disprezzo e repressione di ogni opinione anche solo potenzialmente diversa, non ci sono state sostanziali differenze. In ambedue i casi è terribile la cecità sciovinista di adesione alla causa, che non permette che venga avanzato nessun dubbio, perché chi avanza dubbi è nemico della Nazione (o del Popolo), e tutto deve essere finalizzato alla costruzione della società perfetta, senza permettere deviazioni (cioè, sostanzialmente, opinioni divergenti su cosa sia la perfezione o su come la si possa raggiungere). In ambedue i casi è poi deprimente vedere come sotto la maschera dell’adesione alla causa si celi il fitto intreccio degli interessi di parte, se non addirittura personali, il cui sviluppo è favorito (per i privilegiati dal regime) dalla medesima cortina repressiva che dovrebbe proteggere lo sviluppo dell’idea.

Nel libro di Gadducci, Gori e Lama, il funzionamento di questo meccanismo diventa evidente, proprio perché osservato nel dettaglio rispetto a un problema molto specifico, quello dello sviluppo editoriale del fumetto in Italia negli anni Trenta, e della successiva repressione, sino agli anni della guerra e della caduta del regime. Dalle comunicazioni personali e da quelle ufficiali, dalle note del ministero e dalle suppliche degli editori (persino di quelli, come Nerbini, che potevano contare sul fatto di essere stati Fascisti della prima ora), dalle concessioni e dalle rigidità, dalle regole e dalle furberie messe in atto per eluderle, da tutto questo si capisce davvero bene come funzionavano le cose, e quale fosse l’intreccio degli interessi, inizialmente filo-americani e poi di colpo anti-americani, non appena entra in scena la Germania nazista.

Da questo punto di vista, il fumetto è un ottimo campo di osservazione. Lo è perché rappresenta un ambito non direttamente legato alla politica (nessuno dubita mai che si tratti di prodotti di evasione, sostanzialmente per un pubblico giovanile), di carattere commerciale, e rivolto all’America. Sta in questo la sua natura ambigua, dal punto di vista del regime, per cui viene dapprima ignorato e in seguito sempre più strettamente regolamentato, in maniera tanto più stretta quanto più si fanno tesi i rapporti con gli Stati Uniti.

"Eccetto Topolino", pag. 316

"Eccetto Topolino", pag. 316

Colpisce, indubbiamente, il fatto che il divieto colpisca indistintamente tutti i fumetti americani (e quindi l’obiettivo reale sarebbe il loro essere americani) eccetto quelli di produzione Disney. La spiegazione ufficiale (secondo cui l’eccezione sarebbe dovuta all’essere, i fumetti Disney, non moralmente pericolosi) evidentemente non regge, perché erano tanti in verità i prodotti americani ugualmente innocui (o ugualmente pericolosi). È evidente che c’è altro, sotto, sino all’eventuale banale spiegazione (quella più diffusa, e alla fin fine non del tutto impossibile) che Topolino piacesse ai figli del Duce. Ma probabilmente anche la visita personale di Walt Disney a Mussolini doveva aver fatto la sua parte…

Per chi sia interessato alla storia del fumetto, Eccetto Topolino è una lettura necessaria, che risponde anche in parte alle istanze di Paolo Gallinari sulla necessità di una storia del fumetto italiano. Ma si tratta di una lettura di grande interesse anche per chi non è direttamente interessato al fumetto, perché si tratta inevitabilmente di una storia del rapporto tra il fascismo e l’editoria, e tra il fascismo e la cultura, specie quella popolare – e di una storia vista molto da vicino, un’affascinante immersione in un’epoca prossima e per fortuna così diversa dalla nostra. Un’immersione che rende molto ben chiaro perché sia necessario opporsi con tutte le forze oggi a chi ci vuole riportare a quella condizione, vuoi con spirito nostalgico vuoi con spirito leghista o berlusconiano.

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Di una foto con gli ombrelloni gialli

La terrazza con gli ombrelloni gialli

La terrazza con gli ombrelloni gialli

Non so dove siete voi, ma io non sono qui. Peccato! Non sarebbe male come posto dove celebrare il cambio di anno.

Di questa foto mi piace, a sinistra, il contrasto tra il giallo e l’azzurro, convergenti col cielo chiaro in mezzo; e poi, nel complesso il contrasto tra le tinte chiare a sinistra e quelle scure a destra. E poi ci sono una serie di echi: per esempio tra le forme chiare e brillanti degli ombrelloni e quelle scure e verdi delle sedie, riprese ancora dalle lampade bianche; o l’intreccio delle linee rette orizzontali e verticali, contraddetto dalla diagonale zigzagante che comincia proprio vicino, in basso a sinistra, e si perde in fondo; e il giallo degli ombrelloni si riflette sul reticolo delle tovaglie di plastica.

Però più di tutto vorrei essere lì, a ordinare una birra e guardare il mare, e il muro bianco in fondo, occupando una frazione di quello spazio vuoto nell’ombra. Ancora altro giallo nel mio bicchiere. E fuori una luce davvero abbagliante.

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Di un’immagine che ha fatto molta strada

Suehiro Maruo, La strana storia dell'isola Panorama (Coconino 2011), p.262

Suehiro Maruo, La strana storia dell'isola Panorama (Coconino 2011), p.262

In una pagina del volume di Suehiro Maruo di cui abbiamo parlato nel post precedente si fa esplicito riferimento a un dipinto di Arnold Böcklin (1827-1901), L’Isola dei Morti. È un’opera di grande e duratura fama, che ha sempre colpito molto. Ci informa Wikipedia che tra i suoi ammiratori si annoverano Freud, Clemenceau, Dalí, D’Annunzio, Lenin e Hitler, il quale ne fece addirittura acquistare, lui che poteva, una delle cinque versioni originali.

Il dipinto è molto bello, in tutte le versioni (personalmente, quella che preferisco io – e che ho riprodotto qui – è la terza). Ma non è sufficiente la bellezza per raggiungere una simile fama trasversale. C’è evidentemente qualcos’altro che affascina in questa immagine. Questo altro ha certamente a che fare con il tema della morte, ma pure quello non basta, e nemmeno in tandem con la bellezza.

Arnold Boecklin, Isola dei morti, terza versione, 1883

Arnold Boecklin, Isola dei morti, terza versione, 1883

Gordon, Edizione Fratelli Spada, n.8, novembre 1964

Gordon, Edizione Fratelli Spada, n.8, novembre 1964

Gordon, Edizione Fratelli Spada, n.9, novembre 1964

Gordon, Edizione Fratelli Spada, n.9, novembre 1964

Il mio primo contatto con quest’opera è stato indubbiamente molto trasversale, ma ugualmente molto forte. Era il 1964 quando leggevo sulle pagine della terribile (ma unica in Italia) edizione di Flash Gordondei Fratelli Spada l’episodio dei ribelli di Mongo, quando i cunicoli in cui essi si sono nascosti vengono fatti esplodere da Ming e i nostri eroi si trovano catapultati nel fiume, trovando rifugio presso l’Isola delle Tombe, per proseguire poi da lì la loro lotta infinita. Ricordo benissimo la fascinazione che ebbe su di me l’immagine di quell’approdo all’isoletta tombale. All’epoca ignoravo ovviamente tutto di Böcklin e non avevo nessuna possibilità di cogliere il riferimento presente nella pagina di Raymond (non solo nella vignetta dell’approdo, ma anche in quella dell’esplosione è chiaramente riconoscibile sullo sfondo il profilo delle rocce e dei cipressi dell’Isola dei Morti): eppure persino in questa interpretazione così lontana il concetto alla base del dipinto restava fascinoso, intrigante.

Ma se il fascino di questa immagine regge a una ricostruzione così radicale, evidentemente non è la qualità pittorica del dipinto a fare la parte del leone. Sarà magari allora questa idea di un isola come luogo separato della morte, pieno di quiete e di bellezza, ma anche di una serie di oggetti simbolici: i cipressi, la pietra scavata, l’antichità…

Alex Raymond, Flash Gordon, tavola del 29-05-1938

Alex Raymond, Flash Gordon, tavola del 29-05-1938

Salvador Dalí, La vera immagine dell'Isola dei Morti di Arnold Böcklin all'ora dell'angelus, 1932

Salvador Dalí, La vera immagine dell'Isola dei Morti di Arnold Böcklin all'ora dell'angelus, 1932

Hans Ruedi Giger, Omaggio a Boecklin, 1977

Hans Ruedi Giger, Omaggio a Boecklin, 1977

L’Isola dei morti non è il titolo dato dall’autore, che si riferiva piuttosto alle proprie diverse versioni chiamandole L’isola dei sepolcri, proprio come in Flash Gordon. È però un titolo azzeccato, perché quella che vediamo tanto nel dipinto come nelle immagini ad esso ispirate è molto più che un’isola cimiteriale, nel suo possedere intimamente una serie di attributi che la tradizione occidentale associa alla morte: la quiete, la separatezza, il mistero, l’antichità…

Attraverso il gioco dei rimandi di senso l’isola dei morti diventa simbolicamente ma intensamente l’isola della morte, anzi la morte stessa. Ed è tuttavia, nella sua dimensione inquietante, un luogo di grande bellezza. Non ci stupisce che questa associazione di morte e bellezza possa aver colpito tanto l’immaginazione di un’epoca di cui il Decadentismo rappresenta una delle tensioni ideologiche più forti. E tuttavia anche per noi, che dal Decadentismo ci consideriamo abbondantemente fuori, l’idea di una morte così intensamente bella appare al tempo stesso conturbante e consolante.

Su questa base, un’immagine diventa facilmente una sorta di luogo comune. A questo punto, anche a prescindere dalle ragioni iniziali del suo fascino, dovremo aspettarci di ritrovarla citata con frequenza, persino in contesti insospettabili.

Gipi, Isola dei morti

Gipi, Isola dei morti

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Del decadentismo e del Giappone, o di Suehiro Maruo

Suehiro Maruo, La strana storia dell'isola Panorama (Coconino 2011), frontespizio

Suehiro Maruo, La strana storia dell’isola Panorama (Coconino 2011), frontespizio

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Quando apro La strana storia dell’isola Panorama provo un immediato senso di già visto, di forte richiamo visivo. Dopo un secondo riconosco alcuni aspetti dello stile decorativo di Antonio Rubino. Eppure non è molto plausibile che un autore giapponese dei primi del XXI secolo ne citi uno italiano di un secolo prima.

Ci vogliono alcune pagine per entrare nel tema di questa storia, e capire la ragione del rimando, che certamente rimando non è, se non indiretto: diciamo quindi dell’analogia. Siamo negli anni Venti del Novecento, il 25 dicembre 1926, data della morte dell’imperatore Taisho. Suehiro Maruo ha adattato e realizzato a fumetti un romanzo dello stesso 1926 di Edogawa Ranpo (1894-1965), dove si racconta del sogno di uno scrittore di scarso successo, e del percorso verso la realizzazione di quel medesimo sogno.

Antonio Rubino, Versi e disegni, 1909, frontespizio

Antonio Rubino, Versi e disegni, 1909, frontespizio

Lo scrittore vagheggia la costruzione di un paradiso, un’isola dei piaceri, un giardino delle delizie in cui la bellezza, l’amore e la morte convivono in perfetta ed estetica (estatica) armonia. Maruo ci conduce freddamente e minuziosamente attraverso il percorso del protagonista, per indugiare poi a lungo nella descrizione del paradiso, l’isola Panorama. L’effetto è intrigante e inquietante, perché la bellezza, l’amore, l’orrore e la morte sono tutti congiuntamente presenti e inscindibili, tanto nella storia raccontata quanto nell’ispirazione e nello stile stesso dell’autore. Tra l’altro fu proprio con un volume di Maruo che, dieci anni fa, Coconino aprì la propria vicenda editoriale: Il vampiro che ride, una storia non meno orrorifica ed estetizzante.

