Di una foto di dettagli (6)

Dettagli (6)

Dettagli (6)

Anche qui, quello che mi rende interessante questa foto è il contrasto tra natura e cultura: il reticolo artificiale stampato nella terra, con le foglie e gli altri residui.

Stampato, ma con una serie di leggere irregolarità: la natura interpreta a modo suo le razionali geometrie umane.

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Della foto di una casa arancione

La casa arancione

La casa arancione

Naturalmente, vivere in una casa come questa sarebbe davvero un sogno; non ho ancora capito se un bel sogno, però, o un brutto sogno. Persino i colori delle scale gialle e del tendone azzurro stanno al gioco degli eccessi (o di quelli che a noi appaiono tali). D’altra parte, questi sono anche i colori di cui si vestono le donne, qui in zona; e se vestono una donna con eleganza, perché non un’abitazione?

In ogni caso, non è un luna park. È una cosa seria / una casa seria. E la foto comunque mi piace anche come costruzione plastica, con la grande area arancione a destra (e la finestrina in alto), che si trova interrotta, a sinistra, dai dettagli scuri, viola, azzurri e gialli. Il tutto poggia su un basamento chiaro, grigiastro. Le linee che sembrano rette, convergenti per la prospettiva dal basso, in verità non lo sono tutte quante.

Ho fatto la prova, con Photoshop, ad aumentare la saturazione di questa foto al massimo, e quasi non è cambiata! Questi colori sono già saturi così.

Comunque, se avete ambizioni immobiliari, la potete trovare (credo) qui (o comunque nella stessa città).

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Della poesia e della voce, altre questioni

Stéphane Mallarmé, "Un coup de dés", 1897 (prima, terza, quarta e quinta pagina)

Stéphane Mallarmé, "Un coup de dés", 1897 (prima, terza, quarta e quinta pagina)

Il poemetto Un coup de dés, che Mallarmé pubblica nel 1897, solleva un problema che mi sembra non piccolo rispetto al rapporto tra scrittura e voce in poesia. La cosa paradossale, in tutto questo, è che Mallarmé sta cercando di riportare alla poesia quello che gli sembra che la musica le abbia un po’ usurpato. Vale la pena di leggere qualche riga della breve, ma importante, introduzione che lui stesso scrive, a presentazione e spiegazione della novità grafica (per quegli anni assoluta) di questi versi:

Gli spazi bianchi, in effetti, assumono importanza, colpiscono immediatamente; la versificazione ne ha bisogno, come silenzio circostante, così che un frammento, lirico o di poche sillabe, occupa in mezzo circa un terzo dello spazio della pagina: io non trasgredisco questa misura, mi limito a disperderla. La carta bianca entra in gioco ogni volta che un’immagine, di per sé, finisce o inizia, accettando la successione di altre, e poiché non si tratta, come sempre, di tratti sonori regolari o versi – bensì piuttosto di suddivisioni prismatiche dell’Idea, l’istante in cui appaiono così come la loro durata, in qualche messa in scena mentale precisa – è in posizioni variabili che si impone il testo, più vicine o più lontane dal filo conduttore latente, a seconda della verosimiglianza. Il vantaggio, se mi è permesso dirlo, letterario di questa distanza che separa mentalmente dei gruppi di parole, o le parole tra loro, sembra sia ora di accelerare ora di rallentare il movimento, la scansione, la recitazione stessa secondo una visione simultanea della pagina: essa stessa presa come unità come altrove lo è il Verso o la linea perfetta. L’effetto poetico fiorirà e si disperderà velocemente, secondo la mobilità dello scritto, intorno alle fermate frammentarie di un’espressione scritta tutta in maiuscolo che è introdotta dal titolo e lo estende.  Tutto avviene, brevemente, sotto forma di ipotesi: si evita il racconto. Si aggiunga che questo uso del pensiero a nudo con ritirate, prolungamenti, fughe, o il suo stesso aspetto grafico risulta essere, per chi legge a voce alta, uno spartito. La diversità nei caratteri di stampa tra i motivi preminenti, uno secondario e quelli adiacenti, impone la propria importanza all’emissione orale, e l’andamento del rigo ora mediano, ora verso l’alto o verso il basso della pagina indicherà la salita o discesa dell’intonazione.

Insomma, sembra che Mallarmé abbia pensato queste pagine come una sorta di spartito, per guidare la recitazione. Ma c’è qualcosa che non quadra del tutto nel suo discorso.

Mallarmé, infatti, non poteva non sapere che in uno spartito musicale tutti i segni sono assolutamente codificati, e se anche resta, inevitabilmente, un notevole grado di libertà all’interprete, pure non ci sono dubbi sul fatto che una certa nota sia, poniamo, un sol, in semiminima, in posizione di levare, pianissimo. Ma qui, la diversità dei caratteri di stampa, come dev’essere intesa dall’interprete: come una differenza di intonazione? o di volume? o di registro della voce? e il fatto che si vada a capo, in certi casi, senza tornare a inizio riga, come va espresso distintamente dall’andare a capo ritornando a inizio riga? e la maggiore quantità di bianco, se dev’essere un silenzio, come va quantificata temporalmente?

Non esiste nessuna regola, nessuna codifica, per questo spartito; il quale, di conseguenza, non può essere uno spartito. Sono al massimo indicazioni di carattere analogico, evocativo, che possono sollecitare esecuzioni vocali diversissime tra loro, ben difficilmente riportabili alla medesima partitura scritta. Di fatto, in questo componimento, l’aspetto grafico è irriducibile al sonoro, e qualsiasi esecuzione orale dovrà essere molto creativamente reinventata.

Questa irriducibilità al sonoro non cade inascoltata. Se Mallarmé poteva ancora convincersi in qualche modo di aver scritto una partitura per l’esecuzione orale, i Calligrammes di Apollinaire sono chiaramente al di là di qualsiasi rapporto ovvio con l’oralità; mentre le parole in libertà di Marinetti oscillano tra questi due poli, ponendosi ora come pseudo-partitura (evocativa, e non codificata) ora come pura visività.

Intendiamoci: non è che un’esecuzione vocale dei Calligrammes sia impossibile. Quello che è impossibile con i Calligrammes, ma anche con Un coup de dés, è assumere una corrispondenza automatica e bidirezionale tra la versione orale e quella scritta, come se, fatte salve alcune inevitabili differenze, qualcosa di comunque sostanziale rimanesse a definire un’identità trasversale del testo poetico.

Quello che voglio dire è che noi assumiamo tranquillamente che una versione scritta e un’esecuzione orale di, poniamo, un sonetto, siano sufficientemente equivalenti da essere prese come due istanze del medesimo testo – visto che dalla versione scritta si può desumere quella orale, e che dalla versione orale si può desumere quella scritta (la metrica serve anche a questo). Nelle presentazioni pubbliche si dà per scontato che leggere ad alta voce i versi di un poeta equivalga a lasciarli leggere dal pubblico con i propri occhi. Questa presupposizione è così forte che non viene scalfita nemmeno dal peggior interprete orale che si possa immaginare: magari percepiamo il fastidio della pessima lettura, ma cerchiamo mentalmente di attraversarla, per giungere ugualmente al testo.

