
Sono apparso, non alla Madonna, ma in due antologie molto differenti tra loro uscite a breve distanza di tempo. Si tratta di Babel. Stati di alterazione, antologia plurilingue a cura di Enzo Campi (Bertoni 2022), e di Connessioni. Antologia di autoaiuto poetico in tempo di lockdown, a cura di Gabriella Musetti e Claudia Zironi (Vita Activa Nuova 2022).
Babel è una sorta di esercizio di traduzione plurilingue, alla quale un certo numero di poeti, italiani e non, hanno fornito un proprio testo, il quale è poi stato tradotto in tre lingue diverse da altri autori/traduttori. Gli autori di partenza sono, oltre a me, Karine Marcelle Arneodo, Vincenzo Bagnoli, Domenico Brancale, Marisol Bohórquez Godoy, Brice Bonfanti, Sonia Caporossi, Marthia Carrozzo, Laura Cingolani, Lella De Marchi, Francesco Forlani, Gianluca Garrapa, Michela Gorini, Alessandra Greco, Eugenio Lucrezi, Lorenzo Mari, Francesca Marica, Silvia Molesini, Fabio Orecchini, Jonida Prifti, Lidia Riviello, Massimo Rizza, Ranieri Teti, Ida Travi, Paolo Valesio, Sara Ventroni, Maria Luisa Vezzali. Gli autori/traduttori sono: Claudia Albu-Gelli, Antonino Bondi, Alice Bartolini, Fabiana Bartuccelli, Amal Bouchareb, Ani Bradea, Valentina Chepiga, Anna Maria Curci, Gianni Darconza, Francesca Del Moro, Irène Duboeuf, Gerhard Friedrich, Kaharu Inokuchi, Anna Chiara Peduzzi, Evangelia Polymou, Graziella Sidoli, Maria Laura Valente, Daniele Ventre, Patrick Williamson, Gabriella Zimmermann. Le lingue rappresentate sono: albanese, arabo, francese, giapponese, greco, greco antico, inglese, italiano, latino, lucano, napoletano, rumeno, russo, spagnolo, tedesco, turco, cui si aggiunge la lingua inventata (franco-italo-ispanica) di Forlani, e quella babelica in cui è trasposta la postfazione del curatore.
L’operazione è felicemente provocatoria, specie quando presenta lingue che pochi qui sono in grado di leggere, come l’albanese, il giapponese, l’arabo o il turco. Implicitamente, allude all’esistenza di una comunità poetica translinguistica (e di conseguenza transnazionale); e all’importanza del lavoro del traduttore, il quale, a differenza da quello che accade di solito nella nostra editoria, qui non è affatto in secondo piano, ma costituisce il senso stesso dell’opera, autore egli stesso, o autrice ella stessa.
Riporto più sotto il mio contributo e le sue versioni in inglese, tedesco e latino. Riporto anche uno dei quattro singolari contributi di Francesco Forlani, forse in se stesso simbolico dell’intera operazione del volume.
Connessioni nasce invece a partire dall’esperienza del lockdown della primavera 2020. Come racconta Claudia Zironi nell’Introduzione (e come specifica poi Gabriella Musetti nella postfazione), l’idea del libro nasce dall’esistenza di una chat di poeti, nata a sua volta quasi per sbaglio, con funzioni di reciproco sostegno e scambio di idee e informazioni, in un periodo in cui si era tutti fisicamente isolati, e in cui l’idea della relazione, o delle connessioni tra le persone, era particolarmente sentita come cruciale. Appaiono nell’antologia, oltre a me: Luca Ariano, Francesca Del Moro, Leila Falà, Raffaela Fazio, Serenella Gatti Linares, Marilina Giaquinta, Loredana Magazzeni, Gabriella Musetti, Silvia Parma, Cetta Petrollo, Toni Piccini, Marinella Polidori, Valeria Raimondi, Sergio Rotino, Enea Roversi, Elisabetta Sancino, Claudia Zironi, Anna Zoli.
L’antologia nasce dai contatti di un gruppo di amici, ma una paradossale conseguenza del lockdown è stata quella di annullare tutte le distanze portando Catania, o Brescia, o Roma, a essere egualmente distanti dalla residenza bolognese di ciascuno dei membri appartenenti al capoluogo emiliano (comunque la maggioranza, ed espressione della comunità di partenza, con le iniziative precedenti di Versante Ripido); perché in quel periodo il divieto di andare in giro rendeva la strada accanto lontana quanto Tokio.
Per ciascun autore appare una breve introduzione sul tema che intitola il libro, e alcuni testi autoproposti, scritti per l’occasione oppure trascelti tra i propri con criteri di pertinenza. Ci sono anche alcune foto di fiori scattate da me, che in quel periodo, avendo il privilegio di abitare in campagna, ingannavo la solitudine con lunghe passeggiate.
Riporto più sotto alcuni dei contributi presenti nel libro, e una delle mie foto.
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Da Babel.
Il mio originale:

La versione inglese di Graziella Sidoli:

La versione tedesca di Anna Maria Curci:

La versione latina di Maria Laura Valente:

Una delle quattro poesie babeliche di Francesco Forlani:

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Da Connessioni:
Leila Falà:

Raffaela Fazio:

Serenella Gatti Linares:

Loredana Magazzeni:

Cetta Petrollo:

Sergio Rotino:

Elisabetta Sancino:


17 Ottobre 2021 | Tags: covid, etica, green pass, vaccino | Category: etica | Sono vaccinato, favorevole ai vaccini e contrario al green pass, un ossimoro nei termini della vulgata recente, che assimila i no pass ai no covid-vax, e i no covid-vax ai no vax tout court, e questi ultimi, sempre più frequentemente, ai fascisti. Sappiamo bene, se ci riflettiamo un attimo, che nessuna di queste assimilazioni è valida, ma il giudizio dei più, anche tra le persone che si ritengono di sinistra, funziona di fatto come se lo fossero. Dall’altra parte, si accusa il governo di deriva autoritaria, di aver promulgato delle regole anticostituzionali, che ledono il diritto di quei lavoratori che non hanno fatto il vaccino; e c’è addirittura chi equipara il green pass al famigerato tesserino di appartenenza al Partito Fascista, che in quegli anni tristi era di fatto quasi indispensabile per poter lavorare.
La matassa è molto imbrogliata, troppo per i miei sforzi interpretativi, ma qualche nodo posso provare a scioglierlo, sperando che serva a chi ne scioglierà poi qualche altro.
La prima osservazione che mi viene da fare riguarda il dissolvimento di senso delle espressioni destra e sinistra, in campo politico. Si è sempre trattato di un’antinomia riduttiva e semplificatoria, ma per molto tempo ha sostanzialmente retto: a sinistra ci stava chi sosteneva la fraternità, la libertà e soprattutto l’uguaglianza (politica, sociale, economica); a destra chi sosteneva l’imprescindibilità dello Stato e della sua forza, al di sopra di quegli stessi valori. E tuttavia, verso destra ci stavano pure i liberisti, promotori di una libertà di impresa che è comunque una libertà che può contrapporsi allo stato, ma che sappiamo quanto si contrapponga al valore dell’uguaglianza, specie economica. E quando Berlusconi parlava di diritti civili, e di strapotere della magistratura, a noi che ci consideravamo di sinistra si rizzavano tutti i peli; perché era comunque evidente che quella libertà individuale era prima di tutto la sua personale.
Inoltre, per molti anni la sinistra storica ha avuto come riferimento un paese, l’Unione Sovietica, dove forse un po’ di uguaglianza economica c’era, ma di tutti gli altri valori sopraelencati il governo sovietico appariva come il più radicale oppositore, non molto diverso, in questo, dal nostrano fascismo. Differenziarsi era doveroso, e il PCI lo fece; ma rimase comunque a lungo (e in parte rimane) nel partito uno spirito di obbedienza, del resto necessario alla compattezza necessaria per vincere le battaglie – ma in ogni caso contrario, in sé, al valore della libertà.
Oggi le cose sono ancora più confuse. Resta chiaro soltanto che i fascisti sono di destra, e i leghisti stanno loro vicini, in quanto legati, ciascuno a suo modo, a un passato in cui erano ancora legittimamente riconoscibili come tali: da questo passato non sanno staccarsi, ed è facile, quindi, definirli di destra. E la sinistra?
La libertà rivendicata dai no vax è di sinistra? La dittatura del proletariato, ancora sostenuta da qualche nostalgico d’altro tipo, è di sinistra? Sarebbe facile definire tanto più di sinistra qualcuno quanto più è lontano dalle idee della destra: e spesso finisce proprio per essere così! Ma questo, di fatto, non fa che avallare la scarsa significatività della parola sinistra.
Non dimentichiamo che nel 1919 il programma del neonato Partito Nazionale Fascista era pieno di intenzioni sociali progressiste, che non esiteremmo a definire di sinistra. Del resto, la parola fascista, in quegli anni, era sinonimo di socialista rivoluzionario, o di sindacalista estremista; era semmai l’appellativo Nazionale a fare la differenza. Del resto, pochi anni dopo, Hitler avrebbe chiamato il proprio partito Nazional-Socialista, nello stesso spirito, ma dove l’appellativo Nazionale aveva risvolti razzisti che in Italia sarebbero entrati in gioco non prima di una ventina di anni dopo. In quel 1919 era di destra il fascismo? Era davvero riconoscibile come tale? Non facciamoci ingannare dalla prospettiva: a noi oggi è evidente che lo fosse, visto quello che è successo dopo, dallo squadrismo (1921) in poi. Ma nel 1919 essere un socialista rivoluzionario con risvolti nazionalisti non era così chiaramente una posizione di destra, e Mussolini poteva portarsi dietro anche molti socialisti sinceri.
Molte persone che si sentono di sinistra difendono il vaccino covid in nome della fraternità: se tutti ci vacciniamo, i deboli saranno maggiormente tutelati. Oltre a proteggere noi stessi, abbassiamo la probabilità di contrarre la malattia per coloro che vaccinare non si possono, per la delicatezza della propria situazione complessiva. Anch’io la penso così, e trovo immorale la posizione no vax di principio, secondo cui anche le persone sane non devono vaccinarsi e non lo fanno.
Temere per la propria salute futura è legittimo (“non sai cosa ti inietti, e che conseguenze potrà avere domani sul tuo corpo”), ma anteporre questo timore alla speranza di vita dei deboli non segue esattamente un principio di fraternità. So bene anch’io di essermi sottoposto a un rischio, ma ritengo che sia stato mio dovere sociale farlo.
Aggiungiamo che per molti no vax, l’opposizione ai vaccini fa parte di un vagheggiato ritorno allo stato di natura, e si associa al cibo biologico e alla medicina naturale. Nessuno si accorge che quando si era più vicini a quello stato di natura, la stessa concezione dell’individuo e della morte erano assai diverse; e nessuno si sarebbe sognato di pensare cose come “il mio corpo è mio e non voglio che sia penetrato da sostanze sconosciute”. Anch’io cerco di mangiare cibo biologico e di avvalermi della medicina naturale, ma non spero affatto che questo mi ricongiunga o mi riavvicini a uno stato di natura, in cui i valori di fraternità, libertà e uguaglianza perdono completamente di senso.
Condannare la posizione no vax è una posizione etica, un po’ come condannare il leghismo. Cosa succederebbe se, per conservare il posto di lavoro, bisognasse avere il No-Lega Pass, un pass che dimostra che non si è elettori della Lega? Chi si considera di sinistra non dovrebbe protestare ugualmente, anche se i diritti lesi sono di altri, e di altri che possiamo, sotto molti aspetti, considerare immorali? Un altro dei principi, di origine illuminista, che guida la sinistra, dovrebbe essere quello della tolleranza, secondo il quale dobbiamo tollerare le opinioni diverse, e persino difenderne la legittimità. Se c’è un indizio certo della destrità di una posizione, è proprio il non rispetto delle minoranze, sempre in nome, certo, della forza dello Stato.
Sappiamo che il principio di tolleranza comporta un paradosso, per cui la tolleranza non può tollerare chi non tollera la tolleranza, pena la sua annichilazione. Il fascismo è fuorilegge in Italia anche per questo, per aver dimostrato di non tollerare le opinioni diverse.
Ci sono quindi eccezioni, per quanto estreme, al principio di tolleranza. Ma, per quanto possiamo ritenere immorale la posizione dei no vax, essa forse mette in pericolo la tolleranza stessa? Certo, assimilare i no vax ai fascisti (magari promuovendo nascostamente l’infiltrazione dei più beceri tra loro in una manifestazione con intenti pacifici, e inducendoli a ritornare gloriosamente alle origini, come una squadraccia di cento anni fa, che irrompeva in una sede sindacale e distruggeva tutto!) semplifica l’operazione, squalificandoli a priori. D’altra parte le destre, fascista e leghista, hanno sempre pescato nelle sacche di scontento non rappresentato dalla sinistra. Qualcuno dei no vax si è lasciato convincere; qualcuno non ha capito e ha involontariamente tollerato. Tra immorali ci si capisce, anche se le posizioni rimangono diverse.
Ora, perché in Italia c’è il green pass e altrove, quasi dappertutto, non c’è? Non credo sia corretto paventare un ritorno del fascismo: la nostra società, la nostra cultura è ormai ben difesa contro questo. Lo dimostra, tra l’altro, la strategia di screditare un movimento associandolo ai neofascisti. Tuttavia, proprio come nel 1919 sarebbe stato ben difficile prevedere l’evoluzione del neonato Partito Nazionale Fascista, perché tutto era nuovo; allo stesso modo, non dobbiamo temere la rinascita di qualcosa di vecchio e sputtanato dalla storia, bensì l’insorgenza di qualcosa di nuovo.
Chiamiamolo il draghismo. Pensiamo a che cosa è stato in Argentina, nei Cinquanta, il peronismo. Perón ha avuto un sostegno popolare enorme, ha avviato politiche di rinnovamento, anche con istanze che potremmo definire di sinistra. Quando ha incominciato a perdere potere, ha però anche incominciato a perseguitare gli avversari politici, e a reprimere. Questo suo stesso atteggiamento ha reso meno odiosi i colpi di stato che l’hanno deposto e seguito, agli occhi della popolazione – ma poi è stato chiaro che dalla padella si era caduti nella brace. I pro e i contro del peronismo sono ancora oggetto di discussione.
Dove potrà andare il draghismo è difficile dirlo. Certo il sostegno pubblico ai suoi provvedimenti è vasto e preoccupante. In questo, Draghi è riuscito è coalizzare gli italiani contro un nemico non controverso, il covid, riuscendo là dove Salvini era (per fortuna) riuscito solo in parte con i migranti, un nemico che molti di noi non possono sentire come tale. Non solo: è riuscito anche a polarizzare le posizioni, rendendo più estremisti i no vax (terrorizzati dall’idea dell’introduzione di una sostanza sconosciuta nel proprio corpo), e anche i pro vax (spesso terrorizzati a loro volta dal covid), facendo diventare difficile il dialogo, aprendo le porte a un conflitto che – la storia ci insegna – può essere un’ottima scusa per svolte autoritarie, dalla Marcia su Roma in poi. Non sarà in nome della sicurezza, stavolta, ma in nome della sanità (che è comunque un altro tipo di sicurezza): ho letto qualcuno, on line, che sosteneva che il diritto alla salute è ancora più importante di quello alla libertà; e un’opinione come questa può diventare un’ottima base per legittimare una dittatura sanitaria.
Detto questo, non credo che Draghi sia controllato dalle multinazionali, o almeno non più di chi l’ha preceduto come Presidente del Consiglio. Semmai, la sua esperienza a capo della Banca Centrale Europea, dovrebbe avergli insegnato come trattare con loro, e dovrebbe quindi saperne di più, in merito, di chi l’ha preceduto. Il punto non è questo: è semmai che Draghi rappresenta in modo esemplare il dominio dell’economia. Del resto era presidente della banca centrale di quella che è stata la Comunità Economica Europea, e non la Comunità Etica Europea. Difficile attendersi da lui scelte etiche, indubbiamente.
Qualcuno suggerisce che la stretta sulle vaccinazioni che consegue dalla politica restrittiva sul green pass serva a far sì che l’Italia, in quanto paese più vaccinato del mondo, possa prima degli altri tornare a far marciare l’economia, godendo così di un vantaggio nel prossimo futuro. Può darsi, e presumibilmente ne godrebbero tutti gli italiani; però, al momento, chi ne fa le spese sono i lavoratori, come sempre; i quali non saranno neanche quelli che ne godranno di più. È etico, questo?
Se questa ipotesi è vera (e a me sembra perlomeno plausibile), allora possiamo dire che se la scelta no vax è una scelta immorale, perché privilegia la mia personale integrità rispetto a quella dei deboli, altrettanto immorale è l’imposizione di fatto del vaccino tramite il green pass, perché privilegia il guadagno di alcuni rispetto a quello di altri. Ah, già! Ma il capitalismo è fatto così! Giusto! È per questo allora che il green pass non scandalizza i più, persino quando continuano a sentirsi di sinistra?
Come tante polemiche, anche questa ha i suoi aspetti divertenti, a saperla guardare. La statua è brutta, anche se la donna raffigurata è bella, o perlomeno ha un aspetto che al maschio medio italiano stimola presumibilmente desiderio. Se il suo titolo, invece di essere quello che è, fosse Venere callipigia, non sarebbe probabilmente più riuscita come opera, ma certamente l’intenzione dell’autore sarebbe più apprezzabile; però i finanziamenti pubblici non sarebbero arrivati.
La polemica nasce non sull’operazione “artistica”, ma su quella politica. Sono stati spesi dei soldi pubblici per proporre un’immagine sessista di una donna, una donna immaginaria che nella mediocre poesia originale era decisamente meno sessuata. Qualcuno, per difendere l’autore, ha rivendicato la sessualizzazione di statue famose del passato, per le quali nessuno si lamenta del bel culo messo in mostra – poiché callipigio significa proprio questo, anche se di nuovo nessuno, visitando i musei archeologici, se ne lamenta. Qualcuno ha invocato la libertà dell’artista, dell’ispirazione autoriale.
Ho alcune riflessioni da fare, che non mi sembra aver visto emergere nella polemica.
In primo luogo, la statuaria del passato non fa molto testo. Oltre a essere stata prodotta in epoche in cui il problema non era sentito, della statuaria rimane soprattutto quello che vale qualcosa, indipendentemente dalla qualità dei fondoschiena; perché le opere di scarso valore sono andate più facilmente distrutte, o facilmente giacciono nei magazzini dei musei, e non le guarda nessuno. Il passato, insomma, ci arriva già selezionato; e ogni osservazione su come erano bravi quelli prima di noi si dimentica bellamente di questo.
In secondo e più importante luogo, stiamo parlando di un monumento, non specificamente di un’opera d’arte. Monumenti se ne sono sempre fatti. Sono sempre serviti per celebrare qualcosa che serviva al committente, dall’Eneide (un monumento letterario, scritto da un grande poeta, e finanziato da Augusto) al Marco Aurelio al Gattamelata. Erano opere d’arte? Certo sono rimaste quelle che a noi appaiono tali. Ma non dimentichiamo che l’Arte, come la pensiamo noi, è un’invenzione romantica. Per uno come Michelangelo, che incapace decisamente non era, arte significava semplicemente la capacità di fare, e artista era chi sapeva fare, che poteva anche essere definito, in maniera pressoché equivalente, artigiano. Se Giulio II commissionava a Michelangelo il monumento a se stesso, era perché indubbiamente Michelangelo quella capacità di fare la possedeva più di chiunque altro. Ma l’idea quasi mistica delle capacità di Michelangelo è un’idea che inizia a essere adombrata da Vasari, e si sviluppa pienamente solo nell’Inghilterra del Settecento, contestualmente al successo dell’idea di sublime e agli albori del Romanticismo.
Aggiungiamo che un cavillo filosofico sull’idea della nuda verità ha permesso all’Occidente di sdoganare il nudo nelle belle arti, dribblando la difesa della potente squadra cattolica (ma in Spagna, per esempio, rimaneva proibito); così che le Susanne, le mogli di Putifarre, oltre alle Veneri callipigie, sono fortunosamente proliferate nel nostro immaginario pittorico e statuario.
La nostra callipigia spigolatrice è stata dunque commissionata come monumento, non come opera d’arte, per celebrare retoricamente la simbolica protagonista di una retorica poesia patriottica. Lo testimonia la presenza delle Istituzioni all’inaugurazione, comprensibilmente interessate a sostenere se stesse, persino sfruttando retoriche un po’ fuori moda (ma mai nelle nostre scuole) come quella del Risorgimento – magari sfruttando persino un po’ di pubblicità trasversale come quella che si può ricavare da una polemica (presumibilmente prevista e fomentata).
Ora, certo il punto è che per quella roba lì sono stati spesi (anche) i miei soldi, pure se – mi viene da dire – 17.000 per una statua di bronzo non mi sembrano poi tanti, visti i materiali e il lavoro che richiede (a prescindere dal risultato). Comunque sia, pochi o tanti che siano, i soldi pubblici sono stati spesi per celebrare retoricamente il personaggio di una retorica poesia, al servizio di una retorica nazionalista di cui abbiamo smesso di aver bisogno da molti decenni (e non c’è nemmeno più una Lega Nord a farci venire dei dubbi). Fossero stati 17, gli Euro, probabilmente sarebbero già stati troppi.
Meglio sarebbero stati spesi per una Venere callipigia, o per un Adone callipigio, a scelta: la Callipigia di Sapri (o il Callipigio di Sapri). Un monumento al fondoschiena sarebbe meno retorico, più ironico, più esplicitamente carnale. Non attrarrebbe i politici, in quanto presumibilmente meno in odore di putrefazione. E magari, quindi, potrebbe finire per essere persino esteticamente interessante. A quale pubblica amministrazione andrebbe inoltrata la richiesta?
16 Giugno 2021 | Tags: Lella De Marchi, poesia | Category: poesia | La disalterità di Lella De Marchi
(già pubblicato qui come nota critica a “Ipotesi per una bambina cyborg”, finalista a BIL 2021)