Ma non è solo per i meriti narrativi di Ranpo e per quelli narrativi e grafici di Maruo che vale la pena di parlare di questo libro intrigante. L’accostamento a Rubino, e, più avanti, persino al Magnus de Le centodieci pillole, sono interessanti proprio perché non possono essere considerate citazioni. Semmai, il punto è che, da sponde opposte, tanto Maruo quanto Magnus rimandano a un’estetica decadentista e simbolista che ha a che fare tanto con l’Occidente quanto con l’Estremo Oriente. E Rubino, almeno nella sua prima fase, in questa estetica ci viveva dentro.

L’influsso delle forme visive giapponesi, a partire dagli ultimi decenni dell’Ottocento, in Europa è profondo – proprio come è profondo, in Giappone, l’influsso della letteratura e della cultura europea. È anche questo scambio a preparare il futuro successo occidentale della letteratura giapponese, e pure del manga, i quali pur essendo tutti profondamente nipponici, sono anche chiaramente il risultato di un profondo influsso reciproco, che ha preparato il campo agli autori e ai lettori di entrambe le parti.

È forse per un problema di prospettiva (o forse no) che l’Occidente ha la sensazione che certi temi del Decadentismo, certi estetismi e certe utopie, permangano nella cultura giapponese molto più che da noi, e ci arrivino di ritorno, protetti oggi dall’esotismo, ma fomentati dal fatto di essere appartenuti profondamente anche alla nostra cultura, pochi decenni fa. In fin dei conti, fu l’italiano Gabriele D’Annunzio a realizzare, quando occupò Fiume, nel 1919-20, un tentativo di società utopistica basato sulla proprietà comune e sul piacere diffuso, che si poneva al di fuori di qualsiasi logica politica, e fu soffocato presto dalle cannoniere italiane inviate a restaurare l’ordine.

Indubbiamente, l’Occidente si è in seguito stancato di queste utopie, figlie minori degli stessi ideali illuministici (e rousseauiani) che hanno portato anche al Comunismo sovietico, e al suo terrore. D’altra parte, in quelle invenzioni letterarie, la bellezza si rivelava tipicamente inscindibile dalla rovina, e il godimento sensuale dalla morte, in una sorta di metafisica d’artista di nietzscheana memoria. Maruo è godibile anche perché non si ferma davanti a nulla: non illude, non mente. Le ambiguità del Giardino delle delizie di Bosch sono esplicitamente davanti agli occhi, e il luogo simbolico del tutto è un piccolo cimitero su un’isoletta rocciosa.

Questo, però, merita un post a parte.

Suehiro Maruo, La strana storia dell'isola Panorama (Coconino 2011), pp.180-181

Suehiro Maruo, La strana storia dell’isola Panorama (Coconino 2011), pp.180-181

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Di una foto appena inquietante

La casa azzurra

La casa azzurra

Io trovo questa foto inquietante. Penserete che l’aggettivo è eccessivo, perché non si vede nulla qui che possa spaventare o mettere ansia o preoccupare in qualche modo. Anch’io non capisco bene che cosa produca in me questo vago senso di disagio. Procedo perciò per osservazioni e per ipotesi.

Potrei dire che, intanto, c’è questo senso di “fuori luogo” per l’oggetto in primo piano, che non è un oggetto da strada. Il senso di “fuori luogo” persiste anche se so che quest’oggetto si trova in strada in occasione di una processione religiosa, ed è portato a spalla da alcune persone (di cui si intravede appena la sommità della testa, a sinistra).

Ma appare “fuori luogo” anche la casa azzurra che sta dietro al baldacchino, troppo perfettamente azzurra per essere un vero esterno urbano e antico (come lasciano pensare le finestre). Inoltre, l’elegante scritta “Orange” in basso a sinistra dà all’insieme una superficie da pagina di rivista, da pubblicità patinata. Eppure questa casa esiste davvero, ed è proprio così, in un posto specifico, e non ho nemmeno ritoccato il colore, neanche di un poco.

Sono colpito – non posso negarlo – dagli intarsi dell’argento e dall’andamento eccessivo delle volute che sostengono i ceri, e anche, particolarmente, dal modo in cui questa preziosità di argento in primo piano trova seguito nella preziosità della lavorazione del legno delle finestre seminascoste dal baldacchino stesso.

E poi c’è il cielo, bianco come la parete della casa a destra. Non posso fare a meno di pensare che il colore che manca, in quel cielo, è esattamente quello che, in versione artificiosa e da negozio elegante, abbonda nella parete della casa azzurra.

Insomma, incominciano a delinearsi una serie di contrasti: sacro e profano, antico (permanente) e attuale (effimero), colorato e acromatico… Solo che i poli di queste opposizioni non si trovano dove dovrebbero stare: l’azzurro non è nel cielo, il bianco non è nel muro, l’effimero sta nel luogo del permanente, il sacro sta davanti all’effimero. E l’effimero è elegante: questa casa non è niente male, compreso il raffinato lettering della scritta, e il contrasto cromatico con le bande verticali ocra. Mentre il sacro appare eccessivo, quasi ridicolo.

I colori sono tutti puri, a campiture piene, quasi senza sfumature; mentre le sfumature, quando ci sono, riguardano solo le zone in cui il colore non c’è, come l’argento del baldacchino. La sensazione complessiva è quella di un mondo senza colore, su cui si stagliano pochi oggetti uniformemente e artificiosamente colorati.

Tra questi, quelli che emergono di più sono i fiori rossi, col loro peduncolo giallo, un tipo di fiore di cui non ho mai potuto fare a meno di osservare il forte richiamo sessuale, ma che qui, oltre al sesso, mi trasmette l’effetto di una diffusa macchia di sangue. Poiché sopra al baldacchino c’è una croce, strumento di tortura e di morte prima che simbolo religioso, la presenza del sangue non è affatto impertinente.

Ecco quindi il quadro complessivo: un mondo smorto in bianco e nero su cui si staglia il contrasto vivacissimo a colori tra un profano effimero ed elegante e un sacro barocco e pieno di sangue, che innalza le sue luci bianche e a loro volta senza colore verso un alto ugualmente senza colore.

Allora è forse questa l’inquietudine che questa fotografia mi suscita: il timore di ritrovarmi in un mondo senza colore e interesse, dove il colore e l’interesse stanno solo in due cose: in un’eleganza effimera e in una religione contorta e sanguinaria.

È solo una foto. Meglio guardare altro.

A meno che l’ansia non provenga, banalmente, dal richiamo alle spire dei tentacoli di Octopus che questi bracci contorti di candelabri suscitano nella mente ugualmente contorta di un lettore eccessivo di fumetti. Vedi te gli effetti che mi produce il Natale imminente.

Auguri!

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Della poesia di Marco Giovenale

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La lepre scalcia per rientrare nella tana
Fumo degli odori, insetti, niente si accorge.
In realtà aperta nel centro della strada,
la strada assorbe il rosso, occhi, crema.

Entra la Notte, si sparge.

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Quando sono finite le siepi
sversano la foto delle siepi.

Teste, fai il sigillo autentico,
cola cera. (Dal sole).

Argomento e destinazione.

Ma al muro dei due arsi
sotto il camminamento a castello
che curva le edere, potus, l’olivo largo
abbracciabile poco, ricorda la traccia all’olfatto
di umido, la gabbia-finestra di croci
come la osservava dal vetro verde grasso
essendo ancora pochi gli anni del corpo
gli anni del principio

– lì la cucina ingrandisce ricordata
ma la spende la polvere, la raggia.

Stamattina entra, ha ritorno con le lingue
di memoria. Nel nero di mura, nel viola
che forza o sfiora serrature poi travi
orizzontali di ferro, a vuoto. Sente

Allora sarà bello quando noi
che qui abbiamo abitato (amato)
saremo tutti nomi morti
saremo tutti dai nostri stessi
semi – gli ultimi esiti pieni –
perfettamente finiti, senza resti
in nessuno che abbia
sia pure irriflessa – parola

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Il freezer perde acqua, già, funziona ancora –
il tubo butta nella ruggine,
servono soldi per cambiare.
Il fetore si sente a trenta metri.
La casa tutta la notte è al buio
fuori; sono fulminati i fari,
la scala altissima da qualche anno è marcia,
non ha sostituzione.
Lui stesso non vorrebbe dirne.
C’è il nero delle api, si vergogna.
Non sopportabile ne sciama – altro
buio dentro, per chi distingue ancora.
Il 19 è la sua festa ma sta senza
telefono. Interrotto, o: sogno opaco.
I rami morti spuntano da quelli vivi
e prendono tutta la luce dando
in cambio niente. Così fanno le ombre
sotto, ai pochi quasi nuovi fiori
che respirano forte nel vetro
bianco del sonno

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Tre poesie da La casa esposta, di Marco Giovenale, Le lettere, 2007
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Per parlare della poesia di Marco Giovenale devo fare attentamente astrazione dal suo discorso critico. Questo è naturalmente vero in generale, è cioè un principio valido per qualsiasi poeta; ma per Giovenale la cosa è particolarmente difficile, perché la presenza e il peso del suo discorso critico sono forti. In generale, certo, la poesia è più profonda e pesante del discorso critico, ma il discorso critico è per sua natura più accessibile, più facile. Per questo la tentazione di rivolgersi a questo come chiave interpretativa per comprendere quella è sempre forte, là dove quella si presenti difficile, difficilmente appetibile. Ma si tratterebbe di uno sbaglio.

È sbagliata infatti l’idea stessa che il punto di vista critico interno sia privilegiato rispetto a quelli esterni, e che il poeta, rispetto alla propria poesia, ne sappia di più di quanto ne potrebbe comprendere un altro, un esterno. Quello che all’autore si può certamente concedere, in generale, è una buona conoscenza dell’oggetto del proprio discorso, se non altro perché quando si trova in veste di critico sa bene che cosa abbia fatto in veste di poeta. Ma questa ottima conoscenza dei dettagli spesso gli nasconde l’effetto d’insieme, e il poeta che fa il critico di se stesso (attraverso, per esempio, dichiarazioni di poetica – o anche il poeta che, onestamente, non fa il critico di se stesso, ma che, pur parlando solo di altri, viene letto alla ricerca di una chiave per la sua stessa poesia) ha un punto di vista troppo ravvicinato e coinvolto per potere davvero vedere quello che fa.

La chiave per comprendere la poesia va cercata unicamente nella poesia stessa, ed è solo quando ne siamo in possesso che ci possono essere utili eventuali indizi provenienti dal discorso critico dell’autore. Sin quando ci rivolgiamo a questo per comprendere quella, e interpretiamo il discorso poetico sulla base di quello critico, stiamo facendo un lavoro superficiale, schiacciando quello che la poesia è su quello che il suo autore vorrebbe che fosse.

Anche per questo intendo parlare qui solo della poesia e non delle prose di Marco Giovenale, visto che le prose continuano ad apparirmi, inesorabilmente, astruse e costruite a tavolino (quasi che chiedessero il supporto del voler essere fornito dal discorso critico). Data la qualità dei componimenti in versi, posso sospettare che la carenza stia in me, che ancora non ho trovato la chiave delle prose, e non nell’autore. Capisco bene quanta importanza attribuisca Giovenale alle proprie prose (alla propria Prosa in prosa, tanto per citare sino in fondo l’operazione), visto che il suo discorso critico insiste moltissimo sul tema; ma anche questa insistenza mi fa sospettare che il nodo vero si trovi nei versi, proprio in quanto più lontani dal voler essere.