Assumiamo implicitamente, in questo modo, che la poesia sia fatta di parole, e la sua forma grafica sia irrilevante. Questo è certamente un effetto, prolungato nel tempo, dell’antica natura orale della poesia, rispetto alla quale le versioni scritte dei testi poetici sono semplici notazioni mnemoniche. Eppure questa considerazione è stata corrotta da secoli di abitudine alla poesia come forma scritta, perché se davvero fossimo rimasti legati alle radici orali, non potremmo fare a meno di tutte quelle componenti della parola parlata che la parola scritta taglia fuori: accenti, intonazioni, velocità, intensità… Alla fin fine, questa presupposta equivalenza della versione scritta e di quella vocale di un testo poetico si basa su un dilavamento della parola, la quale rimane spogliata sia di quello che è specificamente visivo, che di quello che è specificamente sonoro. Quello che ci resta in mano, insomma, è la parola come senso, o poco più – in un complessivo immiserimento che riduce la parola della poesia a quella della prosa, o peggio, a linguaggio informativo-narrativo…

Il tentativo di Mallarmé è – mi sembra – proprio quello di rompere questa presunzione di equivalenza, mettendo nel gioco quello che non c’era mai stato: un’organizzazione grafica anormale, inquietante, in se stessa evocativa. L’organizzazione grafica è organizzazione grafica e basta: non vive, come la parola, nella doppia natura di scrittura e vocalità. Non c’è nessun modo “normale” di vocalizzarla. Di fronte ai versi di Mallarmé, chi legge deve inventare, esprimere, inevitabilmente tradire. Se ancora nel leggere un sonetto di Dante posso considerare equivalenti e fedeli tutte le letture vocali in cui si capiscano le parole e la loro articolazione sintattica – perché l’organizzazione grafica non è pertinente – nel leggere Un coup de dés sono costretto a riconoscere come differenti e infedeli tutte le letture, e a giudicarle per quel che sono, indipendentemente dal testo scritto. Mallarmé, in fin dei conti, sta facendo sì che ogni lettura ad alta voce sia inevitabilmente un “liberamente tratto da”; perché non c’è nessun modo ufficiale e codificato di tradurre in suoni i suoi spazi.

Io credo che esista poesia che è fatta per l’esecuzione orale, e di cui la versione scritta è davvero un semplice supporto mnemonico, un copione; che esista poesia fatta per la scrittura e la vocalizzazione interiore, che tollera bene e “normalmente” una esecuzione orale; e che esista poesia fatta per la sola scrittura, la cui vocalizzazione interiore, pur necessaria, è inevitabilmente frammentaria, e che può essere eseguita oralmente solo attraverso un’operazione di trasformazione scenica altamente creativa. In tutti i casi, il rapporto tra poesia scritta e poesia vocale, anche quando le parole sono le stesse, è complesso – ora di più ora di meno: ma lineare non lo è mai.

Potremmo chiamare poesia orale il primo caso; poesia scritta il secondo; poesia visiva il terzo. Percentualmente, la poesia scritta è quella che, nella nostra cultura di oggi, viene praticata di più. Ogni volta che posso, quando leggo ad alta voce (versi miei o altrui), cerco di fare in modo che il mio pubblico possa anche vedere con i propri occhi i versi che sto proponendo. Nel caso della poesia orale questo non sarebbe invece necessario. Non lo sarebbe, mi pare, nemmeno nel caso della poesia visiva: però lì dovrebbe essere chiaro che quello che si sta udendo ha ben pochi rapporti con quello che era stato scritto. Leggere vocalmente la poesia scritta senza mostrarla equivale perciò a trattarla come poesia orale, o come poesia visiva; in ambedue i casi è un inconsapevole e incontrollato tradimento: nel primo perché si dichiara il testo scritto come accessorio, nel secondo perché si dichiara che tra testo vocale e testo scritto la relazione è molto blanda, e che perciò quello che si sta ascoltando gode di quasi totale autonomia.

P.S. Questo post prosegue il discorso già avviato nei precedenti: Della Storni, di poesia e oralità (12 aprile 2011), Dell’origine del melodramma e di una piccola cucina cannibale (22 febbraio 2012) e Della poesia orale e della (e di) Voce (22 maggio 2012).

 

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Di un libro che ha qualcosa di sbagliato

Jérémie Dres, "Noi non andremo a vedere Auschwitz", Coconino 2012

Jérémie Dres, "Noi non andremo a vedere Auschwitz", Coconino 2012

Leggo Noi non andremo a vedere Auschwitz, di Jérémie Dres, fresco di stampa da Coconino. Il tema è interessante: due fratelli francesi, di origine ebreo-polacca, vanno in Polonia a cercare traccia delle proprie origini, poco dopo la morte della nonna, che è stata sino ad allora il loro unico tramite verso quel mondo. A Varsavia ne cercano la casa, prendono contatto con la comunità ebraica locale, troveranno con qualche sforzo le tombe dei bisnonni, scopriranno che esiste una rinascita vivace della cultura ebraica, dopo la caduta del comunismo. E non andranno ad Auschwitz, il che è sicuramente uno dei fatti più apprezzabili della vicenda, come sottolinea pure, nella prefazione, Jean-Yves Potel, Rappresentante del memoriale della Shoah per la Polonia (a Parigi). Evitare Auschwitz significa infatti cercare le tracce di un’altra storia, una storia positiva di vita e di civiltà, che il nazismo prima e il comunismo poi hanno in gran parte spazzato via. Però non del tutto.

Sin qui, tutto bene. Peccato che, al di là di queste apprezzabili cose, leggendo il testo non si capisca bene perché si dovrebbe andare avanti nella lettura. Noi non andremo a vedere Auschwitz si presenta come un reportage a fumetti, o come un diario di viaggio, ed è sicuramente fedele, documentato (le parole delle persone intervistate provengono dalle registrazioni, le immagini dalle fotografie…). Tuttavia, o troviamo interesse a priori nell’argomento, oppure il testo non fa gran che per sollecitarlo in noi, e questo mi sembra un difetto non piccolo.

Insomma, o c’è qualcosa che io continuo a non capire, oppure il meccanismo di questo testo non funziona. Sarebbe stato meglio forse scrivere un saggio, un libro-documento, destinato a chi sia interessato a priori al tema. Ma la forma graphic novel, come la forma romanzo tout court, ha l’ambizione di rivolgersi a “tutti”, o comunque anche a chi non sia interessato già di per sé al tema in sé, perché il meccanismo di coinvolgimento che esse instaurano dovrebbe funzionare indipendentemente dal tema, e favorire per questo l’interesse anche per qualcosa che prima non si supponeva che ci potesse interessare.

Insomma, questo libro non prende. È onesto, discreto, per niente ideologico; non cavalca il facile tema dell’antisemitismo; tutto è raccontato con cura e senza ideologie precostituite. Ma non prende mai il volo, e dopo un po’ non si capisce più perché si dovrebbe andare avanti a leggerlo. Peccato.