Quando l’altro è lo stesso, ma non del tutto, si generano delle inquietudini ossessive. Tutto scorre, ma è come se scorresse in circolo. Tutto ritorna, ma ogni volta è un poco differente. Identità e alterità si confondono, ma non possono confondersi del tutto, perché se un’identità è anche un’alterità, essa porta in sé il principio della diversità.
Una bambina cyborg non è un essere vivente, eppure lo è. Ha visto cose che voi umani…, ma sente le cose come tutti. È diversa, ma non lo è. È un’altra, e insieme è se stessa. Tornare a navigare nel grande vuoto, lanciando calci senza riceverne, in un liquido amniotico che torna più volte in queste poesie.
E tornano tante parole, a breve distanza, ossessive, e a lunga distanza, diversamente ossessive. E ritornano i suoni: assonanze, allitterazioni, paronomasie, bisticci. Una goccia stilla da una stella, di postille di pupille, tutto nel mondo si scinde, tutto nel mondo si sente, tutto è monco nel mondo. Del resto, io sono nata più volte. / inseguo nel niente una ripetizione costante.
C’è un andamento musicale, quasi danzante, in queste poesie di Lella De Marchi, anche se la danza non ci libera; è come una possessione, un ritmo da violino del diavolo a cui non si può resistere e che ci porta con sé. C’è anche un andamento narrativo, in queste poesie, ed è lì dentro che la possessione ci getta, a cavallo tra tenerezza, tenerezza e angoscia.
La bambina esiste davvero, è nata, gioca, viene presa per mano. Contemporaneamente, la bambina è la proiezione dell’infanzia di chi scrive. Il diverso è l’identico. L’identico è il diverso. La bambina è artificiale come l’amore che vive / e prolifera su questa terra. È unica e multipla. È lei stessa ed è tutte le cose e tutti gli animali che ci parlano, che naturalmente intervengono nel dialogo/monologo, nel ritratto/autoritratto. Del resto siamo la doppia immagine che può vedersi da sola.
Non si tratta però di un mondo di illusioni. In questa mise en abîme, di specchi che riflettono altri specchi, il sentimento traluce. Rischia di diventare falso solo quando se ne parla. Necessariamente c’è e si trasmette, perché tra l’io e l’altro c’è continuità, ci sono le cose che tornano, le parole che tornano, i suoni che si ripetono: sostanze, materia, carne.
Viceversa, l’amore non si cura della forma l’amore sa che la forma / non è che un antidoto alla paura. Poco importa mostrare di amare. Amare è ritrovarsi nel vortice di una differenza che insieme non lo è, eppure lo è, ma ancora lo nega. Ritornare ossessivamente, appassionatamente, musicalmente, sull’assenza di una distanza che c’è ma non c’è. E che in questa oscillazione ugualmente, paradossalmente, scorre.
1 Giugno 2021 | Tags: Laura Liberale, poesia | Category: poesia | Lo scrutare nel buio di Laura Liberale
(già pubblicato qui come nota critica a “Unità stratigrafiche”, Premio BIL 2021)

Gli archeologi come i paleontologi scavano strati di cose morte per ricostruire la storia delle cose vive, quelle umane gli uni, le naturali gli altri. Le unità stratigrafiche corrispondono a livelli storici omogenei, separati da quelli adiacenti da un qualche tipo di frattura. A Troia dieci strati archeologici differenti furono scoperti corrispondendo ad altrettante città, un tempo vive e poi morte, e sepolte dagli anni. Scavare è l’attività comune a queste ricerche sulla vita attraverso le cose morte; come scavare è pure l’attività simbolica del passaggio dalla vita alla morte.
Non c’è dubbio che a Laura Liberale interessi la vita, ma quando la si guarda da quel punto di vista particolare che si pone al suo limite, se non addirittura fuori dal suo limite, la vita può rivelare risorse insospettate. Si tratta solo di scavare, strato dopo strato, nella presenza di questa assenza, senza distogliere lo sguardo, senza orrore, con distaccata e un po’ meravigliata naturalezza; e ancora senza perdere la consapevolezza, la compassione.
Non c’è niente di più facile che diventare retorici, parlando della morte. In una cultura che idolatra l’individuo, il soggetto, l’io, la sua dissoluzione è evidentemente una tragedia. In questo libro c’è il dolore, sì, ma la tragedia non si affaccia mai. La morte vi è evidentemente un evento importante, che fa pure un po’ paura, ma appare tranquillamente parte dell’ordine naturale delle cose, persino quando muore un ragazzo, persino quando muore una bambina.
Impossibile, qua e là, non pensare a Spoon River, specie quando sono i morti stessi a parlare. Ma qui non c’è commemorazione e nemmeno compianto. C’è solo una sorta di consapevolezza diversa, un poco aliena; quella di qualcuno che è stato umano, magari vorrebbe tornare a esserlo, ma non lo è più.
Nei diversi strati del libro il rapporto con i morti cambia. All’inizio è un contatto diretto con i loro corpi, tramite il prendersene cura, dove il morto è insieme una persona dotata di un nome e un oggetto di cui occuparsi – e si fatica a tenere insieme le due dimensioni. La signora S., protagonista delle prime poesie, per esempio, l’hanno estratta dal frigo e ora trasuda brina, e la sua mano rimane ancora tutto sommato una mano finché stendiamo sulle unghie / lo smalto rosa a coprire il vecchio rosso smangiato. Il punto della questione è che continua a persistere un qualche tipo di commercio fra vivi e morti, ed è questo a tenerci, pur labilmente, insieme.
Poi, progressivamente, i morti in quanto tali si fanno più lontani, e il tema diventa il morire, il passare oltre. C’è un padre che per molti giorni ritorna in forma di mosca, qualcun altro tenta per nove volte di rientrare nel suo stesso corpo; ci sono i vivi che si chinano sul proprio morto, come sperando che lui possa aggrapparsi ai loro capelli per tornare. Un’intera, piccola, sezione, è dedicata a i mezzi, ovvero i medium, coloro che con i morti hanno contatto, che li sentono, ci parlano. Sono normali e anormali insieme, sono il tramite, la colonna di luce / intorno a cui si accalcano i morti falene.
E ancora, ci sono poi coloro che stanno per morire, uomini o animali che siano; coloro che lo sanno o non lo sanno, o magari lo sentono. La cagnetta Laika, il topo transgenico, la pecora Dolly, il verme che al morire si fa fluorescente… Parlano con i loro affetti, o parlano al mondo via Twitter… E c’è anche altro, che magari non sembrerebbe di per sé collegato alla morte, ma tutto tiene, qui – in un linguaggio poetico molto piano, spesso quasi argomentativo, con periodi lunghi scanditi internamente dalla divisione in versi.
È la vita a trovarsi singolarmente rappresentata, in questo modo. Non che si debba arrivare a pensare, con Heidegger, che “si vive per la morte”, ovvero immersi in quella prospettiva. Ma nemmeno si dovrebbe vivere come se la morte non esistesse. Il fatto che esista dà alla vita il senso che ha, quello di qualcosa che si esaurisce, che ha valore proprio perché prima o poi smette. Non c’è altro scampo che vivere al presente, concentrati in quello che si fa come Siddharta dalla volizione chiara immerso in meditazione o come il gatto concentrato sulla preda. Il dolore, la paura, non vanno negati, bensì compresi, accettati. Il male non ci potrà turbare se agiremo in questo modo.
18 Maggio 2021 | Tags: Paola Nasti, poesia | Category: poesia | Su Paola Nasti, Il libro degli affetti e delle restituzioni
(già pubblicato qui come nota critica al libro inedito di Paola Nasti, vincitore del Premio Speciale del Presidente della Giuria a BIL 2020)