Ho letto e riletto con piacere La casa esposta, e quanto sono riuscito a trovare di Shelter e di Storia dei minuti. Mi dispiace di non essere riuscito a completare il quadro (prima o poi accadrà), ma l’impressione che ho intanto ricevuto è quella di una produzione sufficientemente coerente nel suo sviluppo da lasciarmi pensare che l’idea che mi sono fatto della poesia di Giovenale continuerebbe a valere sino in fondo.

I componimenti di Giovenale non esibiscono in sé nulla di asemantic o di googlism; si fatica persino a riconoscere in loro le tracce del passaggio, in Italia, di una Neo-avanguardia, se non, tangenzialmente, del più atipico tra i Novissimi, Antonio Porta. Sono liriche sentimentali, nel senso migliore della parola, quello che non ha a che fare con il sentimentalismo; poesie da cui emergono cioè emozioni profonde, trattenute, difficili da esprimere proprio per la loro intensità.

In verità, l’accostamento a Porta potrebbe derivare anche dal comune utilizzo di un dispositivo ricorrente, quello del correlativo oggettivo di eliotiana memoria; pure se, nel leggere questi versi, io ci vedevo in trasparenza assai più Montale che Eliot.

Il Montale che continua a risuonarmi nelle orecchie, leggendo Giovenale, è quello dei Mottetti, quello del suo particolare ed oggettuale ermetismo; ma anche, in particolare ne La casa esposta, probabilmente per la vicinanza tematica, quello specifico di Notizie dall’Amiata, con la sua casa isolata e antica e le sue presenze sulfuree. A uno sguardo più attento, questa vicinanza si concretizza in una certa ricorrenza di termini montaliani, o di scelte lessicali ricercate (alla maniera di Montale) nei punti cruciali – ma soprattutto nella sonorità del verso, libero ma continuamente riassestato nella figura dell’endecasillabo, o in altre misure musicali classiche.

Non c’è solo Montale, perché Giovenale, evidentemente, non è Montale. Si tratta di echi, così come echeggia nei suoi versi un certo uso dell’allitterazione molto inglese, e persino della paronomasia, che magari gli arrivano dalla Rosselli, che l’inglese ce l’aveva (letteralmente) nel sangue.

Ora, il riconoscere la natura di questi echi non spiega, in sé, la qualità delle poesie di Giovenale. Però mi spiega almeno in parte come mai, essendo cresciuto sui medesimi poeti, a pelle io mi ritrovi, per così dire, intonato con questi versi, e come mai possano risuonare al mio interno con tanta forza.

È solo su questa rispondenza di base, su questa sapienza di ritmi di immagini e suoni verbali con la quale la mia competenza e la mia passione entra in sintonia, che può venirmi voglia di scoprire lo specifico del discorso del poeta; nel quale poi, qui, nuovamente mi ritrovo, proprio per l’accostamento continuo, che vi incontro, dell’intensità emotiva con la reticenza, per quel suo dire che non può essere detto sino in fondo perché dire sino in fondo equivarrebbe a banalizzare, a ridurre l’indicibile al detto.

È dalla critica, semmai, che ci aspettiamo una simile riduzione; la critica deve fare il possibile per dire, spiegando, anche quello che non sembra possibile dire. La poesia, al contrario, non deve dire: deve piuttosto farci entrare, attraverso le sue parole (fatte di suono non meno che di senso), in un piccolo mondo, e poi lasciarci lì, di fronte alle sue cose, ai suoi andamenti, ai suoi limiti, dolori, piaceri, incomprensibilità. La qualità dell’esperienza che facciamo in questo mondo è la qualità del componimento poetico, al di là (e spesso persino indipendentemente) da quello che il suo autore vuole dire.

Quando agisco come critico, il mio compito non è dunque quello di tirar fuori il voler dire. Spesso le cose che la poesia vuole dire sono del tutto banali: e sto parlando anche della buona poesia. Come critico, io devo cercare di capire piuttosto, e poi di dire, come sia costruito quel piccolo mondo; come io ci venga fatto entrare, e perché mi colpisca. Non credo che quello che ho detto renda sufficiente merito alle poesie di Giovenale. Gli elementi che ho elencato sono indubbiamente presenti e indubbiamente hanno un ruolo importante – almeno per quel lettore che sono io e per chi mi può somigliare. Ma sono acutamente consapevole che non esauriscono affatto, nemmeno per me, il meccanismo del mio coinvolgimento.

Per questo continuerò a cercare, qui e altrove, delle chiavi migliori del mio sentire, per coglierne il più possibile la natura. E magari, nel farlo, troverò anche la chiave per entrare nelle prose di Giovenale, se c’è.

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Non si libera dagli aghi, se ne veste.
Vive nell’ultima stanza – ogni volta
sta varando il vascello con lo sguardo
nella fontana fuori, dove la potrebbero
condurre ma non vuole, dai sette anni
mentali e non mentali non si strecciano
il colore cenere – la testa, gli occhi.
Non possono trovarla assiderata.

Piuttosto a contare sul balcone, che sarebbe
il margine alfa della storia, da dove
la contesta e può ascoltarla; due
fibbie alle scarpe slacciate, rientra
sempre e cammina sempre scalza contro
la parete. Lì sta bene. Lì – dice alla fine
della casa – mi riconoscete.

Chi manca è più nitido,
si prende la ragione

___________________________da Shelter, Donzelli, 2010
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L’ultima colonna in fondo
nel quadro – svela: una piccola
riga di donna che (spórta
nel bordo buio una elle di fiaccola)
illumina l’uscita per lo sguardo.

È la Contemplazione, che si nega,
dice la guida dotta, che è identica
a chi vede, perché passa – ma diversa
perché è persuasa e spiega.

Rimasta indietro, sua figlia non si è persa.
È albina e condannata a ridere
rapida. (Chiaro, dimentica).

_________________________da Storia dei minuti, Transeuropa, 2010

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Della chimera, o del segreto di Lorenzo Mattotti

Lorenzo Mattotti, "Chimera", Coconino 2011, pag. 11

Lorenzo Mattotti, "Chimera", Coconino 2011, pag. 11

Chimera, di Lorenzo Mattotti (Coconino 2011), vive da pochi giorni la sua terza vita; e per la terza volta mi ritrovo a parlarne, perché, di fatto, sono tre incarnazioni diverse, per ciascuna delle quali l’autore ha realizzato un seguito e una conclusione nuova.

La prima vita è stata nel 1994, all’interno di un bell’almanacco pubblicato da una piccola casa editrice di Spoleto, e il titolo era all’epoca “Il segreto del pensatore”; ne avevo scritto sul domenicale del Sole 24 Ore, e ho recentemente ripresentato quel pezzo in un post. La seconda vita è stata nel 2006, in un albo spillato per Coconino, e ne ho parlato nel post del 16 marzo del mio blog di allora. Ora è un bel libro cartonato con molte più pagine.

Ma come si fa ad aggiungere nuove pagine a una storia conclusa? Be’, basta che la storia non sia conclusa, né concludibile. In verità, anche di questa versione potremmo aspettarci, tra qualche anno, di ritrovarla come parte iniziale di una sequenza ancora più lunga, perché il gioco permette questa riapertura all’infinito.

È però un gioco difficile. Le poche parole presenti in tutto il testo si trovano solo all’inizio e alla fine. Un uomo si sdraia sotto l’albero del pensatore, alla ricerca del suo segreto, e si addormenta, e in sogno vede accadere delle cose.

Da questo momento in poi è come se entrassimo in un film di animazione, la cui sequenza non racconta complessivamente una storia, ma una serie di trasformazioni celesti, e poi terrene, sul filo dell’evocazione: tante microstorie collegate solo visivamente ed evocativamente l’una all’altra. Il gioco è difficile perché non c’è un racconto unitario a tenere insieme il tutto, ma solo un’atmosfera magica e sospesa, e il segno del pennino e del pennello di Mattotti.

Su ciascuna delle immagini di questo volume varrebbe la pena di fermarsi a lungo, e in questo senso potrebbero essere anche sentite come illustrazioni, un po’ come quelle, indimenticabili, dell’appena appena definita sequenza di Nell’acqua. Ma qui, anche se non c’è la storia, la sequenza è forte, coinvolgente, fluida; e il passaggio da una vignetta all’altra racconta indubitabilmente di trasformazioni e di passaggi e di eventi. Siamo perciò di fronte a qualcosa di diverso da una semplice sequenza di illustrazioni, poiché il rapporto tra loro non è meno forte di ciascuna delle singole immagini. Siamo di fronte a un fumetto, a una narrazione per figure, a una graphic novel, se proprio vi piace chiamarla così.

Ma il termine graphic novel non è adeguato, qui, se non dal punto di vista commerciale. Non c’è infatti nessuna novel, nessuno romanzo, in questa sequenza. L’andamento di questa sequenza è molto più quello di una sequenza musicale, o di una poesia astratta, basata sul succedersi di evocazioni. Potremmo chiamarla graphic music (e sarebbe certamente al femminile, senza possibilità di polemica), o graphic symphony, o sinfonia per immagini… Potrebbe essere un nuovo genere…

Non credo che la sinfonia per immagini potrà mai davvero essere un nuovo genere. È troppo difficile rendere visivamente interessante una sequenza così astratta. Ci riesce magnificamente Mattotti. Ci riusciva Renato Calligaro quando pubblicava Deserto nel 1982, in tiratura limitata per le Edizioni della Periferia. Ci prova ogni tanto qualcuno, con risultati alterni.

Il lettore di fumetti che cerca la storia, la vicenda, il racconto coinvolgente, sappia che il volume di Mattotti non fa per lui. Chi ama le belle immagini, troverà invece qui certamente moltissimo pane per i suoi denti, ma, se si limitasse alle immagini, farebbe come uno che si ascolta il Preludio del Tristano di Wagner ascoltando solo le singole note e i singoli accordi: sono bellissimi, indubbiamente; ma sono solo mattoni da costruzione per la musica, che è un’altra cosa.

Chimera va letto scorrendo da un’immagine all’altra, guardando le immagini non meno del flusso che le collega, intonandosi con questo sogno a occhi aperti che va dal chiaro della punta di pennino, con il suo andamento arioso e sensuale, sino allo scuro, al nero della pennellata spessa, con le sue ansie e i suoi orrori, con andate e ritorni, con modulazioni di dinamica e di ritmo, con motivi che ritornano e altri che entrano in gioco nuovi.

Se conoscete i lavori di Mattotti ci ritroverete un sacco di echi. In questo, anche il fatto che questo lavoro attraversi ben diciassette anni della sua vita non è un elemento indifferente. È come se tutte le variazioni del suo mondo espressivo si fossero distesa in questa suite, che non a caso chiamo così, perché la suite è stata spesso, in musica, il genere attraverso cui era possibile riassumere, per evocazioni successive e incalzanti, sistemi musicali molto più complessi: un melodramma, un balletto, una vita.

Lorenzo Mattotti, "Chimera", Coconino 2011, pag. 44

Lorenzo Mattotti, "Chimera", Coconino 2011, pag. 44


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Di una foto con l’orizzonte in discesa

L'orizzonte diagonale

L'orizzonte diagonale

Mi sono divertito un sacco a fare questa foto (e non solo perché ero in un bel posto). Lo studio consisteva nel trovare una linea da rendere orizzontale al posto dell’orizzonte, in modo da aiutare, con l’incrocio delle linee, la confusione sulla prospettiva.

E d’altra parte, chi l’ha detto che l’orizzonte, in una foto, debba essere orizzontale?

Ma il bello, qui, è che le colonnine della balaustra sul mare sono ugualmente verticali. Questo è un po’ inquietante.