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Di una foto di dettagli (5)

Dettagli (5)

Dettagli (5)

Non so. Cosa mi piace qui? Probabilmente il secondo piano con l’erba sottile che emerge sotto il primo piano con la felce. Ciascuno dei due piani ha il suo specifico verde, e la sua specifica organizzazione plastica. È un po’ come se si vedessero, l’una attraverso l’altra, come due società diverse, con diversi modi di organizzarsi – ma forse, anzi sicuramente, sto andando un po’ in là…

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Di una foto di mattoni, tegole, grondaie

Mattoni, tegole, grondaie

Mattoni, tegole, grondaie

Questa città invisibile mi è molto familiare e molto cara. Di questa immagine in particolare mi piace la giustapposizione dei piani, i colori diversi dei mattoni, quelli delle tegole e quelli delle grondaie, e poi il fatto che, dopo il primo sguardo, ci si accorge che di linee davvero orizzontali e verticali ce ne sono proprio poche. Tutto è lievemente inclinato. Forse è questo che fa la differenza tra il funzionalismo del Quattrocento e quello di mezzo millennio dopo.

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Di Ray Bradbury che non c’è più

Non mi è possibile esprimere un’opinione sull’importanza dell’opera di Ray Bradbury. A dodici anni, durante una noiosissima estate al mare, trovai nell’edicola del paese, su uno scaffale a rotelle all’aperto, sotto il sole cocente, un libro che possiedo tutt’ora, un Oscar Mondadori dal titolo Cronache marziane. Il titolo mi incuriosì, come la copertina.

Non so poi quante volte l’ho riletto, e riletto ancora, certi racconti di sicuro innumerevoli volte. Qualche brano lo ricordo persino a memoria.

Non so. Forse a posteriori dovrei fare la tara a tutto quel romanticismo letterario. Ma non mi è possibile. È entrato in me troppo presto. Ha riempito troppo i miei sogni dell’epoca in cui scoprivo la letteratura. Probabilmente è in buona parte responsabile della mia successiva passione per la fantascienza, e anche per i fumetti, che in quegli anni erano pieni di fantastico e di fantascientifico.

Ho apprezzato, ma non altrettanto, anche Fahrenheit 451. Ero già più grande, ed era in qualche modo un romanzo a tesi, senza quel meraviglioso senso di essere altrove del libro sulla colonizzazione di Marte.

A dire il vero, pensavo che Ray non ci fosse più da molti anni. Quando scoprii Cronache marziane, lui era in verità più giovane di me adesso. Onore a lui – comunque un mito, e non solo per me, direi.

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Del dettaglio e del totale, o del misticismo del Canaletto

Canaletto, "Il bacino di San Marco"

Canaletto, "Il bacino di San Marco"

Sono stato a Rimini, nei giorni scorsi, a vedere la mostra “Da Vermeer a Kandinsky. Capolavori dai musei del mondo a Rimini”. La mostra ha il livello di coerenza interna che il suo titolo promette, cioè nessuna: sala dopo sala, opera dopo opera, non sono riuscito a trovare nessun filo conduttore che le tenesse insieme. Tuttavia, la mostra mantiene anche quello che il titolo promette: pur senza nessuna logica di accostamento, le opere esposte sono davvero dei capolavori, e ci sono sia Vermeer (cosa davvero rara) che Kandinsky, insieme a un mucchio di altri autori (che potete, se vi interessa, scoprire qui).

Tra questi autori, il primo del lungo percorso è Antonio Canal, detto il Canaletto, con la tela poveramente riprodotta qua sopra, in realtà di un formato di circa 4 metri per 2. Si tratta di un dipinto straordinario, di quelli che tengono avvinta l’attenzione a lungo, e si fatica davvero a passar oltre – ed è un esempio perfetto di irriducibilità di un dipinto alle sue riproduzioni in scala ridotta.

Quello che probabilmente potrete cogliere dell’opera originale in questa riproduzione è la struttura complessiva, l’organizzazione plastica generale, il grande senso di apertura, di prospettiva, di cielo – e magari pure, con un poco di attenzione in più, l’inclinazione bassa dei raggi del sole, che enfatizza i contrasti luministici, e contribuisce all’effetto drammatico complessivo. Non è poco. L’immagine di Canaletto continua a rimanere bellissima persino così.

Ma di fronte all’originale che vedevo nella mostra succedeva anche qualcos’altro: quello che il mio occhio non poteva non fare era passare continuamente dalla veduta complessiva ai dettagli (dei muri, delle finestre, delle barche…), e dai dettagli alla veduta complessiva, e poi ancora dal generale al particolare, e così via. È questo che rende per me i dipinti del Canaletto tanto più affascinanti di quelli, per esempio, del suo contemporaneo e conterraneo Francesco Guardi, che ha un gusto plastico complessivo e un senso dello spazio che non sono inferiori a quelli del Canaletto, ma che lavora molto meno sulla puntigliosità del dettaglio, preferendo un, comunque (ma diversamente) affascinante, virtuosismo del pennello e del tratto. (E magari, pure, è meno attento alla luce – però questo potrebbe anche essere soltanto un effetto collaterale della meticolosità di Canaletto).

Insomma, nel trovarmi di fronte a questo grande spazio dipinto, non posso fare a meno di mettere continuamente in relazione microcosmo e macrocosmo, che sono immediatamente compresenti ai miei occhi. È vero che, in ciascuno specifico momento, o sono concentrato sul dettaglio oppure lo sono sull’insieme; però il passaggio dall’una all’altra attenzione è rapidissimo, immediato e immediatamente reversibile. Immaginate la differenza con quanto di meglio si potrebbe ottenere sullo schermo di un computer: se questa immagine qui sopra possedesse una risoluzione sufficiente a rendere merito all’originale, gli strumenti tecnici opportuni per visualizzarla permetterebbero di passare molto rapidamente dalla visualizzazione del dettaglio a quella dell’insieme e viceversa. Tuttavia, questa rapidità continuerebbe a essere in ogni caso incomparabilmente minore di quella dell’occhio, perché richiederebbe sempre un intervento della mano per modificare l’intensità dello zoom; e non ne ricaverei comunque la sensazione di essere di fronte, allo stesso tempo, all’insieme e a tutti i suoi dettagli. Certo che, non potendo possedere l’originale, né una sua copia a grandezza naturale, sarei felice di avere almeno il file ad alta risoluzione – ma il file ad alta risoluzione non potrebbe restituirmi comunque l’esperienza della presenza.

Tengo a precisare che non sto parlando di feticismo dell’originale, dell’emozione di trovarmi vicino a quello che è stato prodotto direttamente dall’artista. Sono ovviamente, queste, emozioni che esistono e hanno il loro peso nella fruzione dell’arte. Ma non sono ciò di cui sto parlando.

Quello che mi interessa qui è osservare che praticamente solo alla pittura (insieme alle altre arti dell’immagine statica: disegno, scultura, fotografia…) è data questa possibilità di associare così strettamente l’atto con cui si coglie l’insieme con quello con cui si coglie il dettaglio. Nelle arti che hanno sviluppo temporale, per esempio, come la musica, il cinema, il romanzo, il fumetto…, non possiamo che cogliere dettagli, mentre l’insieme è inevitabilmente presente solo nella ricostruzione mnemonica che ne facciamo. Non è possibile cogliere l’insieme di una sinfonia o di un racconto, se non in astratto: esso non sta mai davanti a noi nella sua fisicità come l’immagine di Canaletto.