Paola Nasti gioca sull’orlo delle cose. Le cose appaiono come illuminazioni improvvise nel Libro degli affetti e delle restituzioni, misteriosi correlativi oggettivi di una dimensione più astratta e più interiore. Anche al centro della psicoanalisi di Jacques Lacan sta una cosa, anzi la Cosa, la Chose, o meglio, per dirla con lui das Ding. Il termine è freudiano, ma Lacan sa bene di giocare con una Cosa ben più nota nella storia della filosofia, das Ding an sich, la cosa in sé di kantiana memoria, caratterizzata dalla sua intrinseca inconoscibilità, insomma il noumeno, contrapposta al fenomeno, ovvero ciò che appare e si può conoscere. Questa Cosa che si trova al centro dell’essere di ciascuno di noi è infatti, per Lacan, un’assenza, un buco, qualcosa che non può mai essere conosciuto, e quindi raggiunto, né nel rapporto autoriflessivo con sé e neppure nel corso di un’analisi. Ma si tratta di un buco costitutivo, perché causa lo squilibrio fondamentale che ci tiene vivi, desideranti, in continua tensione verso qualcosa che, volta per volta, proviamo temporaneamente a mettere al suo posto.
Forse programmaticamente, forse inconsapevolmente ma comunque in modo rivelatorio, il libro di Paola Nasti inizia così: “un blocco di creta / di poco più grande di un pugno / scavi il centro col dito / tornio di carne / fingere la forma attorno al vuoto”; e poi prosegue, poco sotto: “il vasaio finge il vuoto, lo contorna / di parole, adorna spazi / di fregi e di colori / tutto quello che scrive / non intacca mai il centro”. Sono le prime due Restituzioni. Inizialmente è la materia medesima a prendere forma attorno al vuoto, definendo la forma, fingendola; poi è la parola a fare lo stesso, come se fosse un altro tipo di materia. La parola, qui, è certamente quella della poesia, ma è anche quella degli affetti, quella dell’io – quel moi che Lacan definisce una costruzione, una sovrastruttura, una finzione, per quanto indispensabile.
Evocato vagamente in questa sede, l’io è destinato a non tornare in tutti i versi che seguono, dove dominano gli infinitivi, le seconde e terze persone, e al massimo qualche prima plurale. Nei pochissimi versi in cui l’io si manifesta come persona grammaticale, non fa che accostarsi alle cose, è insomma un io dinamico o forse percettivo, senza dignità psicologica, senza interiorità; perché sono sempre le cose a dominare il campo, e le relazioni tra loro. D’altra parte lo stesso approccio alle cose è sempre costruito, come in questi due primi componimenti, per improvvise illuminazioni, magari affastellate in sequenza, ma mai davvero sviluppate, mai contrastate con un’esplicita dinamica interiore.
Si direbbe una realtà fredda, oggettuale, dove lo spirito non può mettere piede, perché qui non si manifesta (mai) nessuno spirito, e il mondo è fatto di queste fredde relazioni tra cose, di questi vuoti che in realtà né la materia né la parola possono intaccare. Ma questa freddezza sparge attorno una diffusa inquietudine, questo vuoto di affetti chiede di essere riempito, mette in movimento tutto. E tutto come d’improvviso appare tiepido, caldo, vivo; ma senza che l’inquietudine si risolva e scompaia.
Sembra che Paola Nasti cerchi di ricostruire un’esperienza e un’emozione dell’attimo di fronte al mondo, senza pagar pegno all’io che la fa; ricostruire e non necessariamente descrivere: metterci di fronte, magari. La poesia sembra volerci porre nella condizione di vivere, per quanto indirettamente, quella stessa esperienza e quell’emozione come se fossero un impatto reale, con tutta la sua eventuale parzialità, manchevolezza. Eppure, questa mancanza della reazione dell’io fa sì che a loro volta le cose, in questo modo evocate, ci appaiano metafore inevase, correlativi oggettivi di qualcosa che non è chiaro cosa sia, eppure c’è, producendo una sorta di brivido, come quando, in quella situazione in cui non ci sentiamo affatto tranquilli, percepiamo d’improvviso una presenza ma non riusciamo a metterla a fuoco, e il senso di pericolo cresce, e non ci abbandona più.
Tra cose concrete e cose astratte, queste restituzioni sono forse davvero solamente apparenti, nomi di qualcosa che si manifesta, ci balza incontro, ci colpisce, ci bisbiglia parole che non riusciamo a capire (ma capiamo che dovremmo). Forse parlano di affetti, forse parlano di me, dell’io. Forse parlano del vuoto che ci dà forma. Si trovano sull’orlo di quel vuoto. È solo così, non cercando di descriverlo, che la poesia ne può parlare.
Personalmente credo che a Filippo Scozzari dovrebbe essere data una licenza, come a James Bond, di uccidere, anche se solo verbalmente. E questo non perché io condivida quello che mi pare di aver ricostruito che lui abbia detto (arrivo a cose fatte, e ringrazio Giorgio Franzaroli per aver scritto il post su Facebook che mi ha avvertito di tutta la faccenda, che poi ho finito di ricostruire attraverso le sue tracce sui media). Radicalmente non condivido né il giudizio che Scozzari esprime su Fumettibrutti, che è autrice che io invece trovo particolarmente originale, né i toni con cui lo esprime. D’altra parte, dissento radicalmente pure da chi scrive che Scozzari sarebbe passato dall’essere un giovane reazionario ai deliri senescenti di un sopravvissuto a se stesso, concludendo: “Se un individuo, godendo della propria visibilità, sbandiera idee discriminatorie verso un altro che non tollera, deve essere indicato come latore di un pensiero aberrante.”
Del resto, è vero: Scozzari è sempre stato latore di un pensiero aberrante. Solo che negli anni Settanta e Ottanta quel pensiero era anche il nostro, ovvero di noi che ci fregiavamo di essere la parte più intelligente e progressista della società. Scozzari attaccava quelli che avrei attaccato anch’io, solo che lui lo faceva meglio, molto meglio. E magari per questo gli si perdonava di attaccare un po’ anche se stesso e anche noi. Se leggete quel libro esemplare che è Prima pagare poi ricordare, dall’ecatombe di critiche non si salva nessuno, autore compreso, salvo – almeno in parte – Andrea Pazienza.
In quella fase confusa ed eccitante essere aberranti pagava, perché un po’ aberranti ci sentivamo tutti. Ora che l’eccessività di Scozzari si rivolge contro di noi, e attacca dei valori di cui ci sentiamo sicuri, ecco che il suo essere aberrante fa sì che: “Non ci sono difese, non hanno senso i distinguo, non serve rifugiarsi nella memoria. Lo si condanna.”
Si noti: non “lo si critica”, non “gli si mostra che ha torto”, bensì “lo si condanna”, da quel vecchio rincoglionito reazionario che è.
Ora, nello specifico Scozzari ha torto, e si esprime male. Ha sempre amato la provocazione, e il suo turpiloquio è sempre servito esattamente a questo: a provocare. A quanto pare, nella provocazione sono caduti in molti. Per quanto stupida sia una trappola, trova sempre la preda più stupida che ci finisce dentro. Scozzari lo ha sempre saputo benissimo.
Nello specifico ha comunque torto. Ma in una dimensione più ampia, ci sono mille ragioni per difendere Scozzari, per le stesse ragioni per cui dovremmo difendere la satira di Charlie Hebdo, per quanto ripugnante qualche volta ci appaia, e per le medesime ragioni per cui dovremmo difendere persino la satira di destra, quella becera, oscena, più o meno apertamente fascista (e né Scozzari né Charlie Hebdo lo sono affatto). Il pensiero aberrante di Scozzari, nella sua voluta grezzezza, nella sua violenza politicamente scorrettissima, ci dice una cosa fondamentale, che è: persino le tue convinzioni più sentite e profonde non sono veramente garantite. Non devi cessare mai di metterle in discussione, per quanto ti appaiano sacrosante e inconfutabili, per quanto ti appaiano la quintessenza dell’essere progressista, comprensivo, democratico e antifascista.
Sgarbatamente, Scozzari ci ricorda la necessità del dubbio. E questo fa incazzare tutti coloro, anche di sinistra, che di dubitare non hanno voglia; che sono convinti che i propri valori sono sacrosanti. Che sono pronti a linciare (magari verbalmente) chi si oppone a loro, o anche solo chi osa metterli in discussione.
Si dirà che, così facendo, Scozzari porta acqua al mulino dei reazionari, e magari è pure un po’ vero. Ma la differenza tra il totalitarismo e la democrazia è la stessa che c’è tra la certezza assoluta e il dubbio. Né Hitler né Stalin avevano dubbi. Nello specifico, può darsi che il comportamento di Scozzari porti acqua al mulino dei loro penosi emuli. Ma in una dimensione più ampia, Scozzari va difeso a oltranza, lui e la possibilità di un pensiero aberrante.
(da La Bottega del Barbieri)
Devo confessare che quando scoprii Mafalda, negli anni Settanta, ero insieme ammirato e infastidito. Capivo bene il perché dell’ammirazione; molto meno quello del fastidio. Io non lo sapevo, ma all’epoca Quino aveva già smesso di disegnare Mafalda, che aveva realizzato dal 1962 sino al ’73. Dopo Mafalda, la sua produzione fu centrata su brevi storie umoristiche, sviluppate su una pagina, senza un personaggio fisso ricorrente. Quando iniziai a conoscere anche quelle, il fastidio sparì. Le trovai meravigliose, sempre centrate, e basta.
Ora, a posteriori, credo di capire perché Quino abbia smesso di disegnare Mafalda, dopo 10 anni di successi nazionali, e con quelli internazionali che stavano iniziando, contravvenendo alla logica commerciale più elementare, secondo cui cavallo che vince non si cambia. La sua spiegazione ufficiale fu che si sentiva a corto di idee. E questa è senz’altro la superficie, vera, ma poco significativa.
Rileggendo Mafalda, con tutta la sua irriverente, spinosa, efficacissima acutezza negativa, non posso fare a meno di percepire oggi ciascuna delle sue strisce come un rigoroso teorema, dove si dimostra la presenza del male a partire da presupposti quotidiani, e sempre con soluzioni originali e sorprendenti. Come dire, il male, more geometrico demonstrato. Che una tale devastante dimostrazione uscisse sempre dalla bocca di una bambina o da un’interazione fra bambini la rendeva ancora più netta e incisiva.
Ma Quino non stava tutto lì. Una cosa che caratterizza le sue produzioni umoristiche successive, non meno graffianti, non meno implicitamente (o esplicitamente) politiche, è un inesauribile fondo di tenerezza per le debolezze umane, sempre presente, sempre intenso. Il male continua a esserci ma ci appare temperato da questa, chiamiamola così, comprensione affettuosa.
Credo che stia in questo la ragione profonda per cui Quino smise di realizzare Mafalda, non trovando più idee. Inventare le strisce di Mafalda vuol dire abitare costantemente nella dimensione del male, inventandone ogni giorno una dimostrazione nuova ed efficace. Vuol dire vivere senza redenzione, con gli occhi spalancati nel fondo dell’abisso.
In una logica stretta e commerciale del successo, Quino avrebbe dovuto proseguire. Visto che qualcuno li apprezza, e ne esiste un mercato, anche il progressismo e la rivoluzione e la critica al capitalismo sono beni commerciabili, su cui ci si può arricchire. Ma Quino decise che il prezzo da pagare per questo successo sarebbe stata troppo alto.
Forse la dimensione della tenerezza era implicita in Mafalda, almeno alle origini, poiché tutto era ambientato in un mondo di bambini. Ma poi, progressivamente, la crudezza sarcastica aveva vinto, in maniera irrimediabile – perché ogni autore rischia sempre di diventare prigioniero del proprio successo, realizzando quello che il suo pubblico vuole da lui.
In nome del bisogno di esprimere la tenerezza, la pietà, la comprensione, Quino cambiò strada, e non sbagliò. Onore al creatore di Mafalda. Onore all’autore che ha saputo abbandonarla.


