La comunicazione visiva è sempre esistita, ma solo da William Morris in poi ha senso parlare di design, e in particolare di graphic design. Certo l’arte tipografica esisteva anche prima, ed esisteva l’artigianato che produceva gli strumenti della vita quotidiana e gli oggetti di arredamento. Ma ha senso parlare di design e di graphic design solo in un contesto di produzione industriale, ed è questo contesto che fa sì che dal XX secolo in poi il graphic design costituisca il cuore e la gran parte della comunicazione visiva.
Analogamente, la narrazione per immagini è sempre esistita, sin da quando si dipingevano i bisonti sulle pareti della grotta di Altamira, per farne presumibilmente gli attori di una storia raccontata a voce nel corso di una cerimonia rituale. Con l’avvento della scrittura e l’abitudine alla sequenzialità legata alla lettura, la narrazione per immagini prende talvolta essa stessa la forma di una sequenza, oppure inserisce filatteri di testo verbale in un contesto figurativo. In un certo senso gran parte della pittura medievale non è che narrazione per immagini, e non mancano gli esempi di sequenze narrative vere e proprie.
Ma il fumetto, che è certamente un tipo di narrazione per immagini, non esiste prima del 1895, e quello che fa la differenza tra Outcault e Töpffer non è un salto di qualità espressiva, bensì il sistema di produzione e consumo che li circonda – e all’interno del quale il lavoro di Töpffer appare come una curiosità mentre quello di Outcault come una novità di tale successo che bisogna immediatamente imitarlo.
Mi ricollego, dunque, alla segnalazione fatta da Matteo Stefanelli dell’uscita del libro di Thierry Smolderen Naissances de la Bande Dessinée. Preciso subito che il libro non ho ancora avuto modo di leggerlo, per cui i miei appunti vanno solo alla posizione di Stefanelli (e a Smolderen unicamente nella misura in cui il resoconto è fedele). Ci dice Stefanelli: “Quel che mi limito ad anticipare è che nel suo lavoro Smolderen ha messo al centro William Hogarth. La tesi è che la grammatica del linguaggio fumettistico si accende con Hogarth passando per Cruikshank, Töpffer e penetrando in tutti i big del fumetto ottocentesco come Cham, Wilhelm Busch, Caran d’Ache, fino ai ‘nipoti’ di inizio Novecento come Christophe, Outcault, Dirks, McCay ecc.” Sull’importanza di Hogarth non ci sono dubbi, e nemmeno sulla genealogia che ne segue. Ma perché dobbiamo confondere la specie fumetto con il genere narrazione per immagini?
Che oggi il fumetto sia la specie dominante all’interno del genere narrazione per immagini non ci autorizza a identificare le due cose. Vi sono tanti libri per bambini che sono indubbiamente narrazione per immagini, ma che non definirei mai fumetti. Gli storyboard sono narrazioni per immagini, ma non sono fumetti se non in senso lato, perché le somiglianze sono certamente forti ma le differenze anche. Quello che certamente possiamo dire è che Hogarth ha fornito un contributo sostanziale allo sviluppo della narrazione per immagini, e al coagularsi di convenzioni di successo, a partire dalle quali è nato il fumetto stesso. E tuttavia quello che succede negli ultimi anni dell’Ottocento negli Stati Uniti è davvero qualcosa di nuovo, che costituisce uno spartiacque così forte tra quanto c’era stato prima e quanto veniva ora ad esserci, come mai ce n’erano stati nella storia della narrazione per immagini.
Lo ripeto perché è importante: magari Outcault e i suoi contemporanei non hanno introdotto niente di nuovo nella narrazione per immagini (e non è così), ma quello che conta davvero è che essi hanno fatto la mossa comunicativa giusta al momento giusto e nel giusto contesto culturale e sociale. Questo ha scatenato una reazione fortissima, e ha fatto sì che in brevissimo tempo la gente fosse immediatamente in grado di distinguere che cosa fosse fumetto da che cosa fosse narrazione per immagini di altro tipo. Il linguaggio del fumetto si è perciò compattato in una serie di forme specifiche, riconosciute dal grande pubblico, e si è evoluto con rapidità sviluppandole e poi magari anche negandole (come sempre avviene nelle evoluzioni), ma non ignorandole. Dunque, mentre è del tutto legittimo – e anzi doveroso – esplorare la storia della narrazione per immagini partendo da 30.000 anni fa (e magari anche prima), la storia del fumetto non ne è che un episodio, iniziato poco più di un secolo fa. Mettere le cose diversamente significa giocare con le parole.