Non è che la fruizione non abbia sviluppo, percorso, temporalità, di fronte alle arti puramente visive – così come ce l’ha, necessariamente, di fronte alle altre arti. Il punto è semmai che questo percorso o sviluppo non è predeterminato, ed è sempre fatto di salti avanti e indietro tra il tutto e le parti, dove il tutto non è un’astrazione mnemonica, bensì una presenza percettiva allo stesso titolo delle parti.

Il dipinto di Canaletto suggerisce così a ogni successivo sguardo una misteriosa consustanzialità tra i dettagli delle finestre, delle sartie e dei muri da un lato, e la meravigliosa apertura dello spazio, della luce e del cielo che cattura immediatamente l’attenzione, dall’altro. E siccome la dimensione del dettaglio è quella che noi viviamo continuamente, nella nostra vita normale, questa misteriosa consustanzialità ci riguarda direttamente, e suggersice a sua volta che noi stessi e la nostra dimensione possono trovarsi in sintonia con lo spazio, con la luce e con il cielo.

Insomma, nel complesso, un dipinto estatico, mistico, quasi una riflessione sul sacro – benché per nulla religiosa, anzi mondanissima.

 

 

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Di un fumetto molto francese (di Peyraud e Alfred)

Jean-Philippe Peyraud & Alfred, "La disperazione della scimmia", Tunué 2012

Jean-Philippe Peyraud & Alfred, "La disperazione della scimmia", Tunué 2012

Voglio solo dire due parole su La disperazione della scimmia, di Alfred (disegni) e Jean-Philippe Peyraud (sceneggiatura), pubblicato da poco in Italia da Tunué (trad. di Stefano Andrea Cresti). È un libro strano, che mi suscita sensazioni contraddittorie.

Da un lato è un feuilleton, con un paese oppresso, degli artisti, amori contrastati, una rivoluzione, e un sacco di temi un po’ stravisti. Dall’altro non posso negare di averlo letto, sin dalla prima pagina, con molto gusto e facendo fatica a staccarmi. Rispetto alle altre storie disegnate da Alfred e pubblicate da Tunué (Non morirò da preda, e Perché ho ucciso Pierre), il tema è forse un po’ meno originale – ma la qualità del disegno non cambia, e la sua combinazione grafica di caricatura e tragedia non è affatto secondaria per l’effetto complessivo.

Però, anche la storia ha evidentemente i suoi pregi. La figura del colonnello, per esempio, è memorabile: da un lato è indifferente e spietato, tirannico e omicida, dall’altro ha un volto da bambino spaventato e un’acuta sensibilità per l’arte moderna. Sarà magari questa combinazione di prevedibile e di originale a colpire, e a rendere, in fin dei conti, la lettura di questo libro così piacevole: molte cose scontate e parecchie soluzioni piuttosto originali, presentate con un segno incisivo e un montaggio piuttosto classico

Un prodotto molto francese, questo è chiaro; magari il frutto di un’industria culturale più matura – e quindi anche più standardizzata – di quella italiana. Però una bella storia a fumetti; di quelle che fanno venir voglia di lavorarci sopra (un’altra volta, però) per capire sino il fondo il perché.

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Di una foto di dettagli (4)

Dettagli (4)

Dettagli (4)

Diciamo che questo Dettaglio si potrebbe intitolare “Impronte”, e che c’è un intero universo di vite differenti rinviato da questa immagine.

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Di una foto con gente sui tetti

Dai tetti

Dai tetti

Stessa situazione che in questa foto, in questa e in questa. Stessa confusione, stesso fervore diffuso, con la gente persino sui tetti. Ma i tetti sono così piccoli, che per contrasto gli uomini sopra di loro sembrano enormi.

Qui le geometrie sono triangolari, piramidali. Tutto sale: la gente, le case, il nostro sguardo…

Però, salendo, tutti gli sguardi e gli andamenti vanno verso sinistra. Le geometrie, viceversa, spingono il nostro sguardo verso destra. Noi siamo gli osservatori, le persone ritratte i protagonisti. È giusto non confonderci troppo?

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Della poesia e dell’orrore (ancora)

Colgo l’occasione di un invito che ho ricevuto quache giorno fa per email da parte di Gianmario Lucini (Poiein, Cfr) per affrontare un punto controverso. Lucini, che è anche editore, oltre che poeta, scrive a me e ad altri sull’onda dell’indignazione per l’attentato di Brindisi, invitandoci a inviargli uno scritto che esprima il nostro sdegno: “Aspetto i vostri contributi, non tanto letterari ma di umanità e animalità ferita (che sento, che intuisco anche per voi, come per me). Aspetto la vostra collera per farne un libro di collera e d’innocenza, un grido contro tutte le mafie.” Lucini è persona impegnata (sia eticamente che poeticamente) e molto stimabile – ma questo suo invito mi pone un problema.

Lucini ha ragione a specificare che i contributi che chiede sono non tanto letterari ma di umanità e animalità ferita, però chi riceve questa comunicazione lo conosce come poeta, e come editore di poesia, e lui la accompagna anche con dei versi, scritti sull’onda dell’emozione. Tutto insomma ci fa pensare che pure a noi vengano chiesti dei versi, che esprimano la collera e il senso della ferita per l’accaduto.

In un’occasione precedente ho risposto anch’io a un appello simile di Lucini. Ero indignato e incollerito, e ho deciso di esprimerlo. Ma questa volta lo sono di più, e mi rendo conto che lo sono troppo per scrivere dei versi. L’idea che qualcuno abbia potuto progettare di mettere una bomba, per uccidere degli adolescenti a caso, mi sembra davvero troppo agghiacciante per essere contenuta dentro dei versi – almeno così com’è, nella sua cruda violenza e indifferenza: quella che percepiamo così nettamente a caldo, quella che ci sconvolge come ha giustamente sconvolto Gianmario.

Il punto è che io percepisco qualcosa di non comparabile, di non compatibile, tra le due dimensioni, quella dell’orrore del massacro progettato con cura, e quella della scrittura poetica. Così, a caldo, le uniche espressioni che mi paiono compatibili con quell’orrore sono il grido (quello vero, incoerente, rabbioso) e il silenzio, tutte e due espressioni primitive, tutte e due informi. Tutto il resto che può e certo deve anche venire, arriva dopo: sono le parole che cercano di capire, di spiegare, di dare una ragione al tutto, di contribuire a creare le condizioni perché qualcosa del genere non si possa ripetere…

Anche la poesia arriva, se può arrivare, solo a questo punto. Farla arrivare prima, nel momento del grido angosciato o del silenzio sgomento, ha per me qualcosa di artificioso, di facilmente retorico – un po’ come i discorsi dei politici, che in queste occasioni sanno solo ribadire la loro “ferma condanna”, perché loro, persino quando (cosa rara) sono davvero sinceri, non possono né tacere né gridare.

La poesia viene dopo perché è un atto sociale, una sorta di rito espressivo e comunitario, un riportare alla forza del ritmo (che è il ritmo vitale, dei gesti comuni, delle azioni condivise) quello che arriva dal mondo, di bene o di male, di gioia o di dolore. Quando qualcosa arriva alla poesia è già diventato mondo comune, è già proposta di soluzione, condivisione.