17 Marzo 2020 | Tags: comunicazione visiva, estetica, filosofia, fotografia, fumetto, graphic design, musica, poesia, racconto, ritmo, rito, semiotica, tensione, Testo e processo | Category: comunicazione visiva, estetica, filosofia, fotografia, fumetto, graphic design, musica, poesia, semiotica, Web e multimedia |
Vocalità, visione e scrittura, romanzo e romanzo a fumetti

di Daniele Barbieri
Ho pubblicato alcuni mesi fa un libro (Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto, ComicOut 2019 – qui un breve estratto su NI) che cerca di esplorare storicamente la nozione di racconto in relazione con quelle di immagine, oralità/scrittura, serialità/romanzo, alla ricerca delle radici lontane, nella nostra cultura, della dialettica tra fumetto seriale e graphic novel. Vi sostengo, tra le altre cose, che alla sua nascita, dal 1895, il fumetto instaura una sorta di paraoralità, pur presentandosi come una forma di scrittura (e vedi anche, su questo, l’articolo disponibile qui). A dispetto del suo essere una forma di comunicazione radicalmente visiva, il fumetto porta con sé, per molto tempo, diverse delle caratteristiche che contrappongono la trasmissione orale a quella scritta: aspetti di rapida caducità, di compresenza del contesto di emissione delle parole, di paratassi, di ridondanza, di stile formulaico, di concretezza ed enfasi sulla fisicità. Queste caratteristiche apparentemente paradossali (tipiche dell’oralità in un contesto del tutto visivo/scritto) si attenuano col tempo, man mano che il fumetto acquisisce in maniera sempre più netta le caratteristiche di una scrittura (benché peculiare, e certamente differente da quella tout court), senza tuttavia scomparire del tutto nemmeno nella dimensione contemporanea del romanzo a fumetti.
Ora, la lettura di un libro che avrei dovuto compiere da tempo (L’invenzione del romanzo. Dall’oralità alla lettura silenziosa, di Rosamaria Loretelli, Laterza, 2010) mi riapre la questione con nuovi spunti, costringendomi ad alcune considerazioni. Il libro della Loretelli compie un percorso che ha diverse analogie con il mio, ed è molto vicino come fonti di ispirazione, ma è anche pieno di informazioni specifiche (diverse dalle mie) e considerazioni interessanti. In particolare, invece di limitarsi a riconoscere nel XII secolo il momento in cui la lettura interiore prende piede in Europa, soppiantando quella unicamente ad alta voce che dagli antichi (Greci e Romani) era arrivata sino a quegli anni, Loretelli indaga la relazione tra scrittura e sua vocalizzazione nei secoli successivi.
E si scopre così che, benché a partire dagli scoliasti medievali si impari a leggere anche solo con gli occhi, la lettura ad alta voce continua a lungo a mantenere un ruolo cruciale, in particolare nella fruizione delle opere letterarie, anche quelle in prosa. Solo l’invenzione settecentesca del romanzo prevederà infatti quel particolare tipo di lettore che opera in solitudine e nel silenzio. Questo lettore non esisteva, o era raro e anormale prima di quest’epoca. E le opere stesse erano costruite in funzione dell’interpretazione vocale, la quale poteva introdurre, attraverso la recitazione, una serie di elementi tensivi, di suspense, che il testo richiedeva ma non conteneva direttamente.
Da questo punto di vista, l’evoluzione del romanzo nel corso del XVIII secolo mostra una serie di tentativi nella direzione di una autonomizzazione dei sistemi tensivi dalla vocalizzazione dell’eventuale lettore ad alta voce. Questi tentativi sfociano, dopo la metà del Settecento, nella creazione dei primi romanzi in senso davvero moderno, romanzi, cioè, che si possono leggere esclusivamente con gli occhi, in silenzio, in un rapporto diretto con la pagina del libro: gli autori hanno imparato, insomma, a costruire i sistemi di aspettative interamente attraverso la sequenza delle parole che descrivono azioni, posticipando ad arte quanto va posticipato, nella prospettiva di una fruizione eseguita dall’occhio del lettore diretto piuttosto che mediata dalla voce di un interprete vocale…
Continua su Nazione Indiana, qui.
12 Dicembre 2019 | Tags: Copi, fumetto | Category: fumetto |
STORIE DI POLLI E DI DONNE SEDUTE
dbx (*) ricorda Copi, un genio morto 32 anni fa