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Di Sergio Rotino e del respiro che non finisce

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.16

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.16

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Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.20

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.20

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Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.28

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.28

I correlativi oggettivi di queste poesie di Sergio Rotino si manifestano in sequenze di versi lunghi o extra-lunghi e privi di punteggiatura, come emissioni interminabili di fiato sporcato dalle parole e dal loro senso. Le immagini nette, dure, occasionalmente crude, che rimandano a un evento (a un seguito di eventi) crudele della nostra storia, sembrano annegare in questo movimento omogeneo del respiro che dà loro vita materiale. Non che ne risultino indebolite: è piuttosto come se si trovassero registrate nel flusso di una pellicola che scorre senza potersi fermare, così che la loro giustapposizione in sequenza è più forte della natura di ciascuna.

Lo sguardo distaccato riservato a queste immagini finisce così per avere una tonalità apocalittica, perché la ragione di questi versi va fatta risalire a una tradizione che ha al suo principio come modello il versetto biblico, e il suo andamento apodittico e definitivo, sanzionante, alla William Blake o alla Walt Whitman. In questo respiro dilatato, prosodicamente atonale, le parole suonano come occorrenze del destino, presenze numinose anche in assenza di qualsiasi dio. In questo ritmo da Antico Testamento, sequenze di discorso che sarebbero normali in prosa si ritrovano qui straniate dalla sospensione di quei nessi logici che spetterebbero alla punteggiatura, e trasformate così, dai rari ma non meno significativi a capo, in qualcosa di diverso.

È quindi questo specifico straniamento a trasformare gli oggetti in correlativi, gli eventi del mondo in oscure allusioni alla dinamica del male, o alla vuotezza dell’essere, al dramma banale del trovarsi qui – o magari semplicemente al posto giusto, normale, ma nel momento sbagliato.

E poi, di quando in quando, qualcuno di questi oggetti finisce come per caso in un’ansa del discorso, un verso capricciosamente breve, da cui riemerge nitidissimo, violento, come radicalizzato dalla luce potente di un riflettore vicino. Il film si è fermato per un attimo, ci ha lasciato, anzi costretto, a mettere a fuoco il dettaglio adesso immobile – salvo poi ripartire, rigettarci nel flusso. Sembra di non arrivare mai in fondo, a volte, in questi versi: gli eventi si susseguono senza arrivare a una fine che dia loro un senso; il tempo resta sospeso talmente a lungo durante questo sterminato procedere che la fine del verso giunge poi come una sorpresa, quasi fosse quello il vero evento di cui si sta parlando, la possibilità, finalmente, di tirare il fiato, abbandonando per una frazione di secondo il ciclo doloroso delle reincarnazioni verbali e continue delle cose.

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.64

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.64

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Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.65

Sergio Rotino, "Loro", Dot.Com Press 2011, p.65

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Di Alessandro Tota e i suoi Fratelli

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Alessandro Tota, Fratelli, (Coconino Press, 2011) pp. 98 e 99

Alessandro Tota, Fratelli, (Coconino Press, 2011) pp. 98 e 99

Per Andrea Pazienza e la sua generazione si parlava di ascendenze underground, nel senso di quello che era iniziato a succedere negli USA circa dieci anni prima, o poco più. All’epoca l’underground sembrava un retaggio di altri tempi, mentre in realtà di tempo ne era passato pochissimo, e l’aria che si respirava era certamente ancora la stessa.

Ma le ascendenze erano ascendenze e niente più, in particolare per Pazienza; ma anche per i suoi compagni di rotta. Si era partiti da là per arrivare a un’onda italiana tutta particolare, ben difficilmente confondibile con quella degli zii d’oltre oceano. D’altra parte, si era loro ancora ideologicamente tanto vicini che era indispensabile differenziarsi il più possibile.

Trent’anni dopo, Alessandro Tota ha molto meno bisogno di questa diversificazione. Anzi, forse l’avvicinamento al disegno e all’impostazione grafica dell’underground americano è addirittura funzionale a nascondere la forte ascendenza pazienziana, che però salta fuori qua e là lo stesso, per inquadrature, rese espressive e tematiche narrative. Persino la scelta delle trame di questo Fratelli sembra debitrice nei confronti di Pazienza.

Va detto che l’ambientazione anni Ottanta degli eventi di Fratelli giustifica sia il rimando a Paz che quello all’underground, anche perché alla fine, leggendo il lavoro di Tota, non si ha affatto l’impressione di leggere un epigono. La storia è ben costruita e l’ambiente dei giovani senza sbocco descritto con sottigliezza. Non è Pazienza, certo – perché magari gli manca quel guizzo di devastante sarcasmo che rendeva Paz unico. Ma è comunque una lettura interessante, e del tutto libera dal buonismo che ancora rendeva un po’ goffo il lavoro precedente, Yeti.

Diciamo che abbiamo motivi per aspettarci un ulteriore miglioramento a breve, in una (almeno da me) attesa prossima opera.



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Di due foto con diagonali bianche

Diagonali bianche

Diagonali bianche

Me le sono trovate davanti affiancate per caso, e non ho potuto fare a meno di osservare una parentela, una rima, che vi ripropongo qui. La rima mi colpisce perché le due foto non potrebbero essere più diverse: una è stata presa in Algarve d’estate e l’altra sull’Appennino in inverno; in una le diagonali esprimono un pieno (le linee su un muro) nell’altra un vuoto (la fuga dei binari); in una convergono verso sinistra, nell’altra verso destra; in una il bianco è messo a contrasto con altri colori, nell’altra praticamente no.

A dispetto di tutte queste diversità, la rima però si impone alla mia attenzione, e mi costringe a vedere delle altre somiglianze, che altrimenti riterrei irrilevanti: la presenza di un oggetto piatto che sporge dal muro (la base del lampione a sinistra, il cartello “Binario” a destra), la presenza di successioni ritmate in alto (le balaustre dei balconi a sinistra, gli elementi della linea elettrica a destra), il rapporto tra le diagonali e le linee verticali, insieme alla scarsità di orizzontali (salvo che nella casa a sinistra, in entrambe le foto).

Tutte le scoperte del mondo iniziano così, osservando regolarità impreviste. Poi, dopo, si tratta di capire se il tutto è opera del caso, o se c’è una ragione interessante dietro alla regolarità. A volte la ragione interessante non la troviamo, ma continuiamo ad avere l’impressione che ci sia lo stesso, e l’accostamento ci affascina, e pensiamo che ci si debba riflettere sopra di più. Nel campo della comunicazione estetica l’esistenza di questa sensazione è decisiva: le opere che ci piacciono sono proprio quelle che la producono in noi, risvegliando la nostra attenzione con il loro essere interessanti, e non permettendoci di risolverle in una soluzione conclusa. Il mio esempio è piccolo, e magari funziona, un poco, solamente per me.

Io però continuo a guardare e riguardare questo avvicinamento di due mondi, uno caldo e solare e l’altro freddo. Le diagonali bianche in rima me li rendono come due facce della stessa moneta. Non so però, ancora, che moneta sia.

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Di Alessandra Carnaroli, o della normale violenza

Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 24-25

Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 24-25

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Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 34-35

Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 34-35

Immaginate una lunga, ossessiva ripetizione di varie quotidianità, fatti banali, pensieri di ogni giorno, oggetti consueti. È quello di cui di solito non si scrive: non ci interessa il banale, il consueto, quello che conosciamo già benissimo perché ci viviamo dentro.

Adesso immaginate che in mezzo a queste banalità ce ne siano altre, che non si distinguono dalle prime per il modo in cui appaiono descritte, e che ugualmente sembrano fatte di piccole cose irrilevanti. E invece sono gesti di violenza, violenza terribile e mortale, o le banali conseguenze di questi gesti: i buchi nel corpo, la pelle come un vestito ristretto, il liquido rosso che cola, e sporca dappertutto.
Di colpo non solo la nostra attenzione si accende, i segnali del pericolo si mettono a strillare, la presenza del male traluce sgarbatamente nella trama rassicurante della quotidianità, ma per contrasto anche questa quotidianità si rivela rilevante, importante, cruciale. Come a dirci che per accorgerci di quanto sia importante questa cosa così inimportante da non valer la pena di scriverne, bisogna che sia sul punto di smettere di esserci, bisogna che sia compromessa, bisogna che il demone oscuro che essa nasconde stia arrivando in superficie, per mostrare che il demone oscuro non è meno presente e quotidiano e vitale dei gesti che lo tengono sedato, dei gesti che ci permettono di vivere.

Ma perché tutto questo dovrebbe essere detto in versi? Perché non utilizzare la forma racconto, piuttosto, che è quella ormai deputata a parlare di queste cose?

Magari c’è qualcosa, nell’iterazione dell’a capo del verso, che ha strettamente a che fare con l’iterazione dei gesti della quotidianità, col ritornare ossessivo dei pensieri delle cose di ogni giorno, col ritmo un po’ incerto, ma persistente, con cui le cose normali ci arrivano o escono da noi. E allora l’emergenza del male non solo si staglia contro i gesti della quotidianità, ma finisce per essere raccontata con il loro stesso ritmo, con la loro stessa modalità. Ed è questo l’orrore: trovarsi dentro alla morte, alla non-normalità per antonomasia, senza davvero essere usciti dalla normalità, senza aver cambiato mood, senza salti di registro, senza avvisi, senza colonna sonora ansiogena. Siamo ancora nel ritmo irregolare ma persistente del presente, del quotidiano interagire, del preoccuparci e dell’attesa; ma siamo anche, insensibilmente, dentro il dominio del male, della violenza che si fa e che si subisce, della forza del maschio che si fa rabbia e morte contro la debolezza della femmina, del dramma che fino all’ultimo pretende di non essere dramma, e che tutto è normale, tutto è come è sempre stato.

E poi, questo ritmo martellante, verso dopo verso, della normalità, si trova riprodotto, a livello più macroscopico, dal ritmo della successione dei componimenti, uno ogni doppia pagina, a sinistra una scarna descrizione dell’evento di cronaca, a mo’ di titolo, a destra le parole, i versi, la normalità, la violenza (qui, per ragioni di organizzazione dello spazio, li abbiamo invece dovuti montare in sequenza).

Solo che questo macro-ritmo, a differenza di quello dei versi, è una ricorrenza di morti – morti descritte come normali, certo, quotidianità violate e insieme ribadite, una dopo l’altra, una dopo l’altra, una dopo l’altra. Pagina dopo pagina, l’effetto complessivo è come quello di una serie di rintocchi funebri, una liturgia della carne e del dolore che si rifiuta di essere tale, ma lo è, e continua a esserlo, ostinatamente.

Si parla di violenza sulle donne, di nudi e distanti fatti di cronaca, in questo libro di Alessandra Carnaroli. Si parla della violenza che uccide la rete delle cose, e di come questa rete si difende sino all’ultimo, simulando la normalità persino nella propria espressione, senza riuscire a nascondere (o magari volutamente rivelando) che questa medesima normalità è gravida della propria distruzione, e che il ritmo non viene inficiato dalla propria irregolarità, che è anzi espressione vitale, passionale. Ma l’irregolarità contiene anche l’eccesso, e persino l’eccesso più mortale cerca disperatamente di restare a tempo, almeno sino a quando, all’ultimo, la coscienza non svanisce.

Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 38-39

Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 38-39

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Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 50-51

Alessandra Carnaroli, "Femminimondo", Polimata 2011, pp. 50-51

P.S. Questo post, come alcuni altri che usciranno nelle prossime settimane, è una conseguenza della mia partecipazione a due delle tre giornate di RicercaBo, San Lazzaro di Savena (Bo) i gg. 18-20 novembre 2011.