Ma nel momento in cui l’orrore si manifesta io vorrei solo gridare o tacere. Scrivere versi in quel momento mi pare quasi un’azione da sciacallo; come se approfittassi dell’emozione, mia e di tutti, per imporre la mia voce.

Scusami Gianmario. Capisco benissimo la tua intenzione, e non dubito della sincerità del tuo appello. Ma così è come la sento io. Se la poesia può nascere dall’orrore è perché in qualche modo lo si è già superato, in qualche modo lo si è almeno un poco digerito, almeno quel tanto che basta per poterci pensare.

A meno che non si voglia credere che un gruppo di poeti possa davvero contare qualcosa, in un’azione politica immediata e diretta. Io non lo credo proprio, non perché io pensi che la poesia non influisce, ma perché penso che se influisce (e oggigiorno questo succede sempre meno) lo fa a livello mediato e indiretto, lungo e profondo: qualcosa che ha a che fare con l’etica, semmai, non certo con la politica.

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Di Billie Holiday, attraverso Sampayo

Muñoz y Sampayo, "Billie Holiday"

Muñoz y Sampayo, "Billie Holiday"

Sono andato a sentire, qualche giorno fa, Laura Pigozzi parlare di Billie Holiday. Laura Pigozzi è psicoanalista ma anche cantante jazz. Il ciclo era quello di Polifonia del femminile (info qui) a cui avevo partecipato anch’io l’anno scorso parlando di Diane Arbus. L’idea del ciclo di incontri è quella che il relatore parla di una donna che, per qualche motivo, l’ha colpito molto – e cerca di comunicarne al pubblico le ragioni. Sono sempre presentazioni molto sentite, dunque; e quella dell’altro giorno lo è stata particolarmente. Quando poi ci è stato mostrato un video del ’59 (l’anno in cui Billie è morta) in cui canta Strange Fruit, il pubblico era visibilmente commosso, me compreso.

Io però non potevo fare a meno di pensare a un’altro resoconto emozionante su Billie Holiday, quello di José Muñoz e Carlos Sampayo, e una volta tornato a casa sono andato a rileggermelo. L’edizione italiana (Milano Libri – Rizzoli) è del 1993. In copertina c’è lei che canta, accompagnata da una coppia di pianisti dai capelli impomatati e con un’aria più latino- che afro-americana, in cui è difficile (ma non impossibile) riconoscere i volti dei due autori giovanissimi, all’età che potevano avere quando lei era ancora viva.

Il disegno di Muñoz colpisce come sempre, cioè violentemente. Però, una volta tanto, vorrei parlare piuttosto della sceneggiatura di Sampayo – anche se bisogna sempre avvertire, parlando di loro, che l’interscambio tra i due autori è sempre molto forte, per cui non esiste una sceneggiatura precedente che viene poi messa su pagina con i disegni, bensì un lavoro comune di progetto e realizzazione nel quale Sampayo è soprattutto sceneggiatore (ma interviene anche nelle scelte grafiche) e Muñoz è soprattutto disegnatore (ma interviene anche nelle scelte narrative).

Il racconto di questo libro è – diciamo così – polifonico: siamo al trentennale della morte della cantante, cioè il 17 luglio 1989, anzi, la notte prima; un giornalista che non sa nulla di lei viene incaricato di scrivere il pezzo per la commemorazione; non è molto contento di dover passare la notte in redazione, invece di raggiungere l’amante, che lo tempesta di telefonate; ma poi, inizia a scoprire la vita di lei, e ad appassionarsi alla cosa. Contemporaneamente, dall’altra parte della città, un uomo (nel quale chi conosce i lavori precedenti di Muñoz e Sampayo può riconoscere Alack Sinner) ascolta la voce della Holiday, e ricorda alcuni episodi che hanno intrecciato (marginalmente) la sua vita con quella di lei – e alla fine del libro andrà a posare un mazzo di fiori sulla sua tomba. Queste due diverse modalità di rievocazione (fredda e oggettiva – ma progressivamente sempre più partecipata – l’una, memore e appassionata l’altra) si intrecciano con i momenti della vita di lei, raccontati a questo punto senza un ordine preciso, ma seguendo ora l’una ora l’altra delle due rievocazioni: i difficili rapporti con i suoi uomini, che l’hanno sistematicamente sfruttata; la dipendenza dall’eroina e dall’alcol; i numerosi arresti; ma anche il rapporto singolare con Lester Young, il suo successo e la sua bellezza. Come pure la sistematica ignoranza della sua esistenza da parte dei bianchi, e l’adorazione, quasi venerazione, da parte dei neri.

Certo, la vita di Billie Holiday si presta bene a un racconto dai toni forti; non c’è bisogno di pigiare sull’acceleratore dei sentimenti, perché tutto sembra già al massimo da sé: il genio e la capacità creativa, insieme all’assoluta incapacità di stare davvero al mondo, facendo le scelte – non dico giuste – ma almeno non troppo sbagliate. Insomma una tragedia (nel senso teatrale) bell’e pronta, sfornata dalla storia della sua vita, e tanto più forte perché tutta vera.

Per questo Sampayo complica il gioco, e lo rende il racconto di un racconto, anzi di due; e Billie viene narrata attraverso il mito che la circonda, un mito fatto di luci spendenti e oscurità terribili, attraverso cui i sentimenti più dolci – come quelli che sembrano emergere dalla conversazione con Pres (Lester Young) si trovano presto sistematicamente annegati dalle durezze che li circondano – basate fondamentalmente sul pregiudizio, sull’incomprensione e sui luoghi comuni.

Tutto questo viene raccontato per spezzoni, passando di colpo da un momento della vita di lei a un momento del presente, in cui il giornalista è incalzato dall’amante che lo aspetta, o Alack è sommerso dai ricordi, e poi di nuovo alla storia di lei. Ogni evento è un breve flash, un po’ più lungo o un po’ più corto, ma comunque sempre un frammento che emerge nel frastuono collettivo degli eventi, quelli del presente come quelli della storia, quelli individuali come quelli collettivi.

Billie Holiday, il racconto a fumetti di Muñoz e Sampayo, è come una jam session in cui le voci soliste si alternano a scatti, emergendo sulla voce collettiva – la quale però rimane comunque ben presente, scandita dalla differenza e dai pregiudizi razziali. E la diversità di comportamento tra la comunità bianca e quella nera si riverbera anche nel presente, come quando il giornalista si accorge proprio studiando la vita di una donna nera che c’è lì, vicino a lui, un uomo delle pulizie nero, che lui non ha mai notato prima, ma che lavora in quel posto da ben 17 anni…

La violenza della vita di ieri non è molto diversa da quella della vita di oggi, proprio come la difficile emersione dei sentimenti. Esemplare è la parabola di Rufus, uno degli uomini di lei che se ne approfitta e la maltratta (mentre lei lo difende sino all’ultimo), che la vita conduce all’umiltà, e si incontra con Alan sulla tomba di lei, a portare i fiori.