Da bambino/ragazzino mi capitava, occasionalmente, di comperare e leggere Linus, perché un maestro elementare illuminato (si chiamava Antonio Faeti, e ancora non aveva, ma avrebbe avuto in seguito, una brillante carriera di studi) ce ne aveva raccomandato la lettura. Su quelle pagine complesse e affascinanti, scoprivo Jeff Hawke e Moomin, Popeye e Li’l Abner. Mi inquietava un fumetto in cui compariva sempre una donna seduta a destra, in conversazione con qualcuno alla sua sinistra: un pollo, una bambina, una lumaca, un’altra donna identica a lei…
Il segno era minimale ma perfettamente definitorio per quelle storielle piene di dialoghi surreali e crudeli, che si aprivano con quella che per me era una strana sigla: Copi. Sembrava essere il nome della serie, ma era il nome del suo autore, anzi il suo pseudonimo, visto che l’irricordabile nome vero era Raúl Natalio Roque Damonte Botana. Argentino di nascita, poi cresciuto in Brasile, Uruguay, Francia, di nuovo Argentina, di nuovo Uruguay, poi definitivamente Parigi. Era nato a Buenos Aires il 20 novembre del 1939, per finire a morire a Parigi, tra le prime vittime dell’AIDS, 32 anni fa, il 14 dicembre 1987.
Essere un omosessuale dichiarato, negli anni Sessanta, non doveva essere facile nemmeno a Parigi. Quello che salvava almeno in parte Copi era il suo genio teatrale. Figlio di una famiglia di pittori e scrittori, che lo sollecitavano a seguire quella strada, il piccolo Copito (ovvero ciuffo, dal ciuffo ribelle di capelli a partire da quale lo chiamavano in famiglia) aveva trovato la propria strada differente facendo fumetti, cosa che al padre non piaceva. Ma, d’altra parte, il padre a sua volta era un uomo politicamente impegnato che doveva periodicamente lasciare l’Argentina quando i vari governi più o meno dittatoriali ne mettevano in pericolo la libertà o persino la vita. Fu la nonna materna, scrittrice, a spiegare a Raúl che non doveva vergognarsi della propria omosessualità. Quando il padre entrò in difficoltà finanziarie e non poté più mantenerlo, Copi si trasferì a Parigi, ventiduenne.
Lì, lo troviamo a campare vendendo i suoi disegni, sino a iniziare la collaborazione con il neonato settimanale Le Nouvel Observateur. Nel frattempo è entrato a far parte del Grupo Pánico, creato da Alejandro Jodorowsky, Fernando Arrabal e Roland Topor. Non si limita a disegnare fumetti, ma scrive commedie per il teatro, e poi romanzi. Dal 1966 le sue commedie iniziano a essere messe in scena, spesso interpretate da lui stesso, in ruoli femminili. Più o meno nello stesso periodo inizia la collaborazione con Linus: lui stesso e Topor saranno molto frequentemente ospiti a Milano a casa del suo fondatore e allora direttore, Giovanni Gandini.
Le sue commedie sono surreali, con dialoghi degni di un vero teatro della crudeltà. Ma non sono da meno i suoi fumetti: queste pagine quasi del tutto bianche, dove una linea sottilissima traccia i profili paradossali della donna seduta e del suo interlocutore, che si scambiano parole degne di un Samuel Beckett, ma forse ancora più beffarde, più sardonicamente castiganti i luoghi comuni dell’ipocrisia. Non c’è nulla di più normale delle reazioni della donna seduta, e non c’è nulla di più tremendo della normalità, quando se ne rivela il vuoto.
Non so bene quanto io potessi capire, da ragazzino, di queste microvicende senza capo né coda, protervamente immobili o incatenate in un loop senza uscita. Ricordo che mi sembrava che mettessero in scena una specie di piccolo inferno, come – ma lo direi adesso – una condanna all’esistere, e all’esistere facendo finta di esserne all’altezza, pietosamente ridicoli. Copi era un umorista sottilissimo, come la linea del suo pennino; magari un figlio dell’esistenzialismo francese, ma con una vena magica del tutto latinoamericana. Amava l’Italia, e non mancava di evidenziare l’origine italiana del suo cognome. Linus è stata certamente una delle sue molte patrie.
Pubblicato oggi, per aumentare la confusione sotto il cielo, sul blog del mio pregiato omonimo: La bottega del barbieri.
8 Luglio 2019 | Tags: Franca Mancinelli, poesia | Category: poesia | 
Piccole corone di spine (Nota critica a A un’ora di sonno da qui)
Come in una sorta di misticismo laico, le poesie di Franca Mancinelli trasfigurano il quotidiano nel tentativo di cogliere una qualche pienezza dell’impatto del vissuto. Forse la stanza cui ha fatto riferimento Milo De Angelis presentando una sua raccolta, dall’interno della quale l’autrice percepirebbe il mondo attorno, non è che una straniata, fuori fuoco, messa in scena dell’io, anch’esso comunque qui trasfigurato al medesimo modo.
Metafore, similitudini, correlativi oggettivi, pur apparendo certo differenti sulla superficie del discorso, manifestano in realtà una natura profonda comune. Essi tendono infatti ugualmente, con maggiore o minore forza, a mettere in dubbio l’organizzazione del mondo per cose tra loro distinte, per proprietà tra loro distinte, per azioni tra loro distinte, cui corrispondono, nel linguaggio, le rispettive parole: nomi, verbi, aggettivi. Questa organizzazione del mondo ci è necessaria per sopravvivere, e si è dimostrata nel tempo efficace, pragmaticamente vincente, non meno di quanto lo sia l’illusione dell’io, l’illusione della coscienza. Nondimeno la poesia esiste anche per ricordarci che non si tratta della realtà, ma solo di un espediente efficace per tenerle testa; e che c’è molto di più, sia nel linguaggio che nel mondo, di quello che la comunicazione quotidiana sembra permetterci di pensare. Le relazioni tra le cose, e quelle tra le parole sono assai più sottili e complesse di quello che la razionalità della nostra stabile concezione del mondo ci autorizza ad accettare. Come dire che tanto il linguaggio quanto il mondo possiedono un inconscio che la parola standard non conosce.
Molto tempo prima che esistessero le religioni come le intendiamo oggi, il misticismo era il tentativo di oltrepassare la barriera razionale del linguaggio, alla ricerca di una totalità che le parole e la normale immagine del mondo non permettevano di raggiungere. Si trattava di un tentativo destinato a fallire: nessuna totalità può essere davvero colta da una finitudine come quella umana. Nondimeno si trattava di un tentativo fertile, perché metteva in discussione quello che sembrava assodato e assestato: il mondo, l’io, e magari, da un certo punto in poi, persino Dio.
Non c’è bisogno di andare lontano per incontrare questo straniamento. Da un io deragliato, da una stanza poco messa a fuoco, il mondo può apparire come un reticolo di relazioni inaspettate tra le cose, gli eventi, le proprietà, i quali, pur essendo quello che sono, sono di colpo anche tutt’altro, e ci aprono la vista su panorami insospettabili del senso, e quindi del mondo.
Gli animali che migrano in noi, le formiche del sangue fermo, o al posto delle ciglia, magari rosse e velenose, la biscia, la lucertola, gli uccelli che insegnano alla voce, gli insetti costanti, le bestie buone sono altrettanti animali e insieme altrettante immagini di un’interiorità che è sempre insieme esteriorità, di un raccoglimento che è sempre insieme dispersione. Non troverete verità confortanti nelle poesie di Franca Mancinelli, ma solo suggestioni inquiete, piccole corone di spine, frammenti di corpo insieme a frammenti di mondo.
In verità anche il sacro, questa pienezza terribile che il mistico cerca a costo della ragione e magari della vita (e la Chiesa, a suo tempo, parecchi ne ha bruciati come eretici, da Margherita Porete a Giordano Bruno), anche il sacro non appare qui che spezzato, frammentato, percepibile solo per brevi folgorazioni. Se qualcosa la ragione stessa ci ha insegnato è a non prendere fino in fondo sul serio né lei stessa né le sue negazioni. Questo forse distingue la modernità dalle epoche che l’hanno preceduta.
Intuizioni e frammenti, dunque. E le parole come cose che costruiscono un mondo, fatto di suoni e di linee di scrittura, non meno che dell’universo di senso che emerge da quei suoni e da quelle linee. Echi di suoni, echi di andamenti ritmici, echi di forme del mondo rimandate da quei suoni e da quei ritmi: non c’è realtà senza ricorrenze. Questo lo sa anche la parola quotidiana, come lo sa la prosa del mondo, pure se fingono di ignorarlo. La poesia, come la musica, mette a nudo l’illusione, e ci rilancia nel ritorno delle cose, dei suoni, delle relazioni.
Nel mondo che gira attorno alla stanza di Franca Mancinelli le cose trovano un posto imprevisto, eppure familiare, come le nostre vene, il cui profilo ci è così bene noto quando affiorano alla pelle, ma per il resto…
L’originale si trova qui.
21 Marzo 2019 | Tags: comunicazione visiva, estetica, fumetto, graphic novel, letteratura a fumetti, mito, mitologia, oralità, racconto, romanzo, scrittura, semiotica, serialità, sistemi di scrittura | Category: comunicazione visiva, estetica, fumetto, semiotica, sistemi di scrittura | Tra una settimana in libreria. Letteratura a fumetti? Le impreviste avventure del racconto. Un percorso, che riguarda il fumetto, tra il mito, la serialità, la pittura e la scrittura, e – ovviamente – il racconto. Le impreviste connessioni tra mondi che il fumetto ha riportato vicini.