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E, visto che siamo in tema polemico, ne approfitto per affrontare un altro tema, molto più piccolo, un tema di parole, appunto. L’espressione graphic novel è entrata nell’italiano attraverso il suo uso al femminile: la graphic novel. Ci sarà anche un errore alla base di questo uso, ma è l’uso che fa la regola, e non viceversa. Altrimenti dovremmo correggere un secolo di trattati sul cinema, e sostenere che si dovrebbe dire la film, visto che pellicola è femminile in italiano. Qualcuno ha cercato di convincermi del fatto che film è maschile perché i termini stranieri che entrano in italiano vanno in maschile: ma allora dovremmo dire il weltanschauung, il sauna, il samba. Tutti e tre, questi ultimi esempi, mi suonano ridicoli almeno quanto il graphic novel.
Ovviamente, si può sempre tradurre, e invece di scrivere la graphic novel, possiamo scrivere il romanzo per immagini – e non sarebbe una scelta malvagia. Chi sostiene la tesi dell’errore (poiché novel significa romanzo, che è maschile) dovrebbe riflettere sul fatto che novel proviene dal francese novelle o nouvelle, che è a sua volta un calco dall’italiano medievale novella. E quindi l’errore si basa su una verità storica: sono stati gli inglesi a spostare poi il significato del termine. Che novella a un orecchio italiano continui a suonare femminile anche nella sua trasmigrazione linguistica non mi sembra un fatto così deprecabile!
Sono d’accordo: inutile andare a cercare origini sempre più remote per la nascita del fumetto. Che è quella su cui, per anni, si è convenuto (Outcault & soci), contrassegnata – fatto non trascurabile – dalla diffusione attraverso un medium specifico: il quotidiano a grande tiratura. E anche sulla querelle “graphic novel”, maschile o femminile, le tue considerazioni mi sembrano ragionevoli: ma forse, in quello che scrivo, continuerò ad usare il maschile.
Caro daniele, il dibattito si fa interessante. Finalmente 😉
Concordo sulle premesse: il nodo è quello dellla distinzione tra fumetto e narrazione per immagini. Anche io sono convinto che fumetto e picture book (per dirne una), per esempio, siano due specie diverse all’interno della narrazione per immagini.
Concordo anche su un altro punto decisivo: “la differenza tra Outcault e Töpffer non è un salto di qualità espressiva, bensì il sistema di produzione e consumo”.
Ritengo però superficiale e ideologico il legame (convenzionale) che la fumettologia ha sviluppato tra queste premesse e la definizione delle “origini” associata alla fine ‘800. Ho provato a spiegarlo in altre sedi, mostrando anche come questa tendenza sia molto italiana…
Mi limito a sottolineare un punto, con una comparazione. Il cinema delle origini è quello dei Lumière, Edison, Skladamowski ecc. Il cinema come industria viene invece con gli anni 10 e gli studios. E il fumetto?
Il fumetto abitualmente considerato “delle origini” è il secondo, e non il primo! Buster Brown o Yellow Kid sono “solo” i primi blockbuster industriali. Importantissimi soprattutto per la nuova diffusione sociale che impongono al prodotto, modificandone persino la percezione comune. Ma non basta certo un boom industriale, per parlare di “origini”. Come per il cinema dei Lumière. Ed ecco che la palla torna agli studi sull’Ottocento…
Pongo allora 3 questioni, con cui intendo continuare un bel dibattito sul tema:
– ritengo scorretto andare a cercare le origini nella narrazione per immagini della preistoria o del rinascimento. Di analogie con la Colonna Traiana non voglio mai più sentire parlare… 😉
– ritengo anche scorretto trattare i comics di fine Ottocento come “primi fumetti”, perché semmai ne sono solo la trasformazione industriale
– ma allora dove guardare? Io credo che al momento valga la pena insistere a illuminare la fase storica in cui l’industria editoriale esiste già, ovvero nell’Ottocento, producendo forme, prodotti e consumi nuovi. Soprattutto in Francia, Germania, Inghilterra (non a caso Paesi già industrializzati) non siamo più in una fase di artigianato culturale: c’è un mercato maturo e moderno, varie forme di narrazione per immagini tra cui una che è il fumetto.