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Di Chester Brown, e dei suoi amori a pagamento

Chester Brown - "Io le pago", pp.198-199

Chester Brown - "Io le pago", pp.198-199

Potrei parlare di Io le pago, di Chester Brown (Coconino, 2011), a due livelli diversi, ed è probabilmente anche a questo che il suo autore mirava. Potrei perciò parlare della qualità narrativa di Chester Brown, come al solito molto alta, come al solito capace di coinvolgere e sconvolgere, a dispetto dalla pulizia dei segni, della monotonia della gabbia grafica, della semplicità del tratto: insomma, un gioco al ribasso della spettacolarità, alla ricerca – per così dire – dell’anima delle cose, del senso profondo di quello che si racconta. Un po’ nell’onda del lavoro di Art Spiegelman, ma senza il sarcasmo di quest’ultimo: Chester Brown è minimalista e profondo, e basta.

L’altro livello a cui questo libro merita di essere commentato è quello della tesi che sviluppa, e del tema che tratta. Chester Brown difende appassionatamente la prostituzione, in queste pagine, e la propria scelta di fare solo sesso a pagamento. È esemplare, da questo punto di vista, la propria trasparenza emotiva (o almeno quella del personaggio di se stesso che mette in scena), non trascurando di citare il fatto che i suoi amici lo ritengono emotivamente un robot (anche se il robot più gentile e premuroso che si possa immaginare). Ed è proprio questa trasparenza emotiva che gli permette di dare veramente peso alle affermazioni che fa e alle situazioni che mette in scena, non negando né il proprio bisogno, comunque, di avere delle relazioni umane (purché non inglobanti ed esclusive), né i problemi che la sua scelta sessuale gli procura, nei confronti del mondo e della propria sessualità.

Insomma, alla fine della lettura (compreso magari il dossier, un vero e proprio pamphlet, che si trova alla fine) non si esce indifferenti. Si potrà non aver cambiato opinione sul sesso a pagamento, ma non c’è dubbio che l’autore ha sollevato un problema, che non si risolve nel semplice ritenere che sia semplicemente lui ad avere dei problemi psicologici: ce li avrà, senz’altro, come tutti – ma il problema esiste lo stesso.

Certo, quella singolare monogamia a cui il protagonista alla fine arriva, con una donna che lui ogni volta paga, ma che ormai fa sesso solo con lui, e lui solamente con lei, può essere letta sia come un trionfo che come un fallimento delle sue tesi: lui paga, senza dubbio, e questo gli permette di sentirsi libero; ma è comunque, quello, un rapporto di coppia, per quanto singolare. E gli equilibri su cui i rapporti di coppia si reggono nel tempo sono davvero insondabili, e tanto spesso ancora più assurdi di questo, anche se magari meno eclatanti, perché meno vicini a uno snodo etico così cruciale per noi.

Il tema è difficilissimo, perché tocca nodi profondi. Fare sesso a pagamento è sbagliato perché socialmente riprovevole, oppure è socialmente riprovevole perché ha qualcosa di sbagliato in sé? E che cosa, nel caso? L’incompatibilità di amore e denaro per la nostra etica non deriverà dalla nascita dell’amore romantico, che guarda caso coincide con quella del capitalismo mercantile medievale? E le conseguenze nefaste che associamo alla prostituzione (asservimento, sfruttamento, malavita…) non saranno a loro volta una conseguenza del ruolo da escluso, e del generale disprezzo con cui ci accostiamo alla tematica? Chester Brown sembra disegnare una situazione in cui l’amore passionale (quello che vorrebbe durare tutta la vita) è speculare e simmetrico al sesso mercenario (quello che serve solo a soddisfare il bisogno del momento): nel momento in cui si sente estraneo al primo, scompare in lui anche l’opposizione al secondo. E i rapporti con le prostitute finiscono per diventare per lui una sorta di scambi di reciproco sostegno, non raramente accompagnati da una sorta di amicizia o di affetto – sino ad arrivare al paradosso del rapporto stabile (quello che culturalmente vorremmo associato all’amore passionale) costruito su una base (discreta) di denaro.

Ci si dovrebbe domandare (lui stesso lo fa, nell’appendice) se questo rapporto strano a cui il protagonista arriva sia davvero ancora un rapporto di prostituzione; o magari che cosa siano piuttosto tanti matrimoni o rapporti palesementi basati sul vantaggio economico di una delle parti – seppure santificati e socialmente sanzionati dall’unione legale o persino religiosa. Il fatto che lui le paghi in maniera esplicita rende forse semplicemente più pulita la situazione, più chiaro il reciproco ruolo, di modo che, tolto di mezzo l’equivoco di fondo, si riesce a volte a essere persino sinceri, e affettivamente coinvolti.

Magari la prostituzione esplicita è davvero meglio di quella mille volte implicita, non meno anaffettiva, non meno fondata sul vantaggio economico, che si consuma sotto l’ala illusoria della passione, regolarizzata dalle sale comunali o dalle parrocchie. È probabilmente proprio la completa assenza di ipocrisia che rende tanto interessante il lavoro di Chester Brown, in quest’opera come in quelle che l’hanno preceduta.

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Della foto di una terrazza dal basso

La terrazza

La terrazza

Il bello delle città è che le epoche si stratificano.

Il bello delle diagonali è che danno l’idea del divenire.

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Di Jackson Pollock e Zhang Xu, o dell’improvvisazione e del progetto

Zhang Xu, VIII secolo, esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

Zhang Xu, VIII secolo, esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

Mi domanda uno studente se non ci sia qualche relazione tra l’action painting di Jackson Pollock (cui ho già dedicato in questi giorni due post, qui e qui) e la calligrafia cinese. Gli rispondo che non ho notizie precise in merito, ma la cosa mi sembra ugualmente piuttosto probabile, soprattutto pensando a Zhang Xu, un calligrafo dell’VIII secolo, perché queste cose girano da tempo in Occidente – e senza arrivare a questo estremo di precisione, basta considerare l’importanza del giapponismo e la presenza costante dell’immaginario visivo giapponese, calligrafia artistica compresa (il Giappone non è la Cina, certo, ma le loro tradizioni calligrafiche sono molto vicine).

Poi faccio una ricerca rapida sul Web e trovo qua e là dei riferimenti non documentati, secondo i quali Pollock si sarebbe ispirato a Huai Su (il discepolo di Zhang Xu) e avrebbe dichiarato pubblicamente i propri debiti nei confronti della calligrafia cinese. Da nessuna parte mi viene fornito un riferimento preciso, per cui le propongo per come le ho trovate, mettendoci davanti un bel “è possibile che…”, “è plausibile che…”.

Non mi interessa in verità approfondire di più, dal punto di vista storico. Che Pollock sia arrivato alla propria procedura su ispirazione dalla calligrafia cinese (o giapponese) oppure che ci sia arrivato per altre vie, comunque la somiglianza formale tra le due procedure e i loro risultati esiste. Quello che mi colpisce è che mentre in Occidente questo modo di procedere appare come una novità del XX secolo, in Cina è invece una procedura antica e tradizionale, oggetto di innumerevoli aneddoti (come la storiella del pittore, dell’imperatore e del granchio riportata da Calvino nella sezione “Rapidità” delle sue Lezioni Americane). E in ogni caso, anche se davvero Pollock si è ispirato alla procedura cinese, bisognava che lui stesso e l’ambiente che lo riceveva fossero pronti ad accogliere un approccio davvero diverso da quello normale per noi.

Huai Su (725-dopo il 777) Esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

Huai Su (725-dopo il 777) Esempio di Kuang Cao, o corsivo selvaggio

La novità di Pollock in Occidente non sta tanto nella priorità data alla fluidità e continuità del gesto, quanto nel fatto che l’opera, il dipinto, propone di essere visto più come un indizio della danza creativa che l’autore ha effettuato nel comporlo, che non come una composizione plastica. Naturalmente non è che la composizione nei suoi dipinti sia irrilevante, così come non era irrilevante, per la pittura occidentale prima di Pollock, la natura indiziale dei tratti di colore per ricostruire la manualità del pittore. Quello che cambia, con Pollock, è il maggiore o minore rilievo da attribuirsi all’una o all’altra: quando guardiamo un dipinto, poniamo, di Kandinsky, è certamente molto più importante comprenderne la composizione, che non analizzare le pennellate per vedere come l’autore si sia mosso nel realizzarla. In Pollock succede invece il contrario, e nel corsivo selvaggio dei calligrafi cinesi pure.

Questa differenza evidente ne sottende una più profonda, che riguarda il senso stesso della comunicazione espressiva: la potremmo descrivere come una differenza tra progettazione e improvvisazione. Questa opposizione, in Occidente, ci è tradizionalmente familiare in un contesto piuttosto piccolo, che contiene sostanzialmente la musica e il teatro, ed è dunque soltanto lì che possiamo facilmente analizzarla nel dettaglio. Tutte le altre arti, infatti, si basano su un supporto statico (o realizzano opere statiche, come la scultura o l’architettura); mentre la musica si manifesta soltanto nel divenire dell’esecuzione e dell’ascolto, e il teatro nel divenire della performance. Ma il teatro ha praticamente da sempre una sua versione scritta, e da oltre mille anni pure la musica può essere registrata su un supporto statico.

Jackson Pollock, Red Painting 1, 1950

Jackson Pollock, Red Painting 1, 1950

È per questo che la dialettica tra progetto e improvvisazione caratterizza in maniera sostanziale queste due arti, per le quali il supporto statico è soltanto un espediente mnemonico (e progettuale), ma che vivono sostanzialmente della propria natura dinamica nell’atto stesso del proprio realizzarsi di fronte al pubblico.

Prendiamo la musica, nella sua versione colta. L’a solo improvvisato (o cadenza) è una costante dei concerti per strumento e orchestra dal Settecento in poi, almeno sino a quando il fossilizzarsi della tradizione non lo trasforma a sua volta in un pezzo scritto, spesso da parte dell’autore medesimo del concerto; così che la libertà dell’esecutore si riduce alla scelta di una cadenza piuttosto che di un’altra. La musica colta occidentale è dunque nel corso della storia sempre più scritta, più progettata a monte. È solo nel momento in cui il jazz assume i caratteri della musica colta che il momento dell’improvvisazione torna in gioco, e ritorna legittimo nell’ascolto la comprensione della musica come tramite di uno stato del momento.

Per quanto la scrittura permetta alla musica di raggiungere livelli di complessità impensabili in sua assenza, configurando la partitura come progetto preciso di un’esecuzione, c’è qualcosa di cruciale che viene perduto in questo. L’idea della musica come progetto si basa su, e insieme sostiene, una concezione formalistica, plastica, del flusso musicale, mettendo in secondo piano gli elementi di compresenza, compartecipazione, consonanza tra i partecipanti – quegli stessi elementi che vengono invece enfatizzati dalle performance improvvisative.

Jackson Pollock, Collage and Oil, 1951

Jackson Pollock, Collage and Oil, 1951

Ma poiché la musica comunque non si risolve nella sua dimensione scritta, e comunque richiede di essere eseguita, essa non è mai del tutto riducibile alla propria costruzione formale, e le componenti gestuali, dirette, del momento, che caratterizzano l’esecuzione, non smettono mai di avere importanza.

In questa prospettiva di carattere optocentrico, è chiaro come invece la comunicazione visiva possa davvero interamente risolversi nella costruzione formale – poiché non c’è necessità di alcuna trasformazione successiva, che possa metterla in discussione. Ciò che Pollock e i calligrafi cinesi hanno in comune è dunque proprio una certa riduzione dell’optocentrismo, a vantaggio di una valutazione del segno grafico che ha aspetti di tipo musicale, poiché mette (tendenzialmente) in sintonia il gesto del fruitore (che segue l’andamento) col gesto dell’autore (che lo ha creato).