Sampayo sa benissimo di maneggiare una materia pericolosa, che facilmente degenera nella retorica scandalistica dei quotidiani. Per questo gioca attraverso questi cambi fulminei di punto di vista, per cui siamo in un momento del tutto dentro alla storia di lei, vivamente compartecipi di quello che sente, e un momento dopo del tutto fuori, distaccati, quasi tecnici; e non c’è comunque tempo per la commozione, non c’è tempo per soffermarsi sui dettagli morbosi. Eppure, persino nella seconda modalità, quella cronachistica e distaccata, finiamo per coinvolgerci.

Proprio come sulla copertina del libro, Muñoz  e Sampayo si sentono evidentemente del tutto coinvolti. E pure noi, i lettori, lo siamo sin dalla prima pagina, quella in cui la voce di Billie parla dal mito che la accompagna: “Sfiorerò tutte le tonalità e vi farò sentire che la mia voce non è solo la voce di Billie, ma viene da una voce che è quella di tutti. Anche se solo io mi chiamavo Billie Holiday. Lady Day.” (traduzione: Fiorella Di Carlantonio)

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Di una foto di dettagli (3)

Dettagli (3)

Dettagli (3)

Il Dettaglio di oggi ha qualcosa di inquietante e innaturale, forse per questo accostamento di acqua e bruciore luminoso, di fango e nuvole, di erba e di quest’acqua che sembra un velo di plastica.

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Di una foto che sembra un dipinto

Davide Riboli - Urbino Maggio 2012

Davide Riboli - Urbino Maggio 2012

Non l’ho scattata io questa foto, ma il mio collega dell’ISIA di Urbino Davide Riboli, dal piazzaletto che funge da parcheggio all’istituto. È stata scattata con un iPad, il che giustifica la bassa risoluzione e la scarsa messa a fuoco di alcune parti.

Tuttavia, a ben guardare, questa scarsa messa a fuoco fa parte del fascino dell’immagine, che, così com’è, sembra quasi più un dipinto che una foto. Il paesaggio di fronte a Urbino, dal lato del Monastero di Santa Chiara (sede dell’ISIA) è comunque sempre un paesaggio leggendario, tra i più fantastici che si possano vedere – e sembra in ogni caso tratto da un dipinto medievale. Ma l’altra mattina Davide l’ha colto in un momento che lo rendeva ancora più particolare, con questo alternarsi di zone di luce e di ombra e con questo rispecchiarsi dell’ondeggiare verde chiaro e verde scuro della terra nel balenare grigio chiaro e grigio scuro del cielo.

A questo mondo raffigurato già di per sé così fascinoso, la sfocatura della foto aggiunge un effetto come di pennellate da dipinto ottocentesco, da macchiaiolo, quasi l’avesse dipinto Giovanni Segantini o Silvestro Lega – in particolare in quelle bellissime macchie di fiori (credo) sulla destra, con, sotto, il verde luminoso del cespuglio e, sopra, il verde scuro della collina lontana. Però, pur vedendo la mano di un pittore, si continua ancora a percepire che è una foto, e quindi si oscilla tra la percezione di un’immagine fotografica e quella di un dipinto – con differenti universi di riferimento evocati.

A chi devo attribuire il merito di questa immagine così intrigante? A Davide che, con lo strumento che aveva a mano, ha visto la scena, e ha comunque scelto l’inquadratura e l’attimo giusti? All’iPad e alla sua imperfezione? Al paesaggio urbinate? Al caso o alla combinazione di tutto questo?

Davide l’aveva poi postata su Google+, e lì l’ho trovata. Una volta le belle immagini finivano a decorare i muri delle nostre case. Per adesso ne ho fatto lo sfondo del desktop del mio computer. Fascinosa, ma persino un po’ inquietante, devo dire!

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Della poesia orale e della (e di) Voce

Lello Voce risponde su Satisfiction (riportato anche su Lello Voce online) alle mie osservazioni su Piccola Cucina Cannibale. Intanto lo ringrazio per il fatto di concordare con molte delle mie analisi, ma lo ringrazio poi anche delle due obiezioni che mi muove, le quali mi forniscono l’occasione per questa ulteriore riflessione.

Lello Voce lamenta la carenza di critica poetica che si occupi di poesia orale, performativa, e sostiene, non a torto, che mancano di fatto gli strumenti critici. Poi sostiene che, paragonando la sua operazione “multimediale” all’origine del Melodramma, io sarei caduto in un luogo comune. Certamente può essere, ma non sono così sicuro come lui che una musica libera dal fraseggiare tonale (il quale certamente, come dice lui, tende ad asservire la parola) sarebbe poi rispettosa nei suoi confronti: qualche volta sì, qualche altra no – e ho molto chiari una serie di esempi di musica contemporanea di ricerca in cui la parola (pur necessaria fonicamente) è del tutto ancillare per la dimensione del significato. Comunque si tratta di un rischio, e non di un destino segnato. Non è questo però il punto che mi interessa approfondire.

Mi viene da dire che il riferimento al Melodramma (quello delle origini, quello in cui la musica sarebbe dovuta essere amplificazione della parola, anche e soprattutto per il suo significato) potrebbe essere inteso, in una situazione in cui gli strumenti critici sono così carenti, come un suggerimento, magari provvisorio, per averne qualcuno in mano. C’è una difficoltà – almeno per me – non piccola, a ragionare per intonazioni di voce, velocità di pronuncia, dinamica, agogica… cioè gli aspetti sonori che caratterizzano una performance poetica orale, oltre che per metro, ritmo, senso, ecc. cioè gli aspetti comuni allo scritto e al parlato. In altri termini, credo di essere ormai bravino a smontare un testo scritto, ad analizzarne gli elementi e le loro relazioni, a spiegare che almeno certi aspetti dell’effetto che produce sul lettore sono riconducibili a certe caratteristiche formali del testo. Non che si spieghi tutto, certo; però qualcosa si capisce meglio, osservando così da vicino.

Ma quando il medesimo testo diventa un testo orale, ecco che entrano in gioco quegli aspetti detti sopra, che sono di evidente carattere musicale, e che un’analisi di carattere musicale potrebbe forse esplorare con qualche utilità. Un lavoro di questo genere, qualche anno fa, lo avevo condotto nei confronti di una poesia (scritta) di Umberto Fiori, tradotta come testo musicale (parlato, non cantato) da Luca Francesconi in uno dei suoi Radio-lied. Quel testo, “Radio-lied. Il racconto trasmutato” (uscito su VS n. 98-99 nel 2004), può essere scaricato dal mio sito. Non nascondo che quell’analisi così dettagliata mi era costata un sacco di lavoro, e che non sono sicuro che sarei in grado di ripeterla per altri tipi, diversi, di performance orali. Lì, comunque, ero aiutato dalla rilevanza della dimensione musicale.

In ogni caso, al di fuori di un lavoro di quel tipo, non resta che la dimensione dell’impressione soggettiva, dell’effetto che mi fa. Non è una dimensione necessariamente da condannare, specie se il soggetto giudicante (quello che valuta l’effetto che gli fa) è un soggetto che ha coltivato il proprio gusto, ed è in grado di collegare a pelle quello che ascolta (o che vede) con altre opere simili o diverse. Non è da condannare perché è inevitabilmente la dimensione su cui si pongono la maggior parte dei giudizi critici, per una banale questione di tempo: se io (o chiunque altro) dovessi lavorare per un mese per ogni giudizio critico, davvero ne potrei produrre ben pochi! E per questo devo comunque allenare la mia sensibilità a cogliere qualcosa anche subito, e a ottenere qualche elemento analitico comunque, che possa essere spendibile in tempi brevi.