Vedo 2 rischi.
1- Uno è andare a cercare “quarti di nobiltà” in forme linguistiche o artisti precedenti. Il lavoro di Smolderen o altri sull’Ottocento mi pare all’80% lontano da questo rischio.
2- Nella difesa a oltranza di Yellow Kid e simili, invece, rilevo un profondo sedimento culturale: un’idea del fumetto ricalcata su quella di altri media (penso al cinema, come ho provato a dimostrare in alcune analisi, tra cui quella al convegno di Udine).
Ma ora stop. Proseguiremo altrove. Nei commenti di un blog diventa tutto illeggibile 😉
Direi che le considerazioni sono così interessanti e così foriere di sviluppi (ed eventuali obiezioni), che non si può restringere la replica a un semplice commento (tu sei già stato bravissimo!).
Mi prendo un attimo di riflessione per un futuro (prossimo) post.
[…] comunicazione visiva, fumetto, jazz, musica, narrazione per immagini | Leave a Comment In almeno un post precedente ho introdotto il tema delle immagini finalizzate al racconto. Ma quella volta poi il discorso si […]
Sono d’accordo con Matteo, pure io mi sono espresso in termini simili in altra sede.
Il fumetto ha origine in un sistema editoriale esistente (anche se non necessariamente massificato) e con l’introduzione di innovazioni (poi divenute a poco a poco convenzioni) linguistiche e intenti specifici di narratività visuale. Le stesse parole di Töpffer sul suo lavoro relativo alle histoires en images mi sembra più che mai eloquente.
Poi risalire a Hogarth e altri può esser lecito, ma qui dovremmo vedere che tipo di documentazione viene adoperata e con quali argomentazioni. Il discorso sulle origini del fumetto ad ogni modo, e secondo me per ovvie ragioni, non dovrebbe prescindere da un discorso (difficile, delicato e giocoforza «a posteriori») su una definizione operativa del fumetto, cioè entro quali limiti un fumetto è un fumetto e oltre quali non lo è più. Le storielle illustrate in quadretti singoli per pagina di Max e Moritz di Busch vengono da più parti definite fumetti e da altri vengono definite protofumetti o antecedenti del fumetto (non direi antenati, parola da evitare con lo stesso disgusto con cui Matteo liquida, giustamente, la colonna Traiana ecc.). Allora occorre riflettere sulla natura linguistica di quelle doppie pagine aperte dei libretti di Busch per vedere il tipo di gioco sequenziale, la scansione dell’occhio del lettore da un quadretto all’altro, l’ellissi e ricostruzione implicita coinvolte nell’atto di lettura/passaggio fra quei quadretti. Se si può dire che quelli siano fumetti (lo stabilirlo può essere fallace, più o meno, meglio o peggio motivato, di sicuro «arbitrario»), allora abbiamo un periodo e alcuni autori di partenza, visto che a metà Ottocento non c’era solo Busch ma tanti altri autori più o meno (o quasi del tutto) dimenticati.
Marco
Caro Marco, da qualche parte bisogna tagliare, e il taglio è sempre convenzionale. La narrazione per immagini ha una lunga storia (e ne ho parlato a più riprese, anche in un post molto recente), e gli avvicinamenti a quello che chiamiamo fumetto sono tanti nel XIX secolo.
Ma credo che negli USA degli anni Novanta succeda qualcosa di nuovo e definitivo, anche se non, in sé, particolarmente originale. Ma da lì non si torna più indietro, e nasce una comunità di autori e di lettori che non ha precedenti.
Per questo io resto fermo su quella data.
Ciao