Da fine marzo il libro è disponibile in libreria. Si può acquistare on line sul sito di Comicout (meglio) oppure su Amazon.
7 Marzo 2019 | Tags: poesia, Silvia Secco | Category: poesia | Amarene, di Silvia Secco, è un volume autoprodotto. EdizioniFolli, la casa editrice, è in verità sempre lei, la medesima persona. Questo ha come conseguenza certo anche la cura dell’edizione, della carta, della stampa, della rilegatura: un libretto prezioso, da questo punto di vista. Ma inevitabilmente distribuito a mano, regalato agli amici, in copie numerate. E questo è un peccato. Certo, visti i numeri esigui anche delle raccolte più vendute in Italia, si potrebbe dire che non fa una grande differenza. Ma poi è d’altra parte davvero un peccato vedere come gran parte di quello che viene stampato dalle case editrici patentate, grandi e piccole, è ben lontano da questo livello di qualità. (Poi, il volume è anche disponibile, in versione print on demand, su Amazon. Sarà forse meno accurato come confezione, ma quello che conta è lo stesso)
E non mi riferisco più, adesso, solo alla confezione grafica, ma anche e soprattutto ai versi originali e profondi di Silvia Secco, sempre evocativi e mai banali. La “Nota di lettura” di Alberto Bertoni si conclude dicendo “Questo libro, per compattezza tematico-stilistica e per intensità intonativa, la consacra ai livelli più alti della poesia di oggi”. Potrebbero essere parole di occasione, come capita tante volte nelle pre- o postfazioni. Ma in questo caso non lo sono affatto.
Questo scritto non ne è una recensione. Pongo qui di seguito una piccola selezione di componimenti dal volume. Poi mi soffermerò un poco sull’ultimo, che è anche l’ultimo dell’intera raccolta.
Dovunque s’è gridata devozione
a voce stridula e braccia levate
di splendide bambole rotte, usate
fino al cavo. E no che non sapevamo
d’essere involucro vuoto: niente
cuore né carne né spina. Sedute
ci mantenevamo dritte: al segno
del comando cantavamo tutte
le sue canzoni –
***
Poi ho scordato di dirti di dio
che abita le alture dei rami e che mai
è caduto a baciarmi, mai – al café de paris
una notte di gennaio ad esempio –
Di come invece stento a credere sia poco
il perduto, se anche la neve si tiene
non scesa e non ci perdona. La mia fede
si fonda sulle virgole, riapre sempre la frase
e persino la luna pare abbia mentito
almeno una volta mentre cresceva.
***
Insegnami il coraggio dei papaveri
ai margini di strada, l’ilarità
di certe spighe, a spasso con le folate.
Fammi capace di gentilezza
– l’erba sul piede nudo, l’attitudine del sasso
a tacere le erosioni, la pazienza che hanno i pesci
coi costumi dei bagnanti – dammi la fede del frutto
che maturerà, come ne ha la neve in altitudine
a maggio inoltrato.
***
Niente, è solo il cuore e io ne ho due.
Non è che il cuore, uno, entrambi
sventa, che sbatte gli scuri: lo senti
che è il cuore – di che ti spaventi
se sale alla gola, alle tempie, coi marosi
nei frastuoni delle feroci città
e stridore di treni, passi di passanti quali siamo
povera umana cosa – Respira,
stanotte non moriremo, non senza esserci toccati.
Nessuno, questa notte, si toccherà.
Nel sangue, lì rimarrà il tuo nome nel luogo dei rovi.
Dopo, ti dico, si romperanno le chiuse.
Potremo piangere finalmente, fino a casa.
***
Dentro la notte mi nuotano i pesci,
parlano con me senza emettere suono
antichissime storie degli abissi, epoche
che gli uomini, animali e foglie
abitavano le acque – liquidi nei liquidi –
e le dita, e perfettamente le labbra
di tutte le bocche e di tutte le mani
che si erano unite nel tempo anteriore
si riconoscevano di nuovo.
Io ti aspettavo, con gli occhi che hai
mutevoli – d’acqua e d’altro, come mio padre –
Ti ho pensato a lungo prima,
similitudine interna di pace.
Luna compiuta sopra la casa.
***
1 Le parole del mattino ripetute all’orecchio
. io ti amo, ripetute al mattino all’orecchio del sonno
. nell’ultimo anfratto del sonno, deposte nel cavo
. grembo di ogni equilibrio e di ogni memoria. Le parole
5 io ti amo del mattino mandate a memoria, ripetute
. e ripetute, depositate come un monile d’argento
. nel cavo – delle nostre mani abbandonate, dell’orecchio –
. nel sonnolento cavo della logica, nel tempo
9 ancora cavo del mattino, dentro – minimo embrione
. d’argento, ciondolo di profezie e fortuna – Io,
. io ti amo, le parole ripetute nel tempo, le antiche parole
. madre e padre del tempo, ripetute al mattino all’orecchio
13 nel sonno del tempo, nelle profonde cavità senza suono.
Sono tredici versi molto lunghi, da 15 a 18 sillabe, eccetto il verso 11 che ne conta 21. Si tratta di una misura inconsueta nell’intera raccolta, dove i versi così lunghi appaiono solo in maniera occasionale. Ed è inconsueto anche il tessuto ossessivo di rimandi e di echi che ne costituisce l’ossatura.
L’espressione le parole ricorre 4 volte, di cui 3 sono associate all’espressione io ti amo, che compare sempre a inizio di verso. Mattino, così foneticamente simile a io ti amo, appare 5 volte. Ripetute, una delle parole chiave del componimento, c’è ben 6 volte, di cui due accostate. Orecchio 4 volte, di cui 3 all’orecchio e un dell’orecchio. Sonno 3 volte, cui si aggiunge un sonnolento. Deposte ritorna come depositate. Cavo 4 volte (di cui una come aggettivo), cui si aggiunge, in conclusione un cavità. Memoria 2 volte, ma poi appare tempo, che ritorna 4 volte, sostenuto anche da un antiche, cui potremmo aggiungere profezia e fortuna, che ne condividono il campo semantico. D’argento è prima un monile (che ritorna come ciondolo), e poi un embrione (altro riferimento allo sviluppo, e quindi al tempo). Alla fine, le parole che non ritornano sono davvero poche, e in verità anche lì il gioco del rimando si compie in altro modo: il grembo del verso 4 ritorna nell’embrione del verso 9 e nei madre e padre del 12. Il cavo / grembo di ogni equilibrio dei versi 3 e 4 si sposa con il sonnolento cavo della logica del verso 8. Il mandate (a memoria) del verso 5 risuona con il mani abbandonate del 7. Il profonde della chiusa richiama l’antiche del verso 11. Così come il suono con cui si chiude tutto, rafforzato dall’allitterazione con senza, richiama fortemente il sonno, più volte ricorrente, per sonorità e per senso locale.
La divisione in versi confligge con quella sintattica, giocando con frequenza di enjambement. Ma la discrasia è confermata anche dalla presenza di numerose rime, e sempre interne, come se si suggerisse pure in questo modo un meccanismo di imprevedibile ripresa, come di una ragione che confligge con un’altra, e questo conflitto fa sì che i ritorni siano imprevedibili, e che il ritmo che ne consegue sia insieme cullante e inquietante. Alla stessa dimensione ipnotica appartiene il gioco delle allitterazioni e paronomasie, che si aggiungono alle ricorrenze lessicali, così da costruire un tessuto complessivo quasi ciclico, danzante e quasi immobile. Magari non così dissimile da quello che succede quando nella nostra sonnolenza entra ricorrentemente uno stimolo piacevole, senza davvero svegliarci, ma senza nemmeno restare inconsapevole.
Si tratta però di una quasi-immobilità. Il componimento è costruito come un brano di musica, in cui interagiscono diversi motivi, ritornando e sviluppandosi, e magari lasciandone emergere di nuovi nell’intreccio di quelli già noti. Le parole io ti amo, leitmotiv dominante (e per questo ricorrenti sempre a inizio verso), sono due volte precedute dall’espressione le parole, una prima volta a distanza, una seconda nella tensione dell’enjambement. Ma la terza volta esse riappaiono precedute da una ripetizione del pronome io, anche qui nella tensione e nell’esitazione dell’enjambement, e ora l’espressione le parole le segue. Si tratta di una variazione di carattere musicale, certo, da un lato; ma dall’altro il raddoppiamento del pronome, sottolineato dall’enjambement, e la posticipazione della descrizione, rendono di colpo l’espressione più forte, più diretta, privata del distacco, come ricevuta in prima persona, ora – salvo poi rientrare nell’alveo della sonnolenta descrizione. Certamente non è un caso che il verso 11, in cui questo accade, sia, con le sue 21 sillabe, decisamente più lungo degli altri, come a mantenere il più a lungo possibile questo picco di tensione, e in questo modo ulteriormente sottolineandolo.
Poco dopo la metà, nel verso 8, compare il tempo. Era stato anticipato dalla memoria, nei versi 4 e 5, ma la memoria è tempo congelato. Adesso invece esso si sviluppa in embrione, profezia, fortuna, antiche, madre e padre. La condizione del sonno continua a dominare, e lo farà sino in fondo, e gli eventi rimangono confusi, ondeggianti; e tuttavia adesso chiaramente ci sono, determinano un’evoluzione, un cambiamento. Anche se non possiamo davvero uscire dal sonno del tempo, le parole possono entrare in qualche modo nelle profonde cavità senza suono, e quindi anche senza avere suono, cioè forse senza avere sonno, pur essendo profondamente, anticamente proprio dentro il sonno.
Il gioco dell’ambivalenza ritmica tra versificazione e sintassi, tra versificazione e rime si rispecchia dunque nell’ambivalenza semantica dei termini, che ritornano ogni volta oscillando nel loro significato, rimandando ogni volta a sfumature ed evocazioni diverse.
È così che Silvia Secco riesce a costruire una poesia originale ed efficace facendo uso delle parole più usurate del poetese, del lirismo più banale. A partire da io ti amo, quasi impronunciabile in poesia, per seguire con mattino, sonno, abbandonate, tempo, antiche, madre e padre. Manca la rima fiore amore la più antica difficile del mondo, ma non ho dubbi che se ci fosse, l’autrice sarebbe in grado di ridare senso anche a lei.
È che qui, il gioco delle ripetizioni e delle interferenze crea una complessità d’insieme e un complessivo straniamento che ci costringono a tornare a percepire quelle parole consumate, sino al loro fondo mitico. È come se fossero nuove, adesso, pur rimanendo quelle che sono. Quando funziona, la poesia ci sa liberare dalle incrostazioni della retorica – magari quelle stesse che ha contribuito a costruire quando non funziona, o quando, trasformata in slogan, deve servire a qualche scopo poco nobile.
7 Maggio 2018 | Tags: Frank Santoro, fumetto, Fumettologica | Category: fumetto |
Non è nuova l’idea di raccontare un evento storico attraverso le vicende personali di qualcuno, in maniera che il lettore/spettatore gli si possa affezionare e quindi comprendere il senso degli eventi – entrando intensamente in loro – molto più di quanto non potrebbe lasciar capire l’arida cronaca dei libri di storia. Nel romanzo come nel cinema come nel fumetto si tratta di un espediente diffuso ed efficace, a patto che il narratore lo sappia condurre. Ecco che il nostro presente diventa il presente di quegli eventi, e una quotidianità che abbiamo riconosciuto sufficientemente familiare (nonostante la distanza storica o culturale) sfuma improvvisamente o progressivamente in qualcosa di molto diverso, l’evento storico riconosciuto.
Se si limitasse a questo, Pompei di Frank Santoro non sarebbe che un racconto come tanti, magari più delicato e sensibile di molti altri. Ma di narrazioni degli ultimi giorni di Pompei, anche impostate in questi termini, ne abbiamo in verità avute tante…

Il fatto è che qui c’è qualcosa di più. Fin dalla primissima pagina, ancora prima che si possa cogliere un qualsiasi senso del racconto, il disegno appare rapido, approssimativo; quasi più uno schizzo, uno storyboard – dove magari le linee imperfette non vengono cancellate, ma corrette, lasciando visibile l’imperfezione. Niente colori, ovviamente; tessiture per le ombre altrettanto rapide; un senso complessivo di provvisorio e di instabile.
Poi la storia inizia a definirsi: Marcus, il protagonista, è l’assistente di un pittore che sta per fare il salto di notorietà che potrebbe portarlo a Roma e alla fama. Marcus gli prepara i colori e lo aiuta per le parti secondarie dei dipinti; ma è costretto anche ad essere complice della tresca tra il pittore e una principessa, che deve essere nascosta ad Alba, fidanzata ufficiale e sospettosa. Anche Marcus ha una donna, Lucia, insieme con la quale è scappato da Paestum, dove non vuole più tornare: a Pompei vuole diventare un ritrattista come il suo padrone, per guadagnare i soldi per metter su famiglia con lei…
Continua qui, su Fumettologica.
English translation here.

Transmedia storytelling: Trasposizioni
Ripetizione rituale e sviluppo narrativo
Daniele Barbieri
Abstract
La serialità moderna condivide numerosi aspetti con quella che potremmo chiamare serialità primaria, differenziandosi sostanzialmente da essa per la presenza di una periodicità alla sua base. A separarle storicamente sta la nascita e lo sviluppo del romanzo, come forma narrativa unitaria, la cui esistenza stessa permette il porsi del problema teorico della natura della serialità. Ma tra la serialità primaria e quella moderna si trova anche la nascita e lo sviluppo della stampa periodica, la quale finisce per essere il modello della nostra serialità. Nella comprensione del rapporto tra serialità e narrazione, giocano un ruolo particolare le saghe, le più difficili da ricondurre al modello narrativo standard. È possibile osservare che in alcune saghe la dinamica narrativa non è in verità al centro dell’interesse del lettore, e si limita a costruire il quadro di una sorta di accesso al mito. Che cosa succede, infine, quando la serialità moderna si riavvicina a quella primaria, neutralizzando la periodicità (per esempio, attraverso la pubblicazione dei telefilm nel Web)?
Parole chiave
serialità; semiotica; narratività; fumetto; mito
L’articolo intero si trova qui, su Between.