Ma questo non toglie che il lavoro analitico sia di qualità enormemente superiore alla critica a pelle, e che dovrebbe essere comunque la meta a cui il critico tende, ogni volta che può. Per fare critica a pelle possono bastare strumenti più approssimativi; ma per analizzare da vicino c’è bisogno di parametri sufficientemente chiari e di un linguaggio descrittivo sufficientemente non ambiguo – due elementi rispetto ai quali confesso di sentirmi davvero un po’ in imbarazzo. E questo conferma che Lello Voce ha ragione quando lamenta la carenza di strumenti critici.

Tuttavia, questa differenza mostra, secondo me, anche che poesia scritta e poesia orale sono davvero due ambiti diversi – per quanto evidentemente collegati. Forse dovremmo possedere persino due parole diverse, o utilizzare in maniera sistematica proprio le espressioni poesia scritta e poesia orale, in modo da non confondere gli oggetti. Non si può infatti trascurare il fatto che una poesia non è lo stesso testo quando lo leggiamo con gli occhi sulla pagina (auspicabilmente facendolo risuonare dentro di noi con una voce virtuale) e quando si trova letta ad alta voce. Non lo è nemmeno quando il lettore ad alta voce è l’autore stesso: non so quanti poeti italiani sopravviverebbero nella pubblica considerazione, se dovessero essere giudicati esclusivamente attraverso le loro performance di lettura.

Il testo orale ha caratteristiche di intonazione, velocità di fruizione, volatilità del suono ecc. che il testo scritto non può avere, e che lo caratterizzano in maniera determinante. Molti testi scritti novecenteschi sono troppo complessi per poter essere davvero apprezzati in una performance orale, a meno che lo spettatore non conosca magari già il testo scritto – ma è una situazione paradossale: sarebbe come pretendere che per ascoltare davvero un brano musicale se ne conosca già la partitura – o a meno che l’ascolto non possa essere ripetuto più e più volte – come si fa col testo scritto e con la musica.

Essere performer anche solo delle proprie poesie è difficile. Nei miei esperimenti privati di lettura ad alta voce, basati su una competenza di recitazione che risale a un’epoca remota e per un periodo relativamente breve, finisce che non sono mai soddisfatto – un po’ perché la mia voce non va esattamente come vorrei, e un po’ perché la voce finisce sempre per decidere un senso interpretativo, e lo fa anche magari proprio là dove io vorrei lasciare l’ambiguità e la possibilità ad ogni voce virtuale del singolo lettore di trovare il proprio senso interpretativo. Forse sono troppo poeta scritto? Certo, il mio immaginario poetico è cresciuto in quel contesto; non lo posso negare.

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Di Miguel Ángel Martín, quando scherza

Miguel Ángel Martín, "Bug", Nicola Pesce Editore 2012

Miguel Ángel Martín, "Bug", Nicola Pesce Editore 2012

È tanto che non mi capita di scrivere di Miguel Ángel Martín. L’ultima volta è stato qui, su Golem, nel 2001, parlando di Psycho Pathia Sexualis, di pornografia e di violenza. Mi ritrovo pienamente in quello che scrivevo allora, e continuo a pensare che Martín sia un grande artista – ma non proprio facile facile da capire.

Per chi vuole fare meno fatica, e non è interessato alle angosce del sesso, c’è, adesso, Bug – dove la violenza sicuramente non manca (e in verità pure un po’ di organi sessuali vengono messi in gioco) ma l’argomento è così ridicolo e paradossale da non farcela percepire almeno direttamente come tale. Insomma, come dice già il titolo, il protagonista di Bug è un bacarozzo, una creatura minuscola di tipo incerto, ma sicuramente aggressiva e vorace – anzi, potremmo dire che è fatta solo di voracità e aggressività, nella più assoluta incomprensione di qualsiasi altra cosa.

Per questo la stupidità del nostro bug è a sua volta esemplare, e lo rende il protagonista ideale di piccole storie eccessive, o di microscopici eccessi. Violenza e voracità pure, unite alla totale stupidità, portano a conseguenze ovvie, tipicamente alla morte; ma il livello a cui tutto questo avviene è quello dell’irreale. Il nostro bug è il protagonista di un fumetto (e sarebbe perfetto anche per una serie di cartoni animati) che ha l’aria di essere fatto per bambini, ma che di sicuro non lo è. A prima vista sembrerebbe avere la perfidia di Tom & Jerry, ma poi ci si accorge che le morti e gli sbudellamenti sono un po’ troppo cruenti per quel mondo là.

Martín, da questo punto di vista, è decisamente sempre lui, sempre lo stesso di allora. La sua linea semplicissima e scarna, dalle forme rotondeggianti da fumetto disneyano, viene utilizzata in maniera troppo fredda; e l’assenza in generale di sfumature crea un senso di distacco e di straniamento. Alla fine, quello che viene raccontato non è che un orrore dietro l’altro: questo è evidente. Ma è evidente anche che Martín sta scherzando; ci sta ridendo sopra. Ci ridiamo sopra anche noi, non se ne può fare a meno, perchè Bug fa proprio ridere. Ma fa anche male, accidenti!

Il bacarozzo, in fin dei conti, ci assomiglia troppo, e non ci è difficile identificarci con lui, pur ridendone. Martín scherza, ma in fin dei conti scherza sempre, nei suoi fumetti. E ci fa sempre male. Magari Martín ci piace proprio per quello, perché ci fa male.

Insomma, anche il lettore di Martín è un masochista. Vedendomi così, mi sembra quasi di essere un personaggio delle sue storie. Alla dialettica del male non c’è scampo. Martín ce lo mostra sempre molto bene.

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Di una foto di dettagli (2)

Dettagli (2)

Dettagli (2)

Ci si dovrebbe domandare chi sia il collezionista ossessivo che ha sistemato un sassolino colorato in ogni anfratto. Una volta che si sa che c’è il mare vicino vicino, la domanda perde senso – ma l’immagine no.

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Di una foto (in un certo senso) erotica

Lo specchio blu

Lo specchio blu

Questa foto è stata presa grosso modo da qui, cioè dalla stessa posizione di quella della scorsa settimana. È solo una delle molto foto che ho scattato a questo oggetto mostruoso, affascinante e inquietante, che aggiunge alle parole di Borges anche la pretesa di incasellarlo, il mondo, oltre a farlo suo, quanto a forma e colore.

Le parole di Borges, eccole qui: “Desde el fondo remoto del corredor, el espejo nos acechaba. Descubrimos (en la alta noche ese descubrimiento es inevitable) que los espejos tienen algo monstruoso. Entonces Bioy Casares recordó que uno de los heresiarcas de Uqbar había declarado que los espejos y la cópula son abominables, porque multiplican el número de los hombres.” (dal racconto “Tlön, Uqbar, Orbis Tertius”)

Tradotto dallo spagnolo barocco di Jorge Luis, suonerebbe più o meno così: “Dal fondo remoto del corridoio, lo specchio ci osservava. Scoprimmo (a notte alta questa scoperta è inevitabile) che gli specchi hanno qualcosa di mostruoso. A quel punto Bioy Casares ricordò che uno degli eresiarchi di Uqbar aveva dichiarato che gli specchi e la copula sono abominevoli, perché moltiplicano il numero degli uomini.”