Jackson Pollock, Number 23, 1948

Jackson Pollock, Number 23, 1948

Dovremmo assumere, in questa prospettiva, che la cultura cinese sia tradizionalmente meno optocentrica della nostra, visto che mentre da noi si tende a una concezione visiva anche del sonoro, in essa vi sono tracce di una concezione di carattere musicale anche del visivo. Da noi, la valorizzazione dell’improvvisazione al di fuori del campo musicale (e teatrale) si fonda sulle conseguenze di una concezione romantica dell’arte come espressione dell’io, o della sua variante surrealista dove al posto dell’io viene messo l’inconscio. Ma è difficile postulare qualcosa di simile per la Cina dell’ottavo secolo – tanto più che questa concezione non è affatto necessaria per valorizzare l’improvvisazione.

Magari è solo perché i Cinesi non hanno avuto Platone, e la scrittura è rimasta manifestazione della parola senza che la parola dovesse identificarsi col pensiero razionale, o logos. In principio c’era altro, evidentemente, là.

Zhang Xu - Four poem calligraphy copybook

Zhang Xu - Four poem calligraphy copybook

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Di supereroi, Frank Miller e propaganda

Frank Miller, Holy Terror, p.80

Frank Miller, Holy Terror, p.80

L’idea del superuomo, in sé, è un’idea consolatoria e infantile. È del tutto naturale che a un bambino possa piacere l’idea che ci sia qualcuno, più grande e più potente, che venga a risolvere con facilità dei problemi più grandi di lui; ed è anche ragionevole che un bambino possa appassionarsi alle avventure di questo potente genitore. Meno ragionevole è che vi si possa appassionare un adulto; ma ugualmente succede, e molti aspetti di varie religioni esistono pure per questo – e magari, storicamente, l’Illuminismo è andato vincendo la sua battaglia contro la religione proprio mettendone in luce l’infantilismo di certi suoi aspetti.

Dei limiti del concetto di supereroe nel fumetto americano si accorgono in tanti, e sin dall’inizio. Ma la storia che mi interessa, qui oggi, è quella di coloro che non vogliono abbandonare il genere, pur rendendosi conto dei limiti dell’idea che gli sta al centro (non intendo perciò parlare qui delle parodie, magari semi-interne, alla Will Eisner o alla Jack Cole). Per contrastare la grande crisi del fumetto di supereroi degli anni Cinquanta, i primi a prendere interessanti provvedimenti in merito sono dunque, proprio cinquant’anni fa, Jack Kirby e Stan Lee; la formula “supereroi con superproblemi” serve proprio a questo: spostare la focalizzazione narrativa da fuori a dentro l’eroe, rendendolo in tal modo più umano. Se fino a quel momento i supereroi DC erano stati una sorta di semidei, narrati da fuori, visti dal punto di vista del mondo e di quello che mostruosamente e meravigliosamente essi fanno, rispetto alla normalità degli esseri umani normali, i nuovi supereroi della Marvel, grazie al nuovo punto di vista, alla nuova focalizzazione, si rivelano al lettore come uomini normali alle prese con l’ulteriore problema (e l’ulteriore grande responsabilità) di avere dei grandi poteri. Se prima il gioco era: guarda cosa può fare per te un essere con superpoteri; adesso è diventato: pensa a come potresti essere tu, se ti capitasse di acquisire di colpo dei superpoteri!

Il nuovo gioco della Marvel regge alla grande per una decina d’anni. Non c’è dubbio che la sua ricchezza potenziale è molto maggiore che nella versione precedente. Ma le conseguenze della contestazione giovanile degli anni Sessanta e Settanta, e l’aumentata consapevolezza politica che ne deriva, mietono vittime anche qui. Negli anni Settanta la figura del supereroe è complessivamente in crisi, e non basta nemmeno più, a salvarlo, il cambio di focalizzazione. Diventa evidente, cioè, che il cambio di focalizzazione non è affatto, in fin dei conti, una problematizzazione, una messa in discussione dell’idea di superuomo e delle sue conseguenze. Il supereroe Marvel, benché più umano, non è meno straordinario e ammirabile di quello tradizionale DC.

Per superare questa seconda crisi ci vuole altro. Se ne accorge, per esempio, Neil Adams, il cui Batman (con Dennis O’Neil) gotico, nero, tormentato, è tra i pochi sopravvissuti alla moria di personaggi del decennio. E (la storia la conosciamo) lo capisce benissimo, meglio di chiunque altro, Frank Miller, che, dopo altre prove interessanti, alla metà degli anni Ottanta fa proprio di Batman il proprio cavallo di battaglia per il rilancio del fumetto di supereroi in chiave adulta. Miller si rende conto benissimo che l’idea del supereroe come personaggio è potente ma in sé poverissima: è potente perché permette esiti estremamente spettacolari, ma è anche poverissima proprio perché troppo infantile, troppo ingenua – e l’espediente di Kirby e Lee (pur indicando la giusta via) è ormai ampiamente insufficiente a risvegliare l’interesse di un pubblico adulto.

Miller non è da solo, negli anni Ottanta, a intuire il problema e a suggerire vie di soluzione. Ma è certamente colui che riesce a perseguire con maggiore chiarezza ed efficacia una via interna al mito del supereroe, problematizzandolo sia eticamente che psicologicamente, mettendolo in crisi, anche profondamente, ma sempre con l’idea di rivitalizzare il genere, non di affossarlo. Ben diverso, per esempio, è lo spirito con cui agisce Alan Moore, il cui Watchmen è una critica spietata all’idea stessa di supereroe, e alla stessa possibilità di glorificarne le imprese. Anche Watchmen finisce per contribuire alla rinascita del genere, ma probabilmente è proprio perché il Dark Knight Returns di Miller ha già impostato e reso credibile l’idea di una critica costruttiva e adulta, e quindi la possibilità stessa di un genere supereroi rinnovato, accettabile anche a livello adulto. Certo, si tratta di una mossa che ha senso in un mondo in cui esistono lettori adulti che hanno amato quel genere da bambini e adolescenti, e ora si trovano nella condizione di poter rinnovare l’interesse – in qualche modo ricollegando la consapevolezza adulta con la passione infantile, potendo rileggere nella complessità quello che, anni prima, amavano in un contesto di semplicità che, passata l’infanzia, apparirebbe solo ridicola.

Dato questo contesto, la mossa di Miller è straordinaria. Il suo Batman è eticamente e psicologicamente sfaccettato; tutte le sue scelte si trovano discusse all’interno della storia stessa, e messe in discussione persino da lui stesso. Persino l’idea stessa di supereroe si trova messa in discussione attraverso la figura meschina che viene fatta fare al supereroe per antonomasia, proprio Superman, nella sua integrità (e stupidità): in Dark Knight, Superman perde contro Batman perché non è capace di mettersi in discussione, e accetta acriticamente le linee di comportamento che gli arrivano dal potere.

Date queste premesse, poco mi importava allora delle critiche di coloro che mi avvertivano che Miller era di destra. Probabilmente era già vero, ed essi avevano ragione, ma il suo Daredevil e il suo Batman mettevano in scena dei valori in cui mi potevo benissimo riconoscere anch’io, che di destra proprio non sono. Sinché il fulcro del discorso sul superuomo sta nel senso del suo esistere e del suo agire, e nella propriocezione disforica del suo essere tale, poco mi importa che poi la conclusione di Miller è che è un bene che il superuomo ci sia: su questo non sarò d’accordo, ma su come mi viene presentata la situazione (e questo come è quello che conta) sì. E potrò perciò appassionarmi in una problematica in cui riesco a riconoscermi, e quindi persino godere di una spettacolarità che, nel suo eccesso ostentato, mi può apparire a sua volta come implicita critica pur mantenendo l’impronta spettacolare.

In altre parole, se anche magari, alla fin fine, The Dark Knight Returns suggerisce un discorso di destra, il grosso della sua costruzione, a monte di tale fin fine, è godibile e appassionante anche da parte di un lettore di sinistra, perché al centro del discorso c’è un tema, un problema, un nodo problematico, e non una soluzione, una proposta di direzione da prendere. Quella, se c’è, è talmente marginale e sfumata da non creare problema: è molto facile persino accettarla, persino non condividendola. Basta confinarla nel dominio del mondo della storia raccontata, che non è il nostro. E se poi proprio non la vogliamo accettare nemmeno lì, pazienza: sarà solo questo che ci dividerà da Frank Miller: un dettaglio, neanche tanto significativo.

Credo che a nessuno sia mai venuto in mente di etichettare come propagandaDark Knight né nessuno dei lavori del Miller di quegli anni. Col tempo, e progressivamente, le cose sono cambiate. I fumetti di Frank Miller sono cambiati.

Non ho apprezzato 300, nonostante le qualità grafiche e di regia di Miller, perché il messaggio mi sembrava già troppo scoperto e troppo diretto: non era più il dubbio, la problematicità, a dominare la scena, ma un’inossidabile certezza. Miller era, al momento, ancora in qualche modo, velato nell’esprimersi. La versione cinematografica di Zack Snyder, nonostante tutte le sue qualità di regia e scenografie, toglieva comunque gli eventuali dubbi residui (vedi, su questo, un bellissimo testo del 2007 di Wu Ming 1, qui); ma qualche anno, intanto, era passato, e quindi magari i dubbi residui erano scomparsi pure nel medesimo Miller. Ho continuato ad apprezzare, con qualche riserva, Sin City, perché il mondo in cui si trova ambientato è talmente assurdo e di maniera che non è difficile considerare Sin City come un esercizio di stile. A lungo andare, tuttavia, gli esercizi di stile possono apparire un po’ troppo fini a se stessi, e annoiare. Ho resistito a lungo, temendo il peggio, ad andare a vedere The Spirit. Avrei fatto bene a continuare a resistere: Will Eisner non faceva esercizi di stile, e vedere ridotto il suo mondo a quello, e solo a quello (proprio cercando a tutti i costi di non vedere le implicazioni ideologiche del film), è qualcosa che mi ha fatto male.

In Holy Terror, del Miller che a suo tempo mi ha fatto sognare, è rimasta solo l’abilità registica. Il resto è propaganda ed esercizio di stile. Neppure il disegno è quello di un tempo, piegato com’è, oggi, a sostenere le esigenze di una spettacolarizzazione reboante e finalizzata a convincere. Che sia propaganda me l’ha suggerito Miller stesso, nel suo blog. Miller sostiene una tesi paranoica, ovvero che, fondamentalmente, tutto quello che viene pubblicato è propaganda, i giornali non fanno altro che propaganda, i fumetti di supereroi degli anni Quaranta facevano propaganda: dunque perché non dovrebbe farla lui?

Ma lui stesso non faceva propaganda quando il dubbio era il protagonista delle sue storie, e i giornali stessi non fanno propaganda quando discutono delle idee e accettano quelle degli altri; e, sì, Capitan America era davvero un fumetto di propaganda, ma in quegli anni gli USA erano in guerra. La tesi di Miller è, evidentemente, che gli USA sono in guerra anche oggi, e questo giustifica tutto: poiché non può essere lui a prendere in mano il fucile, quello che può fare è questo.

Al di là dell’inaccettabilità di una tesi del genere, potrebbe ancora capitare che un autore paranoico, convinto di tesi assurde, possa produrre un’opera interessante. Ma Holy Terror è indifendibile da molti punti di vista: non ci troverete niente che non sia stato già visto e rivisto in lavori precedenti, salvo che mentre in Sin City la retorica dell’eroismo personale si trova sempre in qualche modo messa a contrasto con la dubbia moralità dei personaggi (ladri, balordi e prostitute – in un’oscura prospettiva di redenzione), qui il cattivo è cattivo e basta, e non è solo l’Islam e Al Qaida, ma sotto sotto c’è persino l’interesse economico – poiché evidentemente, quando uno è davvero cattivo come lo sono i terroristi, se non è stupido deve averci un interesse personale.