Sul linguaggio della poesia, editoriale di Daniele Barbieri.
La poesia è fatta di parole, e poco altro comunque alle parole strettamente collegato: intonazioni se il linguaggio è orale, sonoro, disposizioni grafiche se scritto. Eppure la poesia costituisce la prova vivente che il modo in cui tipicamente concepiamo il linguaggio è ampiamente inadeguato.
Nella vulgata, la parola è uno strumento per trasmettere concetti, e in quanto tale il suo ruolo si esaurisce in questo, la sua funzione è tutta qui. Non esistono parole in natura, cioè senza che qualcuno le abbia prodotte, come strumenti per trasmettere un’idea. Esistono invece immagini, e quando il pittore produce artificialmente le proprie, anche se non abbiamo difficoltà a considerarle come discorso (e quindi a loro volta strumenti per trasmettere idee) accettiamo pure senza grandi difficoltà che esse non si risolvano in quel discorso, mantenendo anche quel valore visivo che possederebbero comunque al di fuori del loro uso strumentale. Che la bellezza di una Madonna di Raffaello debba essere intesa come un omaggio alla santità è in generale probabile, storicamente e criticamente accettabile, ma questo non impedisce allo spettatore di vedere una bella donna nell’immagine, che continuerebbe a essere vista anche se non riconoscessimo il soggetto dell’opera, e fossimo quindi nell’impossibilità di dar senso al discorso dell’autore.
Facciamo molta più fatica a considerare le cose in questo modo quando l’universo di riferimento è sonoro anziché visivo. Siamo abituati a organizzare l’universo visivo per cose, e le cose sono quanto di più facile concettualizzazione esiste, per noi; è molto più difficile riconoscere cose nel mondo del sonoro, e cogliere ritmi, andamenti, regolarità di processi è certamente per noi qualcosa di molto meno concettuale: quando va bene diciamo che li sentiamo, li percepiamo. Non a caso tuttavia i ritmi, gli andamenti, le regolarità di processi raramente possiedono un nome, qualcosa che li identifichi così nettamente come un gatto soriano, un prato, una gamba, Socrate. Quando lo possiedono, o siamo comunque nell’ambito di un lessico elevato, specialistico (come nel caso di endecasillabo), oppure c’è di mezzo un passaggio attraverso la dimensione visiva (come di nuovo nel caso di endecasillabo).
La stessa natura cosale delle parole (intese dunque come quelle cose che udiamo o leggiamo, o pronunciamo o scriviamo) è probabilmente legata alla loro distintività visiva quando sono scritte. Il discorso orale fluisce, senza definire confini…
Prosegue qui, su Versante ripido

Ho passato un po’ di tempo a riguardarmi i frontespizi di The Spirit (ce n’è, per esempio, una vasta collezione online qui, ordinati dalla fine, 1952, verso l’inizio, 1940), lasciandomi andare alle libere associazioni di un antico lettore di fumetti. Il risultato è almeno in parte documentato dalle immagini a corredo di questo articolo.
Ce n’è un primo gruppetto in cui affianco un frontespizio del 1940 a una tavola di Sergio Toppi del 1980. Non c’è bisogno di sottolineare le differenze, che saltano all’occhio. È invece interessante osservare che Will Eisner (e siamo a pochi mesi dall’apertura della serie) introduce una tecnica che permette la composizione sequenziale della tavola secondo una logica che non è quella canonica delle vignette: nello specifico, la lettura della didascalia sotto la testata introduce al titolo The Spirit, il quale si collega, attraverso il braccio levato che afferra l’ultima lettera, alla ragazza bionda, il cui sguardo conduce allo scimmione vestito in primo piano, che si appoggia sul piano di una banchina che è lo stesso su cui agiscono i due personaggi con cui inizia davvero il racconto, all’interno di una quasi-vignetta, i cui limiti vengono suggeriti da quelli della situazione narrativa e da quelli del rettangolo della dida che la sovrasta.
Analogamente, nella pagina di Toppi la direzione alto-basso e varie linee che costituiscono altrettanti impliciti vettori conducono la lettura.

C’è un secondo gruppetto, in cui affianco due frontespizi del 1947 e ’48 a due tavole rispettivamente di Gianni De Luca e di Frank Miller. Qui la tecnica è leggermente diversa: c’è un quadro spaziale generale, sopra il quale le medesime figure ricorrono più volte, senza che possano sorgere dubbi sul fatto che non sono compresenze di personaggi diversi, bensì ripetizioni dei medesimi. Sappiamo l’uso straordinario che ha fatto De Luca di questa tecnica nella sua trilogia shakespeariana del 1976, ed è suggestivo riflettere sul fatto che la rivista Eureka inizia a pubblicare regolarmente The Spirit in Italia nel 1969.
Guarda caso gli esperimenti sia di Toppi che di De Luca iniziano qualche anno dopo. E questo lascia anche capire come non ci sia bisogno di scomodare davvero De Luca per individuare l’ispirazione dell’uso di questa tecnica da parte di Miller nel 1990…
Prosegue qui, su Lo Spazio Bianco
Ho comperato il Flash Gordon di Dan Barry e Harvey Kurtzman (pubblicato da Cosmo, tutte le strisce giornaliere 1951-1953) perché stimo Barry come disegnatore, ma soprattutto Kurtzman come sceneggiatore. E sono rimasto deluso, annoiato e deluso, così annoiato che sono arrivato sino in fondo più per dovere che per piacere. Devo dire che da Kurtzman mi aspettavo ben altro, visto quello che poi ha fatto, e che stava anche già facendo in quegli anni. Le storie sono banali, scontate, del tutto prevedibili, del tutto classificabili negli stilemi delle storie avventuroso-brillanti di quegli anni, con inevitabili riferimenti impliciti ed espliciti all’età d’oro di Flash Gordon, quella di Alex Raymond.
Ed è stato così che mi sono trovato a paragonare queste storie con quelle, accorgendomi che, tutto sommato, anche le storie del periodo raymondiano non brillano di particolare originalità, e la prevedibilità è ugualmente straordinaria. Eppure…
Eppure le tavole domenicali di Flash Gordon disegnate da Raymond per 10 anni dal gennaio del ’34 all’aprile del ’44 sono tutt’altro che noiose. Sono tornato a rileggermele qua e là e, come sempre, facevo fatica a staccarmene, non a restare lì. E tuttavia, se astraevo da quello che avevo davanti agli occhi cercando di concentrarmi solo sulla storia che si stava raccontando, non è che la situazione fosse migliore che nel caso di Kurtzman.

Insomma, ecco un bel quesito da filosofia del fumetto, nello specifico da estetica del fumetto: data per assunta l’equivalente qualità (scarsa) delle storie raccontate in Flash Gordon nei due periodi in esame, da cosa dipende il differente effetto complessivo del testo? La risposta facile è, evidentemente, che Raymond è miglior disegnatore di Barry, e questo è innegabile; ma siccome Barry non è comunque l’ultimo venuto, e sarebbe davvero difficile sostenere che non è un ottimo disegnatore, da cosa dipende, specificamente, la differenza? Che cosa c’è nelle immagini di Raymond che manca in quelle di Barry? O anche, detto in un altro modo, che cosa rende Alex Raymond un genio, e Dan Barry semplicemente un buon disegnatore?…
Segue su Fumettologica, qui.
Sappiamo un po’ tutti come è andata. Negli anni Settanta Will Eisner torna al fumetto narrativo (dopovent’anni di fumetto didattico per l’esercito americano), e dopo aver tergiversato un po’ con cose varie, capisce che affinché il fumetto possa conquistare pubblicamente la dignità culturale che si merita deve cambiare i suoi formati di pubblicazione, o almeno acquisirne altri, o meglio, un altro: il formato libro. E libro vuol dire romanzo; e quindi romanzo a fumetti, graphic novel.
In Europa si faceva già, in Francia da ben quarant’anni; e questo, almeno in Francia, aveva davvero contribuito a migliorare la pubblica considerazione del fumetto. In Italia, si faceva molto meno, e restava un bel po’ di strada da fare, dal punto di vista della pubblica considerazione, Ma il rinnovamento intellettuale del fumetto aveva già almeno un decennio anche qui, a partire dalla nascita di Linus. In ogni caso, Eisner aveva ragione, e il tempo gliel’ha riconosciuta. Se oggi in Italia ci sono recensioni a proposito di graphic novel su giornali e riviste che mai prima si sarebbero sognate di pubblicare recensioni su fumetti, lo dobbiamo anche alla sua invenzione (oltre che alla qualità delle opere con cui l’ha in seguito sostenuta).
Riconosciuto questo, e assumendo la riconosciuta pubblica dignità intellettuale che il fumetto si meritava, è arrivato il momento di porsi un’altra domanda, che riguardi non le strategie di successo nel contesto culturale alto, ma il guadagno effettivo di qualità che il fumetto avrebbe ricevuto dall’invenzione dellagraphic novel. In altre parole, il romanzo fa davvero bene al fumetto?
Qualche vantaggio, indubbiamente c’è, rispetto alla narrativa seriale, ovvero una certa maggiore libertà degli autori, e soprattutto (ma non necessariamente) una minore stringenza delle consegne, che permette un lavoro più approfondito. Anche per questo (ma non solo per questo) abbiamo avuto anchegraphic novel straordinarie, degne dei premi letterari che talvolta hanno vinto e talaltra ci sono andate vicino – insieme a tanta fuffa, il che è normale e in sé non depone né pro né contro. E però ci sono stati (ci sono) prodotti seriali che, a dispetto della loro maggiore difficoltà di produzione, sarebbero altrettanto degni di vincere quei medesimi premi, ma non possono partecipare perché non sono romanzi. Pensate al lavoro di Pratt, in generale. Oppure io penso al Kozure Okami (Lone Wolf and Cub) di Koike e Kojima, di cui mi sono riletto questa estate i 142 episodi (in vacanza, su iPad) facendo fatica a sospendere la lettura, e riattaccandola ogni volta che potevo.

Il punto è che per noi, oggi, in Occidente, dire racconto di qualità vuol dire romanzo, ovvero un racconto di una certa durata e struttura, dotato di una certa unitarietà, ovvero avente al centro una qualche vicenda che si sviluppa e arriva a conclusione, pur potendo articolarsi in sottovicende, e pur potendo divagare in vicende secondarie ma collegate. Questa idea di racconto è per noi così forte da articolare anche il film. Ma nel film lavora anche qualcos’altro…
Prosegue su Fumettologica, qui.
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