E, poco più sotto, quando Borges e Bioy Casares vanno a verificare: “Él (Bioy Casares) había recordado: Copulation and mirrors are abominable. El texto de la Enciclopedia decía: Para uno de esos gnósticos, el visible universo era una ilusión o (más precisamente) un sofisma. Los espejos y la paternidad son abominables (mirrors and fatherhood are hateful) porque lo multiplican y lo divulgan.”

Insomma: “Lui aveva ricordato: Copulation and mirrors are abominable. Il testo dell’Enciclopedia diceva: Per uno di questi gnostici, l’universo visibile era un’illusione o (più precisamente) un sofisma. Gli specchi e la paternità sono abominevoli (mirrors and fatherhood are hateful) perché lo moltiplicano e lo divulgano“.

Ecco qui dunque la ragione della mia fascinazione per quello che vedevo davanti a me: gli specchi sono come il sesso. Essi moltiplicano le illusioni e perpetuano il sofisma che le sostiene. In fin dei conti, dunque, stavo scattando delle foto erotiche, forse addirittura pornografiche. Nei termini del puritano Borges, questo sarebbe anche, probabilmente, il massimo dell’erotismo possibile.

 

P.S. Aggiungo, a posteriori, un’osservazione, perché solo ora ho capito che cosa sia quella macchia arancione verso il centro dell’immagine. Eravamo al tramonto quando ho scattato la foto. Il sole si è riflesso sul parabrezza di un’auto di passaggio proprio mentre scattavo, e lo specchio un po’ deforme ha fatto il resto. Quella forma informe è quindi il riflesso di un riflesso, l’illusione dell’illusione di un’illusione, nei termini degli gnostici di Uqbar. Ci possiamo domandare che tipo di relazione (certamente abominevole) intratterrebbe con il sesso, nei termini di Borges.

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Di una quartina barocca

La tomba di Taide

Taide qui posta fu, la più perfetta
dispensiera de’ gusti al molle amante.
Lettor, s’ardi d’amor, fatti qui inante,
che stesa in questo letto ella t’aspetta.

Questa quartina fu pubblicata dal poeta marinista veronese Paolo Zazzaroni, nel suo Giardino di poesie del 1641. Mi perseguita da quando avevo sedici anni, incontrata la prima volta nell’antologia scolastica del liceo.

Per capirne il senso, saprete forse chi fosse Taide, figura mitica della cortigiana per eccellenza, rappresentata da Terenzio nell’Eunuco, e poi citata da Cicerone e da Dante. Immaginatevi questi versi scritti sulla sua tomba, a descrivere chi fu questa donna in vita, e a esortare chi legge a farsi avanti, che lei lo sta aspettando. Versi in apparenza fin troppo semplici per essere stati scritti da un marinista, ma certamente barocchi in questa sinistra coincidenza stretta di passione sensuale e di morte.

Versi semplici solo in apparenza, in verità calcolatissimi.

La quartina è formata da due distici, entrambi tutti di endecasillabi a majore (accento forte sulla sesta sillaba – ovvero schema settenario+quinario), ma in ambedue i distici il primo verso è dotato di cesura con effetto sospensivo (altrove ho definito composto questo tipo di endecasillabo) e il secondo no. I distici mostrano dunque l’effetto parallelo di una tensione prosodica impostata dal primo verso e risolta dal secondo: ma la seconda risoluzione (sul verso 4) è più forte della prima, perché il verso è interamente giambico, esibendo quindi un ritmo molto più uniforme e disteso dei precedenti.

I primi due versi presentano una semplice descrizione di Taide, fatta di una prima clausola sintattica breve (“Taide qui posta fu”) e da una seconda molto più lunga. Le due espressioni in fin di verso, quelle che sostengono la rima con i due versi successivi, hanno, nella parte rimale (dall’ultima vocale accentata in poi, cioè) ben tre suoni in comune su quattro: “etta” e “ante”. La t è nella medesima posizione, le vocali si trovano invece in posizione invertita. “Perfetta” ha suoni più duri di “amante” (con quella n sospensiva al centro), e l’amante è pure molle.

Il gioco si fa più duro nei due versi seguenti. “Lettor” anticipa la rima con “perfetta”, viene richiamato da “fatti”, e contiene interamente “letto”; inoltre fa rima con “d’amor”, che si trova a sua volta inserito in un’altro accrocchio fonetico nel gruppo “s’ardi d’amor”, dove ritornano a, d ed r, nonché l’effetto sospensivo dopo la r. Il terzo verso è interrotto ben due volte, e queste interruzioni permettono che per ben due volte due sillabe accentate si trovino vicine (addirittura giocando sulle medesime vocali): “Lettòr, s’àrdi”, e “d’amòr fàtti”. Le clausole “s’ardi d’amor” e “fatti qui inante” hanno inoltre la stessa quantità sillabica (sono quinari) e gli stessi accenti. In questo modo, il terzo verso ha un ritmo ondeggiante, fatto di accelerazioni e rallentamenti.

Ecco perciò che, sulla base di questo, l’andamento uniforme del quarto verso ottiene una fortissima valenza conclusiva. Ma l’uniformità del quarto verso non è soltanto prosodica: alla normale distribuzione delle diverse vocali sulle sillabe accentate, che caratterizza gli altri versi, il quarto sostituisce il ritorno ossessivo di una vocale sola, la e. E ci sono altri giochi: la somiglianza tra “stesa” e “questo” è parallela a quella tra “letto” e “aspetta”. Le uniche l del verso si trovano nelle due parole contigue “letto” ed “ella” (e l’ultima l precedente era quella di “lettor”, che partecipa dunque del gioco), suggerendo una qualche identità tra il luogo e la persona (per non dire dell’ingresso in campo del lettore stesso, in questo letto/ella). E poi, last but not least, la rima comunque attesa tra “t’aspetta” (con il suo cupo sapore di morte) e “perfetta” getta ora una strana luce sul tipo di quella perfezione.

Il ritmo giambico ostinato, la ripetizione ossessiva delle e, il ritornare delle t, delle s e delle l danno a questo ultimo verso, nel suo procedere, un senso di conquistata immobilità, specie se a inevitabile confronto con la mobilità ondeggiante del verso precedente. Il brivido che il lettore prova nel sentirsi invitato nel letto di morte della cortigiana dispensatrice di piaceri deriva anche dall’improvviso passaggio dalla danza del verso tre all’immobilità ossessiva del quattro. Insomma, qui la morte ci colpisce non perché descritta, me perché di colpo in qualche modo esperita, in questo passaggio dal movimento all’immobilità, dalla varietà all’uniformità, dall’ardere d’amore che ci spinge avanti all’aspettare stesi in un letto dove ella e il lettore sono congiunti persino nel suono che li evoca.

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di Daniele Barbieri

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