Solo nella propaganda di guerra si può vedere il nemico dipinto a tinte così esclusivamente e drasticamente negative e disprezzabili. Solo nella propaganda di guerra è necessario dipingere l’eroe (cioè noi) a tinte così immacolate e infantili. Confesso che credevo che queste cose fossero scomparse da un pezzo, o relegate a produzioni davvero da poco, quelle che definirle “fumetto popolare” è offensivo persino per il fumetto popolare e chi lo produce con onore.

Frank Miller crede di essere in guerra. Il che spiega anche le sue boutade contro Occupy, di cui abbiamo parlato la scorsa settimana. Se siete convinti di essere in guerra contro l’Islam, forse potete godervi questa roba. Non venitemi a raccontare che Miller fa differenza tra l’Islam e Al Qaida: in Holy Terror questa differenza non si vede. Quando si è in guerra, comunque, non si può davvero andare per il sottile. La guerra giustifica tutto, anche la stupidità.

Addio, Frank Miller. Sarebbe bello che la tua prossima mossa smentisse quello che ho detto. Sarei felice di aver torto, e di ritrovare l’autore che ho conosciuto anni fa. Sarei felice di poter apprezzare un autore di destra. Temo però davvero che non lo farai, confermando cupamente gli stereotipi che girano tra noi di sinistra su quelli di destra, lasciandoci pensare che i nostri luoghi comuni abbiano un fondamento. Dai Frank, dimostra che abbiamo torto! Te ne sarei davvero grato, e per più ragioni.

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Di una foto dove tutti vanno in salita

In salita

In salita

Questa foto, presa qui, lo stesso giorno della processione di cui la scorsa settimana, ne mostra – diciamo così – le retrovie, il percorso di chi, come me, ha preso la scorciatoia per riguardagnare la testa del corteo. Il che spiega perché tutti salgano. Ma io trovo che ci sia lo stesso qualcosa di surreale in questa figura. Che cosa?

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Di Jackson Pollock e dell’automatismo surrealista

Jackson Pollock, Autumn Rhythm, 1950

Jackson Pollock, Autumn Rhythm, 1950

Restiamo ancora su Pollock, e – come si è detto l’altra settimana – sulla sua riformulazione della comunicazione della pittura attraverso il maggior peso attribuito al gesto piuttosto che al suo prodotto, o meglio, spingendo a interpretare il segno grafico più come indice (indizio) del gesto che come segno visivo (plastico e/o figurativo). Il lettore modello del dipinto di Pollock sarebbe dunque colui che legge l’intreccio delle linee come rinvio alla danza creativa dell’autore, un po’ come un a solo improvvisato, estremamente libero in linea di principio, ma, via via che l’operazione creativa procede, progressivamente sempre più vincolato dalle proprie scelte precedenti, in armonia e in contrappunto con i percorsi già registrati.

Nata in epoca di psicoanalisi come scienza nuova, come nuova spiegazione del mondo, la pittura di Pollock, se vista in questo modo, può essere certamente interpretata come una sorta di scrittura dell’inconscio e dei suoi ritmi, una sorta cioè di scrittura automatica, alla Breton. Quando si parla di scrittura dell’inconscio o scrittura automatica, non bisogna tuttavia pensare a una sorta di sfogo di forze brute, di pulsioni primordiali che escono e magicamente prendono forma visiva (o verbale). Indubbiamente il principio surrealista dell’automatismo può essere inteso anche così, cioè come una versione più moderna e più estrema dell’idea romantica dell’arte come espressione dell’io, una versione in cui all’io si è sostituito quello che gli sta sotto, in una ricerca di autenticità ed espressività ultima – nell’ipotesi, di matrice rivoluzionaria, che quello che gli sta sotto sia comunque eversivo, antiborghese, antinormale, unheimlich.

Eppure questa ipotesi, per quanto fascinosa essa sia, si trova falsificata dai fatti. L’automatismo surrealista ha dato vita certamente a molti testi interessanti, che rimangono tali anche a distanza di anni; ma ha prodotto pure una quantità di testi noiosi, banali e per niente rivoluzionari, segno o che il processo automatista non è sufficiente in sé a tirar fuori l’essenza sovversiva dell’inconscio, oppure che l’inconscio è in sé assai meno sovversivo di quanto si possa pensare.

La mia sensazione è che il principio surrealista dimentichi almeno una metà dei fattori in gioco, e che sia davvero in questo senso una propaggine (certamente un po’ deviante) dell’idea romantica dell’arte come espressione – non dell’io ma di quello che gli sta dietro: sempre di espressione, però, si tratta. Quello che Romantici e Surrealisti sembrano dimenticare è che un prodotto artistico è inevitabilmente un prodotto comunicativo, e che quindi mette in gioco (almeno) due parti; e la parte che riceve (cioè il fruitore) non è meno importante della parte che produce.

Un’opera che si vuole artistica che non riesca a trovare il proprio fruitore è infatti un’opera fallita (chiamatela – come si usa – brutta, noiosa, priva di interesse). Poco importa che essa intenda esprimere un inconscio sovversivo: alla fine dei conti non c’è niente di meno sovversivo del non sapere uscire da se stessi, del non sapere risvegliare l’interesse di qualcun altro.

Se non si arriva a produrre un qualche tipo di accordo, di consonanza, tra l’opera e il suo fruitore, un accordo o consonanza che renda possibile da parte di quest’ultimo un interesse e un conseguente lavoro di interpretazione, l’opera rimane muta e inutile (brutta, noiosa, priva di interesse…). E allora il punto non è se l’automatismo in sé come metodo funzioni, bensì semmai, visto che a volte funziona, perché succeda questo, e che cosa distingua un automatismo dall’altro, l’automatismo che produce opere interessanti da quello che produce banalità.

La risposta facile a questa domanda è che l’autore dell’opera apprezzabile, in qualche modo, abbia barato. In altre parole che abbia coscientemente e volontariamente utilizzato strutture comunicative tradizionali in modo da rendere più facilmente trasmissibile il suo discorso. In questa prospettiva il fruitore troverebbe l’accordo con il testo attraverso la familiarità di tali strutture, e sarebbe questo a permettere all’opera di esistere davvero, di vivere la sua vita comunicativa, permettendo a qualche fruitore di entrare in consonanza con lei, e di apprezzarla.

È probabile che molte opere surrealiste siano davvero costruite in questo modo, mediando l’automatismo attraverso un progetto che, in quanto tale, non ha nulla di automatico; e non ci sarebbe niente di male in questo. Si tratta certamente di un tradimento del principio surrealista, ma a noi fruitori interessa il risultato, e non la coerenza con un principio (discutibile) di poetica. L’arte si è sempre basata su strutture comunicative condivise, e non potrebbe essere altrimenti: che l’automatismo surrealista non sia che una rivoluzione parziale, molto meno influente di quanto pretenderebbe di essere, non è cosa che debba stupire, anche al di là delle dichiarazioni programmatiche delle avanguardie, le quali tipicamente esagerano – enfatizzando il fulcro dell’area di rottura con la tradizione – per ragioni di propaganda e autoaffermazione.

Eppure i dipinti di cui parliamo non sembrano situarsi nell’ambito di questa risposta facile. O ipotizziamo infatti in Jackson Pollock la presenza di una razionalità progettuale a monte, di una lucidità straordinaria, capace di guidare consapevolmente l’espressione del suo inconscio attraverso le strette di qualche principio compositivo assestato e riconosciuto, oppure la soluzione del controllo volontario per lui non regge. E non regge proprio perché parte del fascino dei dipinti di Pollock sta nella sensazione che il progetto a monte non ci sia affatto, e che la costruzione dell’accordo con il fruitore (con me che guardo) non si basi su quello. Se si fosse basato su quello, inoltre, cioè se il lavoro di Pollock fosse stato quello di un montaggio consapevole e progettuale di pulsioni inconsapevoli, non si spiegherebbe la sua sopravvenuta incapacità di produrre – per cui da un certo momento in poi l’autore smette di dipingere, portando a motivazione di questo il fatto che non troverebbe più il ritmo, non sentirebbe più la musica interiore che prima lo faceva danzare.

C’è allora un’altra soluzione al nostro problema, forse meno gratificante per Breton e compagnia, ma – mi pare – più ampiamente esplicativa. L’inconscio, io credo, non è affatto un blob destrutturato e potenzialmente sovversivo. Se lo intendiamo nel senso più della prima che della seconda topica freudiana (cioè come un magazzino profondo di esperienze, sia fattive (operative) che narrative, sia naturali che culturali, e non soltanto come il rifugio profondo del rimosso) l’inconscio conterrà anche le strutture, le forme, i ritmi, della natura come delle produzioni culturali e artistiche, e un automatismo autentico porterà alla luce inevitabilmente pure quelli.

Per questo poi molti testi automatici sono, alla fin fine, semplicemente banali: nell’ipotesi che l’automatismo porti a galla alla cieca dei brandelli di quello che si trova sotto, non è affatto detto che questi brandelli debbano essere sovversivi. Se l’inconscio è un magazzino generale dove si pesca a caso, se ne può portare a galla tanto la pulsione di morte quanto i ritmi di Carosello; ovvero tanto il diverso quanto l’uguale a quello che gli sta sopra. L’idea dell’arte intesa fondamentalmente come espressione di questo pre-io è sbagliata tanto quanto l’idea dell’arte come espressione dell’io: la banalità rimane in agguato nell’uno non meno che nell’altro caso.

Magari un filtro cosciente anche nel lavoro di Pollock c’è, come è auspicabile che ci sia: un’attenzione, cioè, a limitare l’emersione o l’espressione delle istanze più banali, troppo facili, troppo ovvie; quelle che renderebbero l’opera ininteressante, noiosa. A Pollock, come ai testi surrealisti riusciti, va riconosciuta questa capacità consapevole; la quale non è, però, in sé ancora un progetto, e non basta, da sé, ad assicurare la qualità del risultato. Sono tanti al mondo i filtratori attenti e responsabili della propria produzione che hanno finito per non rilasciare nulla nel corso della loro vita, perché tutto quello che usciva da loro appariva a loro stessi banale!

Io credo piuttosto che il genio automatista di Pollock stia nel fatto di avere interiorizzato profondamente, di avere reso inconsce, anche le regole, le buone forme, permettendo loro di uscire allo scoperto già amalgamate con il resto. Il contributo formale, cioè – filtraggio delle banalità a parte – non è qualcosa che venga esercitato razionalmente e coscientemente: è insito, piuttosto, nell’espressione stessa.

Quando uno strumentista musicale improvvisa, non si trova da solo: ha il feedback di un pubblico, e un immenso sistema di regole interiorizzate che lo guidano. Il solista di scarsa qualità non è meno in contatto con il proprio inconscio di quanto non lo sia – poniamo – John Coltrane: è il suo inconscio che è meno ricco, meno strutturato, più povero; o almeno è meno ricca la parte che riesce a esprimersi.

L’automatismo della produzione di Pollock richiede una ricchezza interiore straordinaria, e una straordinaria familiarità con le strutture culturali del visivo, comprese quelle tradizionali. Quello che emoziona, nel guardare un suo dipinto, è la continua comparazione tra il risultato formale, di grande equilibrio, e la danza convulsa, protratta, dionisiaca, che l’ha prodotto, e che si trova registrata nei percorsi del colore. Pollock ci conquista perché produce in noi l’idea che la mediazione razionale, costruttiva, progettuale, tra l’opera e noi sia ridotta al minimo, e il suo è davvero un automatismo; ma questo automatismo ha come prodotto un universo ricchissimo.

Pollock, nel dipingere i suoi quadri, ha insomma danzato con noi; e noi nel guardarli danziamo con lui, accorgendoci di quale straordinario danzatore fosse, di quanto ricca fosse la sua interiorità, e di conseguenza di quanto ricca sia la nostra, visto che siamo capaci di seguirlo. Nell’accordo che l’opera di Pollock in questo modo produce, noi riconosciamo (per tramite collettivo) la nostra stessa ricchezza profonda. L’automatismo di Pollock funziona perché rende non tanto il suo specifico inconscio, ma il nostro, e il mio, quello insomma che ci costruisce, nella nostra cultura, come persone, come soggetti, o anche solo come parte di un tutto collettivo.

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Di Frank Miller, e del perché ci fanno così male le sue opinabili opinioni

Quello che riporto qui sotto è un frammento di un articolo che ho scritto nel 2009 per il catalogo di una mostra su Frank Miller (a Moncalieri – TO). Ecco:

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… Faccio fatica, insomma, a tenere insieme l’autore di 300 con quello di Sin City. Si potrebbe malignare che il filo che li lega sta in quella capacità di creare spettacolo che davvero pochi possiedono nella misura in cui la possiede Miller. Benché si tratti di un’osservazione in sé superficiale (appunto, una malignità), questa osservazione ci invita comunque a indagare sulla natura dello spettacolo proposto da Miller.

Rileggiamo Dark Knight, allora. Soffermiamoci, come mi è già accaduto più volte lavorando su Miller, sulla coppia di pagine in cui si racconta l’incontro tra Bruce Wayne bambino e il suo futuro demone, il pipistrello che diventerà in seguito il suo simbolo. Nella pagina di sinistra si racconta, quasi senza parole, della caduta di Bruce, del suo rialzarsi e del volo di miriadi di pipistrelli sino a che soltanto un’ombra rimane. A questo punto la parola narrante riprende. È un flusso di coscienza del Bruce maturo, che sta ricordando, ma il suo andamento ha qualcosa di poetico, o meglio, di liturgico:

Then…
…something shuffles out of sight…
…something sucks the stale air…
… and hisses.
(Poi…/ … qualcosa si trascina nell’oscurità… / …qualcosa aspira l’aria stantia… / … e sibila.)

Dopo una vignetta muta e quasi completamente nera, mentre la figura del pipistrello si avvicina a quella del bambino e finalmente si rivela:

Gliding with ancient grace…
unwilling to retreat as his brothers did…
eyes gleaming, untouched by love or joy or sorrow…
breath hot with the taste of fallen foes… the stench of dead things, damned things…
surely the fiercest survivor… the purest warrior…
glaring, hating
claiming me as his own
(Scivolando con grazia antica… / non disposto a ritirarsi come hanno fatto i suoi fratelli… / gli occhi luccicanti, mai toccati da amore o gioia o dolore… / il fiato caldo del sapore di nemici caduti, il lezzo di cose morte, cose dannate… / sicuramente il sopravvissuto più fiero… il guerriero più puro… / sfolgorando (ma anche: guardando con ira), odiando… / rivendicandomi come suo.)

Fran Miller, The Dark Knight Returns, 1985, pp. 10-11

Fran Miller, The Dark Knight Returns, 1985, pp. 10-11

Non è rilevante se questi siano davvero versi oppure no, così come non è rilevante la qualità poetica delle parole di Miller. Queste valutazioni non hanno rilievo e non devono portarci su un percorso sbagliato d’indagine perché, a differenza che in poesia, qui le parole non devono essere fruite autonomamente, bensì come accompagnamento di una sequenza di immagini. Resta invece necessario notare la quantità di tecniche specificamente poetiche che vengono utilizzate in queste parole, tecniche riportabili in vario modo allo stesso principio di fondo che avvicina la scrittura poetica a quella liturgica e rituale: il principio del parallelismo.

Si può notare, per esempio, la ripetuta allitterazione sul suono “s” presente nella prima parte, rafforzata da una più debole insistenza sul suono (non lontano) “f”:  something shuffles out of sight / something sucks the stale air / and hisses. L’allitterazione è un tipico principio costruttivo e unificante del verso germanico antico, ereditato in misura minore anche da quello inglese moderno. Si può notare la ripetizione in posizione parallela della parola something nelle due espressioni successive, e il ripetersi della medesima costruzione sintattica, rafforzata dalla quasi-rima tra sight e air. La medesima tecnica ritorna, enfatizzata, nei versetti (chiamiamoli così) della pagina successiva: osserviamo questo ossessivo ripetersi di gerundi, anche funzionale a un effetto di sospensione del tempo, in attesa del verbo non infinitivo che mi dica che cosa accade davvero – e che qui non arriva, mentre l’evento risolutivo viene descritto alla fine da un altro gerundio sospensivo.

Ci sarebbero ancora altre osservazioni da fare sul linguaggio, ma è più urgente ora mettere in relazione i versetti con le immagini che essi accompagnano. Ci accorgiamo, così facendo, che il progressivo allungarsi dei primi quattro (della pagina di destra) coincide con l’avvicinarsi dell’ombra del pipistrello al bambino spaventato, ed è funzionale a un progressivo rallentamento della visione, e perciò anche della percezione del tempo raccontato: a un crescendo di intensità dei contenuti corrisponde un crescendo di durate, e si produce così un crescendo di tensione alimentato in due differenti modi paralleli. Nel quinto versetto, il soggetto, cui prima si faceva riferimento solo indirettamente, diventa decisamente il pipistrello, proprio mentre l’immagine finalmente ce lo mostra di fronte. Nel sesto versetto c’è la ripresa dei gerundi, ma il crescendo è finito e il versetto è diventato brevissimo: l’immagine ci mostra un bambino non più terrorizzato, bensì abbandonato (conquistato o rassegnato); e la dichiarazione di appartenenza del settimo versetto, che coincide visivamente con la chiusura completa dell’immagine da parte dell’ombra, ci appare, in calando, come una semplice e inevitabile conseguenza dell’evento che si è già consumato appena prima.

L’effetto complessivo è quello di una celebrazione, poetica e liturgica, dell’evento fondante dell’identità del Batman, che il vecchio Wayne sta ora riportando alla memoria. Sicuramente il fatto di essere un evento presentato come leggendario, quasi mitologico, giustifica narrativamente questo uso così accentuato di un andamento di carattere epico e celebrativo – ed è anche per questo, è probabile, che questo momento ci si è proposto più immediatamente all’attenzione. Tuttavia non si tratta di un evento isolato nella produzione di Miller: anzi, la maniera assolutamente naturale in cui questo momento così fortemente liturgico si inserisce nel complesso di Dark Knight ci lascia pensare che si tratti solo di una punta, cioè di un passaggio fortemente epico e liturgico all’interno di un contesto complessivo che possiede costantemente elementi epici e liturgici, in misura ora più ora meno marcata.

La mia sensazione è che la qualità della dimensione epica che i racconti di Miller ci affrescano dipenda proprio dalla sua straordinaria capacità di tenere fortemente viva la dimensione liturgica, facendoci percepire le vicende come altrettante celebrazioni di un mito cruciale per la nostra cultura. Da Daredevil a Sin City, questa dimensione mitica e fondativa percorre stabilmente il lavoro di Miller.

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Immaginate ora che la stessa persona che è in grado di coinvolgerci così intimamente in una liturgia a base epica di questo tipo esprima opinioni che non potremmo mai e poi mai condividere, e che anzi riteniamo contrarie al vivere civile. C’è da stupirsi che noi reagiamo male? C’è da stupirsi che ci appaia come pericolosa una simile capacità tecnica, capace di coinvolgerci così profondamente, quando c’è il rischio (in verità, ormai, qualcosa di più del rischio) che venga applicata per propagandare idee che ci appaiono non solo sbagliate, ma nefande, nefaste? È lo stesso Miller ad ammettere di stare facendo propaganda, salvo difendere la propria propaganda in quanto buona da quella (secondo lui) cattiva.

Capisco ma non condivido la difesa che ne fa Mark Millar, il quale non condivide le idee espresse da Miller, ma ritiene che non si possa proporre di boicottare le opere di un grande autore se dice qualcosa su cui non siamo d’accordo. Avrebbe ragione se Miller si fosse espresso attraverso le sue stesse opere; ma, nel dire quello che sta dicendo, Miller non è più un autore: è un cittadino che esprime la propria opinione fondandosi sul prestigio che si è costruito con le proprie opere. In altre parole, le parole di Miller non agiscono più nell’arena del prodotto artistico, che ha le sue regole di interpretazione, e in cui mi posso sempre permettere di sospendere il giudizio, o di fare uso della mia libertà interpretativa. Agiscono invece in quella del dibattito politico, e sono molto chiare, nette, lasciando davvero poco spazio a interpretazioni concilianti o problematiche. Vanno perciò trattate in termini di lotta politica, contesto in cui anche un’azione di boicottaggio ha un senso: in altre parole, poiché per dare peso alle tue parole tu sfrutti la tua notorietà, io cercherò di colpire quella, che è basata sulle tue opere.

Insomma, è Miller stesso che ha cambiato arena; non i suoi (nonostante tutto) affezionati lettori.

Detto questo, tra questi affezionati lettori (come si capisce bene dal testo riportato sopra) ci sono senz’altro anch’io, o ci sono stato, o ci sono ancora, ma delle sue opere passate. Da DK2 in poi confesso che leggendo Miller ho continuato ad avere l’impressione che la retorica superasse l’abilità, producendo in me una dinamicissima e ripetitivissima sensazione di noia. Il top in questo senso è stato toccato dal suo film su The Spirit, che mi è parso quasi offensivo nei confronti dello spirito di Will Eisner. Continuo ad apprezzare qualche episodio di Sin City, ma forse perché il contesto è talmente assurdo e straniato che molte cose sembrano funzionare lo stesso.

Certo, probabilmente Miller era “di destra” anche allora, quando realizzava Dark Knight, ma tra le cose che la sua liturgia celebrava c’erano sempre anche il dubbio, la problematicità, la pluralità delle voci, il conflitto interiore, l’irrisolvibilità di molte decisioni su cosa sia bene e cosa sia male: tutti valori in cui mi riconosco, e che mi permettevano di accettare, almeno per il mondo di finzione in cui accadevano le storie, anche altri valori in cui mi riconosco meno. Poi, progressivamente, tutte queste dimensioni sono scomparse, e la celebrazione di Miller è diventata sempre più monotòna, e quindi anche più monòtona: se c’è una cosa che la propaganda non contiene, quella è proprio il dubbio (insieme con la problematicità, la pluralità delle voci, il conflitto interiore, l’irrisolvibilità di molte decisioni su cosa sia bene e cosa sia male…). Da quando il dubbio è scomparso, la produzione di Miller è diventata sempre più propaganda, e tanto più pericolosa quanto più sappiamo che lui è efficace.

Sotto un aspetto solo mi sentirei di difendere le parole scritte da Miller. Leggendole avevo l’impressione che non stesse parlando del nostro mondo, ma che parlasse piuttosto di un mondo delle sue storie, specie le ultime. Poi ho letto il primo commento in ordine di tempo (dovete selezionare, in cima ai commenti, “oldest first”, mentre il default è “popular now”), di un certo Dan Morelle, che dice “This sounds just like something Marv would say” (Suona proprio come qualcosa che direbbe Marv). Dan Morelle ha capito tutto: Miller vive nel mondo di Sin City, non nel nostro. Dovremmo perciò lasciare ai suoi personaggi, e solo a loro, il compito di sostenere nel loro mondo, e solo nel loro, la sua abusata notorietà.

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di Daniele Barbieri

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